Il mio blog preferito

venerdì 28 luglio 2023

La divina commedia - Go Nagai


Verso Novembre, quando stavamo ancora vagando per la selva oscura con risultati tutt'altro che commendevoli, Odisseo arrivò una mattina recando seco un enorme tomo. Quando entrai in classe lo vidi in mezzo a un capannello che sfogliava il tomo con grande interesse.
"Prof, ho comprato la versione manga della Commedia" mi annunciò trionfante.
I miei occhi diventarono grandi come tazze da tè.
"Una versione manga della Commedia?" chiesi interdetta.  Ed ero interdetta, sia perché non avevo mai sentito nemmeno vagamente dire che esistesse una roba del genere, con tutte le pagine specializzate che seguivo, sia perché trovavo sbalorditivo che a un qualsivoglia mangaka fosse mai venuto in mente di disegnare la Commedia. D'accordo, Dante è abbastanza famoso anche all'estero, ma insomma era una roba davvero molto occidentale.
Quando poi Odisseo mi spiegò che l'autore era Go Nagai miei occhi diventarono grandi come ruote da mulino.
Nagai da noi è decisamente famoso: dai suoi manga sono state tirate fuori le grandi serie della prima invasione dei cartoni animati giapponesi, ovvero Mazinga, il Grande Mazinga, Jeeg e Goldrake. Ma pur essendo universalmente molto apprezzato (non da me: lo trovavo troppo scuro nel tratto, e infatti di lui non ho niente in casa. Ma credo che presto rimedierò appunto con la sua Divina Commedia) non ce lo vedevo a entusiasmarsi per...
Evidentemente sbagliavo.
Faticosamente presi l'enorme (e pesantissimo) tomo e lo sfogliai. 
"C'è dentro tutta la storia, dall'inizio alla fine" mi spiegò Odisseo.
Ma poi, continuavo a pensare dietro ai miei occhi grandi come ruote da mulino, com'era possibile che non ne avessi mai sentito parlare? C'è stato l'anno di Dante, ci hanno fatto verdi a righe rosa con Dante e ancora Dante e poi Dante, ma forse adesso dovremmo anche parlare un po' di Dante. Avevano ristampato Dante in tutti i modi, possibile che non mi fosse giunta nemmeno una vaga voce...
Evidentemente era possibile. 
Lo sfogliai distrattamente, mi informai sul prezzo (30 euro, praticamente un regalo) e stabilii che quella roba doveva arrivare al più presto nella biblioteca di scuola.
Senza il prezioso apporto di Odisseo avrei continuato a non sapere niente della versione della Commedia di Nagai, perché la pregiata libreria che organizza la Mostra del Libro non ci pensò nemmeno a portarlo. Glielo chiesi io. Con mio disappunto non se lo filò nessuno nei giorni della Mostra, ma lo misi comunque da parte tra gli omaggi e ancor prima di catalogarlo me lo portai a casa per leggerlo con cura. Quella che segue è la presentazione del pesantissimo libro. Un vero mattone, garantisco (ma ben rilegato). 

A un certo punto della sua vita Go Nagai incrociò la Divina Commedia illustrata da Gustave Doré. Come già tanti prima di lui ne rimase molto affascinato, e ne trasse spunto per un paio di opere: prima Mao Dante*, poi Devilman, entrambe degli inizi degli anni 70.
Ma venne il giorno, più di vent'anni dopo, in cui decise di disegnare proprio la Divina Commedia, quella dove un tal Dante si ritrovò vincitore di un viaggio premio nei i tre regni dell'aldilà. All'apparenza l'argomento era piuttosto estraneo alle storie dove grandi robot combattevano contro invasori dal passato e dal presente - ma chi ha frequentato anche solo la regina Himika e il suo successore, l'Imperatore delle Tenebre, sa che Nagai si è sempre occupato volentieri di demoni più o meno perversi e sempre da un punto di vista piuttosto partecipe. Ebbene sì, i demoni gli piacciono, e li disegna molto volentieri (in modo davvero efficace, tra l'altro).
La Commedia è un testo molto particolare e, verrebbe da pensare**, poco esportabile: una roba terribilmente cristiana, secondo una religione che si basa su un impianto completamente diverso dalle religioni orientali. Tuttavia Nagai decise di disegnarla e, senza una particolare preparazione teologica e con nozioni relativamente scarse sul medioevo italiano decise di raccontare quella storia, proprio quella.
Ne è venuto fuori un racconto che forse Dante avrebbe seguito con una certa sorpresa, ma nemmeno tanto. Strano ma vero, i concetti base ci sono. Quasi tutti. Magari un po' rielaborati, alla luce di una personalità davvero differente.
Sul piano grafico Dante (intendo proprio il personaggio di Dante) non è molto sorprendente: si sa che a un certo punto qualcuno fece un ritratto di Dante e a quel ritratto Dante si trovò inchiodato per l'eternità.
Questo a sinistra è il ritratto più famoso, di Botticelli (1495) e deriva in parte da un altro ritratto fatto per il Duomo di Firenze da Domenico di Michelino (1465):

 

Da sempre e per sempre Dante per noi è così: perennemente vestito di rosso, col cappuccio,  una ghirlanda di alloro in testa e l'aria fra l'irritato e lo scocciato. Che viene da domandarsi: ma sul serio andava in giro con una ghirlanda di alloro in testa? Davvero non gli capitava mai di portare vestiti di un altro colore? Non sorrideva mai? Proprio mai? E sempre il cappuccio, sempre, sempre, sempre?
D'altra parte dobbiamo pure ammettere che vedere raffigurato Dante con i capelli al vento e con un sorriso smagliante ci lascerebbe tutti un po' traumatizzati. E così Go Nagai - che del resto non è uso a raffigurare personaggi sorridenti, con l'aria allegra e vestiti pastello - ci offre un Dante perfettamente intonato alla nostra immaginazione. Lo fa più giovane, però, con lo sguardo molto intenso e, spesso, con l'espressione sconvolta (considerando quel che vede, ci può  stare). Del resto, anche Doré lo disegnava così, e dalle immagini di Doré Nagai prende diverse tavole. Belle scure, come piace a lui, con tonnellate di linee cinetiche e molte ombre. Insomma, col suo stile.
La prima cosa che mi ha colpito però è stato il panorama di Firenze, con una bella cupola di Brunelleschi ben stagliata sullo sfondo.
La cupola del Brunelleschi Dante non l'ha mai vista, perché è arrivata diverse generazioni dopo di lui. Probabilmente Nagai ha preso il panorama di Firenze dal secondo ritratto - che sta appunto dentro il Duomo, quello della cupola, e dunque è relativamente normale che uno dei più tipici simboli di Firenze venga citato, a costo di confondere un po' le date.
La cupola di Firenze con Dante che la guarda, lo confesso, mi ha divertito molto; che un giapponese non si sia preoccupato di documentarsi più di tanto in proposito mi sembra comunque più che scusabile.

La Divina Commedia di Nagai è un tomo enorme, spesso cinque centimetri e con diverse centinaia di pagine, 24x17 cm. Non un tascabile di quelli che puoi farti scivolare in borsetta per leggerlo in treno. Mi farebbe piacere anche dire quante sono le pagine, ma per saperlo dovrei contarle una per una: perché in tutto il libro e nemmeno nell'indice c'è un numero che sia uno***. Dallo spessore però garantisco che l'Inferno occupa più di due terzi, il Purgatorio prende a malapena un sesto e per il Paradiso restano gli spiccioli. Che Nagai traesse assai maggiore ispirazione dall'Inferno non mi sorprende, anzi avrei trovato strano il contrario. D'altra parte, per quanto Dante avesse costruito tre cantiche del tutto simmetriche e di lunghezza praticamente identica, nell'immaginario collettivo la Commedia è soprattutto l'Inferno: è più facile da seguire, ci sono un sacco di effetti speciali e il quadro è molto più animato. Io, che di natura non amo molto né le storie di avventura né le tinte fosche preferisco di gran lunga il Purgatorio e mi compiaccio molto delle cascate di luce che adornano il Paradiso, anche se non di rado mi accascio durante certe raffinate disquisizioni teologiche che riesco a seguire solo fino a un certo punto.
Ci sono poi delle differenze. Prima di tutto Beatrice - la più deliziosa e simpatica Beatrice che abbia mai visto. Nagai, dopo che Virgilio l'ha nominata spiegando perché è venuto ad aiutare Dante, parla di lei e spiega al lettore chi è - in pratica riassume la Vita Nova. Non solo, riesce anche a spiegare molto bene l'essenza della storia d'amore tra i due, che è decisamente particolare. Come ho detto, Beatrice è simpatica e gentile: quando ritrova Dante nel paradiso terrestre non gli fa una drammatica piazzata come avviene alla fine del Purgatorio, gli sorride. E sorride anche Dante. Ebbene sì, abbiamo anche delle immagini dove Dante sorride di gioia. Secondo me vale la pena di comprare il volume anche solo per quello.

Provo adesso a scendere più nel dettaglio.
Prima di tutto una nota di demerito: c'è sì un indice. Senza il numero delle pagine, e vabbé, tanto le pagine non sono comunque numerate - che non mi sembra poi questa bella cosa.
Ma non c'è un indice dei nomi. Come nel poema, Dante si ferma ogni tanto a parlare con qualche anima. Alcune sono famose di per sé, altre, come Pier delle Vigne, sono famose principalmente perché Dante ne ha parlato - anche se ne ha parlato perché ai suoi tempi erano molto famose. Perché il lettore non deve avere una lista dei nomi, e magari anche dei personaggi che ci sono e parlano ma il cui nome è stato tralasciato perché tanto ai giapponesi, o almeno a Nagai, non interessava dirlo? Alcune anime sono anonime ma un nome nel poema lo avevano. Altre hanno nome, cognome e magari l'autore ne racconta qualcosa, ma dove sono? E naturalmente non ci sono solo le anime, ci sono diavoli, spiriti malvagi e pure spiriti buoni, e ci sono i luoghi: Cocito, Stige, paradiso terrestre. Uno vede subito che non c'è Bertran de Born e non perde tempo a cercarlo. Manca un sacco di gente ed è normale, altrimenti il volume di pagine avrebbe dovuto averne tremila e forse Nagai starebbe ancora lì a disegnare per finirlo.
Non viene sforbiciata alcuna delle minuziose classificazioni in cui tanto Dante si diletta, e questo in parte spiega perché l'inferno, che è pieno di gironi, cerchi, sottogironi, bolge e non so che altro prende tanto più spazio. No, un momento: nel paradiso vengono indicati solo i cieli, con un vago accenno alla rosa mistica (che però non viene mai nominata), e della Madonna non si fa cenno. Nemmeno di Gesù, ora che ci penso. Il futuro esilio viene gratificato di un solo, piccolo accenno, laddove nel testo originale ogni cinquanta versi Dante trova qualcuno che glielo predice. La parte politica è completamente cassata, come buona parte delle, ehm, spiegazioni scientifiche. E anche le parti dove si parla della redenzione. E', come dire, un aspetto del tutto secondario della questione su cui Nagai non ha ritenuto indispensabile soffermarsi.
In realtà Virgilio dichiara di non sapere cosa succederà dopo il giudizio finale, quando le anime si ricongiungeranno ai loro corpi, ma ritiene probabile che riavere il corpo dovrebbe comunque costituire un miglioramento per loro. In sostanza, l'autore lascia capire (ma non dice esplicitamente) che le pene dell'inferno potrebbero non essere eterne, almeno non con quella intensità.
Virgilio, a proposito, sta nel purgatorio (ma non viene precisato in quale balza del monte) e non nel limbo, che pure esiste e viene rapidamente descritto.
Abbiamo anche una scena aggiunta di tutto punto: quando arrivano da Minosse c'è una donna, molto perbenino, che grida e strepita che c'è stato un errore e che lei non ha mai commesso alcun peccato. Lascio immaginare la reazione di Minosse e la fine che farà la poveretta, ma è una scena davvero efficace, e secondo me a Dante non sarebbe affatto dispiaciuta perché spiega molto bene perché si finisce all'inferno.
Non è l'unico cambiamento: per esempio nel girone dei golosi la pioggia dissolve i corpi e quindi la schifida poltiglia su cui Dante e Virgilio camminano è formata dai corpi dei dannati, che poi riprenderanno forma per continuare a patire - la cosa impressiona abbastanza Dante, e possiamo capirlo.
Ci sono Paolo e Francesca, naturalmente, e la storia è raccontata con molta cura, anche se è saltata la parte letteraria dove i due innamorati leggono. Molto estesa è anche la scena con Brunetto Latini.
Ulisse non parla, anche se Virgilio racconta nei dettagli la storia dell'inganno del cavallo. Il conte Ugolino invece racconta nel dettaglio tutta la sua storia e anche se non racconta esplicitamente di essersi mangiato i figli, si capisce comunque che c'è qualcosa di cui rifiuta di parlare - il tutto è davvero straziante e molto efficace.
Molto forte è anche la scena della città di Dite, avvincente come solo la miglior fantasy sa essere (e io l'ho vista sempre come una scena fantasy, in effetti).
Tra un girone e l'altro Dante e Virgilio parlano molto: del peccato, del peso del peccato, di ciò che porta l'uomo verso il peccato.
Nel purgatorio i due parlano ancora di più, soprattutto del libero arbitrio, del destino dell'uomo, del senso della vita e di tante altre cose molto interessanti, a volte in un modo che mi suona strano - certe discussioni mi suonano un po' diverse da come Dante le ha scritte, ma suonano molto interessanti. Non so se Dante avrebbe sottoscritto tutto, ma certo avrebbe ammesso che non si tratta di discussioni superficiali.
Dante si arrampica su per la montagna, con le sue sette P sulla fronte che via via scompaiono. C'è molta attenzione ai colori, e vengono spiegati con cura sia i colori dei tre gradini della scala che porta all'angelo che incide le P (che indicano la trasmigrazione alchemica dell'anima durante la confessione) sia quelli delle vesti delle fanciulle del paradiso terrestre, mantate nei tre colori di bianco, rosso e verde (che sono le tre virtù teologali, dove la carità, molto correttamente, è tradotta con "amore"). Piuttosto interessante dato che, a parte le due pagine introduttive, il manga è completamente in bianco e nero. Viene descritto molto bene anche il corteo che Dante incrocia e il suo significato.
Con grande dispiacere da parte mia Virgilio non incorona Dante in qualità di anima ormai padrona di sé stessa, ma il mancato addio (Virgilio sparisce senza dir niente) è molto commovente.
Il paradiso, temo, tranne per le parti con Beatrice, è più che altro un compitino ben fatto ma le tavole finali sono davvero belle e probabilmente sono la cosa più gioiosa che Nagai abbia mai disegnato nella sua lunga carriera.

* Mao Dante non è, come qualcuno potrebbe essere portato forse a pensare, la storia di un gatto di nome Dante, bensì una roba assolutamente demoniaca che racconta le vicende di un demone di nome Dante. Altro non so né bramo sapere.
** o almeno a me è sempre venuto da pensare
** a occhio dovrebbero essere tra le ottocento e le novecento

mercoledì 26 luglio 2023

Haeretica - Sulla posizione sociale e contrattuale di Penelope e sui buchi di trama dell'Odissea

John William Gosward Il favorito (1901)
In rete l'immagine è associata a Penelope, non si sa perché.
Però c'è un delizioso gattino rosso, dunque perché no?

Nonostante l'Odissea abbia la fama di un poema ricco di avventure assai varie, due terzi del poema sono dedicati a raccontare di come Ulisse riuscì a liberare casa sua da un paio di centinaia di cavallette umane dette Proci* che mangiavano a sue spese. Nessuno però si preoccupa di spiegarci come sia stato possibile che si fosse creata quella curiosa situazione che sembra sfuggire ad ogni logica.
Partiamo dall'inizio: una mattina Ulisse, con scarso entusiasmo, lasciò la reggia di Itaca con dentro la giovane sposa Penelope, cui era legato da profondo affetto, e un bambino ancora molto piccolo, tal Telemaco. A Itaca vivevano anche i genitori di Ulisse: la madre Anticlea e il padre Laerte.
La partenza di Ulisse creò dunque un vuoto di potere: il bambino era piccolissimo, la madre ci aveva il notevole inconveniente di essere donna e quindi il potere non lo gestiva e Laerte... boh, Laerte era senz'altro stato il re di Itaca a suo tempo, ma forse in un qualche momento, magari in occasione del matrimonio, aveva passato il trono al figlio. Sta di fatto che nell'Iliade, se non ricordo male, il re di Itaca era Ulisse, ma nell'Odissea lo troviamo che si è ritirato a vita privata in un suo podere e non si immischia più nelle vicende di corte.
Passano gli anni, parecchi. Per prendere Troia ce ne vogliono dieci, poi tutti i greci cercano di tornare a casa, con alterne fortune. Per Ulisse il ritorno però si presenta sin dall'inizio piuttosto complicato e, dopo una serie di traversine, si ritrova incastrato dalla ninfa Calipso che se lo tiene per sette anni nonostante lui non apprezzi granché. Quando finalmente gli dei ci mettono una buona parola Ulisse è lontano da casa da circa vent'anni e da tempo è scomparso da tutti i radar, tanto che quando Telemaco va in giro a cercarne notizie trova ottima accoglienza, tutti si profondono in grandi elogi di Ulisse ma non riesce a raccattare una notizia che sia una.
Penelope dunque è presumibilmente vedova e a un certo punto (dopo sedici anni, quindi quattro anni prima del ritorno di Ulisse) la reggia di Itaca viene praticamente invasa da un paio di centinaia di cavallette umane sotto forma di pretendenti - i famosissimi Proci, oggetto di giochi di parole di dubbio gusto da parte di intere generazioni di studenti. 
Penelope non vuol saperne di risposarsi ma non è in condizioni di opporre un netto rifiuto: perché è una donna, perché a Itaca c'è un vuoto di potere, perché... Ad ogni modo i Proci danno per scontato che l'assenso alle nozze debba darlo lei. Ma si dà per scontato che un assenso lo debba dare per forza, perché a Itaca c'è un vuoto di potere.
Ora, il punto è che in teoria a Itaca non c'è nessun vuoto di potere: il piccolo Telemaco che prendeva ancora il latte quando il padre è partito, dopo vent'anni è cresciuto (la stessa Atena lo esorta infatti a darsi una mossa nel primo libro, in uno dei discorsi più confusi di tutta la letteratura greca - e meno male che è la dea della politica e dell'ingegno, oltre che della guerra).
A venti anni perfino secondo la nostra cultura si viene considerati adulti, almeno secondo la legge**: si vota, si è eleggibili per svariate cariche, si svolgono lavori di una certa responsabilità eccetera. Se il padre di mestiere fa il re ed è considerato morto a vent'anni si diventa re, se non è sicuro che il padre sia morto si diventa quantomeno reggenti.
A Itaca però la sovrana è - sarebbe - Penelope: nel suo primo colloquio con lei, quando è ancora travestito da povero mendicante, Ulisse la chiama appunto re e la loda per la fertilità dell'isola e i suoi numerosi armenti. 
Che c'entrano gli armenti col potere reale? C'entrano parecchio, all'epoca il re era anche il garante della fertilità. Ma un re, da sempre, deve fare anche qualcosa oltre a emanare buone vibrazioni, e ci si aspetta che governi. Penelope invece passa le giornate nei suoi appartamenti e quando scende e dice qualcosa alle cavallette il figlio di solito la rimprovera e dice che deve stare nelle sue stanze a badare alle cose da donna.
E lui, a cosa bada?
A lamentarsi dei Proci.
In conclusione a Itaca abbiamo un ex re, un potenziale re perfettamente in grado di prendere il posto del padre e pure una regina, forse vedova e forse no. I capi di stato a disposizione mi sembrano più che sufficienti a garantire un saldo governo all'isola, specie considerando che la madre non mostra in alcun momento un pur minimo desiderio di far le scarpe al figlio.
A proposito: perché la madre dovrebbe risposarsi?
Non per dare un erede alla corona, visto che l'erede c'è già ed ha pure una età accettabile per fargli fare il re.
Non perché desidera sposarsi. Per carità, dopo vent'anni di attesa il desiderio di rifarsi una vita sarebbe più che comprensibile, ma per tutti i 24 libri del poema risulta che Penelope vorrebbe sì un marito, ma solo nel senso che rivorrebbe indietro quello che aveva già.
In tutti i casi è una donna greca, più o meno, e quindi quel che vuole per il suo letto non è generalmente oggetto di interesse per nessuno. La donna greca era sotto tutela perenne, per quel che se ne sa. Per l'appunto però non stiamo parlando di una donna greca del V secolo a.C., dove un pochino almeno conosciamo il sistema legislativo. Stiamo parlando di una donna del XII secolo a.C. (forse, pare, sembrerebbe) di cui viene narrata la storia in un poema forse scritto nel IX secolo a.C. che però potrebbe essere anche l'VIII, sempre a.C. Sulle leggi dell'epoca (o meglio, delle epoche) si sa proprio pochino, e di diritto matrimoniale men che meno, e nemmeno sappiamo se la donna era davvero sempre sotto tutela perenne.
Comunque, le donne sotto tutela perenne erano e sono guidate in generale da un uomo della famiglia: il padre, il marito o il fratello, oppure il figlio.
Del padre di Penelope nell'Odissea si dice soltanto che esiste e gode buona salute. Dei fratelli sappiamo da altre fonti che sono tre, pure loro in buona salute. 
Però la donna greca ai tempi di Omero veniva comprata: il marito pagava cospicua dote e se la portava via. Si suppone che da quel momento fosse roba sua e che padre e fratelli naturali perdessero i diritti su di lei. Forse.
In realtà Atena, nel suo confuso discorso a Telemaco, gli dice che se lui, Telemaco, pensa che la madre dovrebbe riprendere marito, deve rimandarla ai genitori che decideranno la dote e le cercheranno un nuovo marito - che a quel punto non dovrebbe impicciarsi più di tanto della corona di Itaca, si suppone. 
Telemaco vuole che la madre si risposi? Sì e no. Penelope, sempre nel colloquio con Ulisse travestito, gli racconta che a suo tempo avesse chiesto esplicitamente alla madre di non risposarsi, ma che in seguito ha cambiato idea e adesso sarebbe contento che la madre si risposasse, così i Proci si leverebbero dai piedi e la smetterebbero di banchettare a loro spese. Il ragazzo però si dimostra piuttosto sprovveduto se pensa che davvero i Proci se ne andrebbero, una volta che Penelope se ne fosse scelto uno: è chiarissimo che costoro trovano la situazione troppo comoda, e in effetti si sono organizzati molto bene: pranzo e cena a palazzo,  e dopo cena si ritirano con le ancelle per divertirsi un po'. In effetti alle ancelle i Proci piacciono molto di più che a Penelope, e qualcuna ha perfino avviato delle relazioni stabili.

Qualche riga dopo, Atena poi spiega a Telemaco che dovrebbe trovare un marito alla madre, una volta che abbia la certezza che il padre è morto, e questa è l'unica parte del suo discorso che abbia un po' di senso.
I Proci però non vanno a corteggiare Telemaco dicendo "Dai tua madre a me". Vanno da Penelope. Che non vuole sposarsi e li tiene a bada con vari pretesti e con la sua famosa tela. Quindi forse Atena sta farneticando.
A un certo punto del poema Penelope dice che ai suoi tempi chi voleva sposare una donna portava doni alla famiglia e alla donna stessa, per ingraziarsi tutti quanti, e non stava a ingozzarsi a spese della futura sposa. I Proci ammettono che quel che è giusto è giusto e le portano dei doni, ma non per questo smettono di mangiare a palazzo. 
Nessuno troverebbe da ridire se un bravo figlio, desideroso di compiacere la madre che vorrebbe un po' di compagnia dopo aver dormito per diciannove anni in letto vuoto, si impegnasse ad accontentarla. Ma, ripeto, i Proci non vanno a stressare Telemaco, bensì stressano Penelope. Di Telemaco tollerano a mala pena l'esistenza in vita, e anzi all'inizio del poema entrano nell'ordine di idee di levarselo dai piedi, dimostrando con ciò di essere gli unici ad avere almeno un briciolo di buon senso: eliminato il figlio, si tratta solo di forzare Penelope a sposarsi per prendere possesso del regno.
Dunque Telemaco non è considerato l'erede del padre. Forse che a Itaca è mal visto?
Niente affatto. A Itaca tutti si lamentano dei Proci che mangiano a sbafo e tutti garantiscono a Telemaco il loro appoggio. Se c'è una fronda filoprocese, Omero si è dimenticato di farcene cenno. 
In compenso nessun Proco offre a Telemaco una qualche sorella da sposare, che potrebbe essere un buon sistema per impossessarsi del regno di Itaca.
Telemaco potrebbe risolvere la situazione con l'aiuto dei capi di Itaca, che si riuniscono pure in parlamento quando li chiama. Oppure, volendo, potrebbe andare dal padre di Penelope e chiedere un aiutino per liberare il palazzo dalle cavallette umane. Oppure mettersi d'accordo con loro, visto che Penelope assicura, sempre nel solito colloquio con Ulisse travestito, che i suoi di lei genitori la stressano perché si risposi. Oppure lo potrebbe chiedere ad Atena, quando se la trova davanti che gli fa la predica.
Non fa né l'una né l'altra cosa. In effetti non fa nulla se non andare in giro a cercare notizie del padre (che a sua volta è l'unico suggerimento che Atena è stata buona a dargli, pur sapendo benissimo che Ulisse è ancora vivo e addirittura sulla strada del ritorno).
D'accordo, siamo tutti consapevoli che i poemi cosiddetti omerici sono stati fatti con la tecnica del copia&incolla e quindi presentano qua e là un po' di incongruenze, ma secondo me qua si esagera.

* "pretendenti", nelle traduzioni più moderne e letterali - e grazie a queste nuove tradizioni i giochi di parole son finiti come d'incanto

**la mamma che prepara la colazione in tre portate al figlio trentenne non conta: una volta ben coccolato, il figlio esce di casa e va a dirigere aziende, organizzare festival del cinema, elaborare sistemi informatici su scala nazionale eccetera. Le coccole familiari sono una cosa, la posizione nella società è un'altra
 

lunedì 24 luglio 2023

Lunedì film - Il mio vicino Totoro (film per le medie)

Nel 1988 il grande Miyazaki, di cui lingua umana non riuscirà mai a cantare lodi adeguate, decise nella sua immensa benignità di elargirci questo nuovo capolavoro. Sto sviolinando in questo modo perché, pur avendo sempre apprezzato molto ogni film di Miyazaki che mi è passato sotto gli occhi, quando ho visto questo ho sempre avuto l'impressione che ogni singolo fotogramma sin dall'inizio proclamasse a gran voce "Io sono un capolavoro!". Dipende probabilmente dalla luminosità tutta particolare che emana, e da una sorta di carica vitale che trasmette. E' possibilissimo che non faccia a tutti questo stesso effetto, ma a qualcuno deve pur averlo fatto, perché la casa di produzione ha scelto proprio il Totoro come suo marchio.
Siamo negli anni 50 e una famiglia composta da un giovane padre e due giovanissime figlie si trasferisce in una casa in campagna non troppo lontano da Tokyo, per stare vicino alla clinica dove è ricoverata la madre (tubercolosi, sembra di capire) e andarla così a trovare più spesso.
Il padre, uno studioso che lavora per l'università di Tokyo dove va un solo giorno alla settimana, dedica molto tempo alle due bambine ed è un uomo molto solare, aperto e ricco di immaginazione. Le due bambine sono decisamente vivaci e l'idea di essere finite in una casa diroccata gli piace molto. La casa li accoglie con entusiasmo moderato, e i nerini del buio (detti anche corrifuliggine) si rintanano abbastanza schifati dalla situazione. Tuttavia, dopo una bella pulizia e qualche lavoretto di restauro il posto si rivelerà piacevolissimo e i vicini molto accoglienti e gentili.
Durante una delle sue prime passeggiate la sorella più piccola si ritrova in una specie di galleria interna formata dalla vegetazione che circonda un enorme albero di canfora, e lì vede uno strano essere molto affascinante, con cui fa amicizia:
Il padre le spiegherà poi che ha conosciuto un Totoro, probabilmente lo spirito protettore della zona. Il giorno dopo nel corso di una passeggiata i tre cercano di ritrovare la tana del signor Totoro ma la galleria sembra scomparsa. Il padre spiega alla figlia che non sempre il signor Totoro ha viglia di farsi trovare ma ad alta voce lo ringrazia per la gentilezza che ha mostrato verso la sua bambina.
Il signor Totoro comparirà anche in altre circostanze e una sera le due figlie lo trovano alla fermata dell'autobus dove erano andate a prendere il padre, con l'ombrello perché pioveva. Per aiutarlo a ripararsi dalla pioggia gli prestano il loro secondo ombrello, in una delle scene più famose dell'animazione giapponese.
Il signor Totoro naturalmente non sta aspettando l'autobus di linea bensì un mezzo di trasporto molto più particolare, ovvero il nekobus (gattobus in italiano)
che tra l'altro viaggia molto più veloce dell'autobus normale.
Ma, scopriranno le due bambine, il signor Totoro sa anche volare, una delle tante scene memorabili del film è appunto il volo notturno con lui (o meglio attaccate a lui)
Passano le settimane, la madre migliora e dovrebbe tornare a casa per qualche giorno, ma proprio il giorno prima dall'ospedale di Tokyo telefonano all'unico telefono del paese (una scena squisitamente vintage, a parte l'angoscia delle due sorelle) per chiedere al padre di richiamarli. L'insieme è più che inquietante e anche quando il padre spiega che il ritorno della madre è solo rimandato per colpa di un raffreddore la sorella più piccola, spaventata a morte, sparisce dopo aver gridato alla sorella maggiore che già una volta avevano detto che si trattava di un leggero peggioramento e poi la madre era stata via per mesi.
Gli abitanti della zona cominciano a cercare la piccola per tutti i campi e tutte le strade ma della bambina non c'è traccia e si comincia a temere un incidente. Alla fine la sorella maggiore, dopo un pomeriggio di ricerche inconcludenti, corre all'albero di canfora e invoca l'aiuto del Signor Totoro - che accorrerà prontamente e riuscirà facilmente a trovare la sorellina che, partita di corsa per portare all'ospedale alla madre una pannocchia di mais particolarmente bella e nutriente, si era ben preso irrimediabilmente persa. Il Signor Totoro chiamerà il Gattobus, che porterà le due sorelle proprio accanto all'ospedale, dove lasceranno la pannocchia sul davanzale della camera della madre, proprio nel momento in cui questa sta spiegando al padre che appunto si era trattato solo di un raffreddore e presto sarebbe potuta tornare davvero a casa, e infatti sembra stare davvero molto meglio rispetto alla prima visita che le avevamo visto fare dalla famiglia.

Il Signor Totoro e i nerini del buio non sono gli unici esseri magici che le sorelle incrociano né l'enorme albero di canfora e la galleria di fronte che appare e scompare sono gli unici vegetali degni di nota, e tutte queste presenze che circondano la casa e i dintorni sono tanto amichevoli quanto disponibili ad armonizzarsi con gli umani - che a loro volta sembrano risentire favorevolmente dell'atmosfera conferita dallo spirito protettore a tutta la valle.
Il film dura 90 minuti, che per la scuola rappresenta quasi la perfezione e carica la classe di vibrazioni positive. Inoltre spiega molto bene il rapporto che dovrebbe instaurarsi tra uomini e ambiente, anche se di fatto le tematiche ambientali non sono nemmeno sfiorate di striscio. 
L'ho trovato molto indicato per una prima media, ma com'è noto i film di Miyazaki non hanno età e qualsiasi momento è buono per vederne uno - e questo in modo particolare.

giovedì 20 luglio 2023

Leggere, forte! - 2 - L'ora di lettura (che poi è una mezz'ora che diventa sempre quaranta minuti).

Anna Speshilova - Reading
Durante le vacanze di Natale mi sono preparata con cura al progetto "Leggere, forte!" dell'INDIRE. A tale scopo ho prima di tutto letto con tanta pazienza il manuale, il cui pregio maggiore non consisteva nella capacità di sintesi e il cui motto sembrava essere "Se un concetto resta valido dopo esser stato ripetuto cinquanta volte, perché non ripeterlo  altre cinquanta? Dopotutto, nel più ci sta il meno".
Ivi si spiegava e ri-spiegava fino allo sfinimento (del lettore) che la lettura ad alta voce fatta alla classe era bella, buona e portatrice di infiniti vantaggi e utilità; solo che, se ti ritrovi a leggere un manuale per la lettura da fare ad alta voce in classe, si suppone che tu parta dall'idea, magari un po' generica, che leggere in classe può apportare dei vantaggi - fosse anche solo quello di intrattenere e istruire i giovani ascoltatori e creare delle vibrazioni positive nel gruppo, e insomma sei già abbastanza convinto. Se il concetto base è che ai ragazzi piace ascoltare la lettura, basta ripeterlo una decina di volte, credo, anche senza riportare le dichiarazioni di trentasette insegnanti che ti spiegano che ai ragazzi la lettura fatta ad alta voce dall'insegnante piace.
Poi si spiegava che era opportuno leggere qualcosa che coinvolgesse gli alunni, e anche lì la buonanima di Catalano avrebbe approvato assai, perché certo è meglio leggere ai ragazzi un testo ben scritto e che li affascini piuttosto che qualcosa che gli sembra una palla micidiale, anche qualora ciò comportasse una certa noia da parte dell'insegnante perché il testo che piace ai ragazzi non gli piace.
Più avanti si passava a concetti un po' meno scontati, del tipo che poteva essere una buona idea tenere conto appunto del giudizio degli ascoltatori, non partire necessariamente dalla lettura integrale di Guerra e pace o I miserabili ma magari all'inizio scegliere testi un po' più corti, non rifilare delle schede di comprensione del testo alla fine della lettura ma magari parlarne un po' in modo informale sentendo cosa avevano da dire in proposito gli ascoltatori e simili. 
Anche sul fatto che si doveva cercare di fare una lettura abbastanza espressiva e un po' coinvolgente, ecco, sì, direi che siamo abbastanza d'accordo anche senza insisterci troppo, e ad ogni modo si spera che nessuno si metta volontariamente a leggere qualcosa ad una classe cercando di annoiarla a morte. D'altra parte nessuno di noi viene da un corso di arti drammatiche (il che probabilmente è un male, e non sarebbe sbagliato che gli aggiornamenti puntassero un po' di più su questo aspetto) e quindi, signori miei, si fa quel che si può, ma un po' di pratica e di ascolto ti portano comunque ad assimilare qualche elemento di base in proposito, anche a essere fatti di legno, e d'altra parte si suppone che partiamo  da una certa qual esperienza di lettura che ci permette se non altro di non inciampare nelle frasi un po' più lunghe.
Meno scontato, ahimé, era il principio che i ragazzi dovessero essere rilassati e in posizione comoda. Tale principio infatti è più facile da applicare alle elementari che alle medie, visto che alle elementari ormai da qualche tempo si parte dall'idea base che gli ambienti scolastici devono essere gradevoli, accoglienti e ricchi di cuscini e simili, mentre alle medie l'idea di base sembra quella di avviare gli alunni ad una educazione spartana, con banchi bassi e piccoli, sedie decisamente dure, classi dipinte in colori deprimenti, niente pale al soffitto per quando fa caldo eccetera. Ad ogni buon conto mi sono fatta un appuntino mentale e ho dato il permesso agli alunni di stare seduti sul banco, se volevano, o raggrupparsi, o ascoltare a occhi chiusi eccetera - ma più di tanto nelle aule delle medie di St.Mary Mead non si può fare. A questo proposito mi sono ripromessa di chiedere di allestire un angolo apposito provvisto di pouf e tappetini e simili nell'Aula Magna ma non sono affatto sicura che sì banale proposta andrà in porto.

Con un certo sollievo ho scoperto che il corso di aggiornamento non era obbligatorio  e quindi mi sono limitata a collegarmi un paio di volte, non ricavandone l'impressione che si trattasse di una roba imperdibile - e va pur detto che di letteratura per ragazzi ne ho sempre letta parecchia e quindi se consigliavano Gaiman  non è che il suggerimento cadesse proprio su un terreno del tutto asciutto, ecco.

Ho scelto con cura i testi da proporre. Prima di tutto un racconto di assaggio, ovvero La foca bianca di Kipling. Come credo di avere già scritto, la Seconda Sfigata è una classe molto animalista, ed ero sicura che la triste storia del massacro delle foche a scopo di raccolta pelli che poi diventava l'eroico racconto di una foca che portava i suoi amici nella Terra Promessa lontano dagli uomini e dalle loro insidie sarebbe piaciuta. Me la sono riletto, poi l'ho letto ad alta voce e ho cronometrato i tempi: con due sedute di poco più di mezz'ora in due giorni consecutivi ce l'avrei fatta. Sarebbe stato un buon modo per aiutare quella ripartenza un po' a diesel che ritengo opportuna dopo un periodo di vacanze.
La foca bianca è piaciuta molto: quando mi sono fermata a metà il primo giorno han chiesto (in realtà preteso) che continuassi ma sono convinta che dividerla in due sia stata una buona idea, perché è un racconto piuttosto lungo. Qualcuno ha chiuso gli occhi, qualcuna si è messa giù, con aria molto rilassata e dopo la lettura sembrava uscita da una nuvoletta. Molto carino.
Finito il racconto tutti han dichiarato di averlo molto gradito. Abbiamo fatto una rapida analisi dei temi presenti nel racconto (che sono una infinità) ma Romeo ne ha tirato fuori uno che non avevo mai considerato: l'uomo forte al comando - più esattamente la foca forte al comando, che risolve i problemi per tutti ma pretende di essere obbedita, anche a suon di botte se necessario. Ammetto che avevo sempre visto Kotick più che altro come un Predestinato - ma non c'è dubbio che è anche molto autoritario (ero invece rimasta colpita dal fatto che della fidanzata di Kotick non sappiamo niente, nemmeno il nome, solo che promette di aspettare il suo foco che deve seguire la sua missione; nelle letture precedenti non ci avevo mai fatto caso, probabilmente perché ancora abbastanza immersa in un certo tipo di mentalità in cui la brava foca femmina non crea problemi al suo foco e sa aspettare).
Il giorno dopo, finita la lezione di Storia, Peggy ha chiesto "Non si potrebbe continuare il racconto di ieri?".
Dopo un attimo di silenzio interdetto qualcuno le ha spiegato con bel garbo che il racconto era finito e non c'era altro da leggere in proposito. 
Peggy ci è rimasta molto male. "Speravo in un seguito". Ma purtroppo il seguito non esiste, per quel che ne so.
Kipling ha sempre raccattato bene, con quella classe. In effetti Kipling ha sempre raccattato bene in qualunque classe abbia provato a proporlo e sospetto che sia un po' sottoutilizzato, a scuola.

La settimana dopo si parte con Il piccolo popolo - e mai si vide libro più adatto a quello per essere letto dall'insegnante, perché una delle poche copie disponibili nella provincia di Firenze era in mano mia, il formato digitale non esiste e insomma non l'avrei potuto mai scegliere come libro di narrativa. Inoltre abbondava in agganci ai temi ecologici di tutti i tipi, oltre che al colonialismo e all'incontro con il diverso che in questi tempi è considerato a scuola tra i temi portanti e importanti. E considerato che l'unica copia a disposizione me la portavo su e giù da casa per provare la lettura e calcolare i tempi, era anche un libro adattissimo a essere letto da una sola persona - nel caso specifico, io.
Come ho già scritto è un bel romanzo, ma con qualche punto morto qua e là e un po' troppi personaggi, per giunta quasi tutti con nomi anglosassoni e quindi facili da confondere. Ho rimediato nominando ogni settimana un paio di segretari che doveva segnare i personaggi nuovi e via via incolonnarli tra i Buoni e i Cattivi, con possibili cambi di colonna nel corso della lettura. Tutto ciò è poi servito per il tabellone finale che è venuto molto bene, con un bellissimo Tuttopelo disegnato da Pisola e colorato da Carl Palmer, la scheda dei dati essenziali (titolo, autore, anno della prima pubblicazione, tempo e  luogo della vicenda, una breve sintesi ecc.) un paio di citazioni scelte, i personaggi divisi a gruppi e qualche opinione sparsa.
La lettura ha richiesto circa cinque settimane ed è terminata alla fine di Febbraio.

Dopo le vacanze di Pasqua ho avviato un esperimento misto: Il mistero del London Eye è stato adottato come libro di narrativa. Visto che, al contrario de Il piccolo popolo lo si trova in giro con estrema facilità chi voleva se l'è comprato (anche alla Mostra del Libro), chi voleva l'ha comprato in formato digitale da leggersi sul lettore di casa e chi non voleva comprarlo poteva prenderlo in prestito alla biblioteca di St. Mary Mead, che una volta esaurite le sue due copie l'avrebbe richiesto alle altre biblioteche del circuito della provincia*. In tutti i casi dovevano averne una copia tra le mani.
Le prime cinquanta pagine sono state lette da me, chi voleva seguiva sul libro - ma ho notato che per lo più ascoltavano. Passata la prima settimana sono cominciate le (rullo di tamburi) prove di lettura. Ho stilato la tabella di marcia, capitolo per capitolo; a ognuno spettavano tre prove di lettura assegnate a mio insindacabile giudizio e che tenevano conto delle caratteristiche individuali**. Ogni tanto leggevo anch'io o l'insegnante di Sostegno - diciamo un giorno noi e un giorno i ragazzi. Per primi hanno letto quelli bravi***, per mostrare agli altri con l'esempio pratico cosa voleva dire leggere bene, ovvero intrattenendo l'ascoltatore, scandendo bene le parole, mantenere un bel timbro di voce facilmente udibile, seguendo attentamente la punteggiatura, i corsivi, le pause eccetera. In effetti quella classe, dove certo nessuno soffre di afonia, anche ragazzi provvisti di eccellenti organi fonatori e che gridavano in libertà e sembravano del tutto incapaci di assorbire il concetto di parlare a bassa voce, giunti al momento della pubblica lettura sembravano improvvisamente entrare in un confessionale o leggevano ad una velocità spaventosa, nemmeno stessero facendo un campionato per riuscire a infilare il massimo numero di sillabe in un minuto. Anche ai DSA erano state assegnate le prove, ma avevano il diritto di tirarsi indietro anche all'ultimo momento, visto che nei loro PDP erano esentati dalla lettura ad alta voce (anche se poi, ove richiesti con bel garbo e sempre con tre congiuntivi e condizionali, han sempre letto tutti senza farsi grandi problemi, o addirittura han chiesto più volte spontaneamente di farlo). Nel caso avessero scelto di non leggere li avremmo sostituiti io o Sostegno. Il problema però non si è minimamente presentato, anzi si sono tutti preparati con particolare cura e determinazione.
La prima prova è andata nel complesso abbastanza bene, la seconda e la terza sono andatate a meraviglia, e addirittura quando mancava qualcuno dei lettori ufficiali del giorno**** alcuni si sono offerti di sostituirli leggendo all'impronta. Alla fine del libro tutti avevano imparato a leggere ad alta voce in modo molto rispettabile, compresi i DSA, facendo caso alla punteggiatura, senza inventarsi all'impronta la pronuncia dei nomi stranieri di volta in volta secondo l'ispirazione del momento e seguendo l'arcata espressiva della frase. Così ho potuto distribuire una bella pioggia di voti alti nella lettura, che hanno alzato la media di italiano a tutti.
In conclusione: non si può dire che la mia personale interpretazione del progetto Leggere, forte! sia stata proprio quella prevista dall'INDIRE, ma nel complesso devo dire che ho tratto un buon frutto da questa esperienza e conto di ripeterla (magari, se mi riesce, in un modo un po' più collegiale; chissà?).

* quando scelgo il libro di narrativa ho sempre cura di prenderne uno molto presente nelle biblioteche, appunto per consentire a chi non vuole di non comprarlo. Nel caso specifico se lo sono comprato quasi tutti, e credo che nessuna famiglia abbia rimpianto i suoi soldi.
** in pratica, chi leggeva malino, maluccio o così-così  aveva i capitoli più brevi o più facili.
*** quelli bravi nella lettura, che non necessariamente erano anche i più bravi a Italiano.
**** cosa che è successa spesso, perché tra le caratteristiche della Seconda Sfigata c'è che ogni mattina ne mancano da due a quattro. No, non sempre gli stessi. La cosiddetta frequenza assidua nei giudizi di fine anno ce l'hanno in due. Ed è sempre stato così, sin dai primi giorni della Prima. 

domenica 16 luglio 2023

Haeretica - Il gender non esiste! (soprattutto in letteratura)

L'immagine è presa da un autentico esercizio in rete. Da notare che tutte le risposte sono giuste, mentre il testo contiene un errore: il romanzo giallo non CI incentra, bensì SI incentra.

Una delle moltissime cose che mi perplimono nelle antologie per le medie sono le sezioni dedicate ai cosiddetti generi letterari.
I motivi sono molti, e alcuni mi sembrano piuttosto oggettivi. Ma il primo è del tutto individuale e pure (per me) un po' esistenziale: ai generi credo poco, alla letteratura specifica divisa in generi ancor meno e di fatto nella suddivisione in generi non vedo alcuna utilità, salvo forse per le librerie che in questo modo hanno possibilità di raggruppare prodotti simili a vantaggio del cliente che così può indirizzarsi verso lo scaffale di questo o quel genere - come in effetti faccio anch'io.
Del resto, quando vado a farmi un giro in libreria, non posso sperare che in mio onore disfino tutto per raggrupparlo secondo il criterio... boh, non ho un criterio specifico. Forse per secoli? Forse per paesi? La mia libreria è divisa appunto per paesi, con gli autori in ordine cronologico, e per argomenti. Piccolo particolare: la libreria dei miei genitori era organizzata così, e un po' per genetica e un po' per abitudine mi è sempre sembrato il modo migliore. Tra l'altro anche la classificazione Dewey delle biblioteche funziona grosso modo così (anche se all'interno delle sezioni si va in ordine alfabetico per autori e non in ordine cronologico).

In che senso non vedo l'utilità della divisione in generi? Nel senso che per me i libri si dividono in due grandi categorie: quelli che mi piacciono e quelli che non mi piacciono. Se mi piacciono, possono essere del genere che gli pare, se non mi piacciono idem. I generi narrativi non mi interessano, per me è comunque letteratura e la qualità la stabilisce il mio gusto individuale.
Di fatto, un'opera di narrativa, indipendentemente dal fatto che mi piaccia o meno, non appartiene mai a un solo genere. Harry Potter è senz'altro fantasy ma è anche un romanzo (diviso in sette volumi) di formazione, ha una forte componente politica, è nato come lettura per ragazzi, è un romanzo di scuola (più esattamente di college), è un romanzo di avventura e infine rientra nella categoria "sogno dell'Inghilterra": in pratica un romanzo vittoriano ambientato nei tempi moderni. Di fatto, buona parte della letteratura fantasy si può tranquillamente incasellare anche nelle categorie "avventura" e "formazione". Twilight , che abbonda di vampiri e lupi mannari, è stato (misteriosamente, ai miei occhi) classificato pure quello come fantasy ma sarebbe letteratura horror ed è soprattutto, oltre che una storia di formazione, una storia d'amore - in effetti il suo vero posto sarebbe forse nel cosiddetto genere "rosa".
I romanzi rosa sono una delle spine nel mio fianco: ebbene sì, sono romanzi d'amore, non necessariamente a lieto fine. Un sacco di classici rientrano nella categoria delle storie d'amore e hanno anzi stabilito i canoni di gran parte delle storie d'amore che ancora oggi leggiamo; e d'altra parte, oltre che romanzi di formazione e qualche volta di avventura, sono non di rado anche romanzi storici, o di scuola e qualche volta anche gialli.
Di fatto, l'unico genere letterario che solo raramente include romanzi storici credo sia la fantascienza - che di solito è ambientata nel futuro; ce n'è comunque parecchia ambientata nel presente o in un futuro molto vicino, e naturalmente abbiamo fantascienza gialla, fantascienza rosa e un sacco di fantascienza di formazione.
I generi, tutti i generi, sono nati a tavolino dopo che un certo numero di romanzi e racconti prodotti nello stesso periodo han mostrato di avere caratteristiche comuni. A un certo punto cominciarono ad andare di moda i romanzi storici - una gran bella invenzione, secondo me - che di solito erano romanzi di avventura e di amore (a secondo dei canoni dell'epoca in cui venivano scritti) ambientati in epoche diverse per dargli un tocco più esotico oppure per raccontare il presente dello scrittore senza compromettersi troppo - come per esempio succede ne I promessi sposi oppure ne Il nome della rosa.
E, guarda un po' i casi della vita, una volta che gli stati moderni ebbero preso forma e fu inventata la polizia, il processo con le testimonianze e tutto il resto, qualcuno cominciò a scrivere storie legate a delitti di cui si doveva scoprire il colpevole. Siccome gli inglesi sotto questo aspetto erano arrivati molto prima di altri paesi non ebbero difficoltà a scrivere gran copia di gialli ambientati nelle più varie epoche, soprattutto dal tempo dell'istituzione degli sceriffi in poi. Una volta che hai in mano il procedimento, naturalmente, puoi ambientare gialli in qualsiasi tempo della storia: basta rinunciare alla polizia e assegnare tecniche diverse all'investigatore di turno.
Ancor più insidiosa è la cosiddetta divisione in generi legata alla forma: il romanzo in versi, il romanzo epistolare, il romanzo a dialogo, il romanzo autobiografico... sono forme con cui puoi raccontare storie di ogni tipo. Perfino il fumetto, che all'apparenza si distingue dalla normale narrativa per un dato formale piuttosto forte, ovvero la narrazione anche per immagini, serve per raccontare storie di tutti i "generi".

Nelle antologie per la scuola media quando si arriva alle sezioni dedicate ai "generi" il problema è esattamente lo stesso di tutta la parte che l'antologia dedica alla storia della letteratura, ovvero una superficialità che sconfina spesso nel più assoluto ridicolo. Molto più sensato sarebbe scegliersi dei temi o degli argomenti e infilarci dentro un po' di testi senza preoccuparsi del genere. Tuttavia l'imperativo categorico di far studiare "i generi" (di cui in verità le indicazioni ministeriali non si occupano né tanto né poco e che dunque è uno di quei fardelli che la scuola si trascina dietro senza un perché) è sentito con tanta forza dagli insegnanti di Lettere che non ho mai osato esternare cotali mie ereticissime idee in presenza dei colleghi e mi limito a non adottare l'antologia se non in prima quando, non sapendo ancora di che morte si va a morire, un volume che racchiude un po' di testi brevi di vario tipo può fare parecchio comodo, soprattutto nei primi mesi.
Veniamo ordunque a raccontare cosa si intende nelle antologie delle medie per "generi".
Il romanzo rosa di solito non c'è, ed è un vero peccato perché l'argomento interesserebbe parecchio l'utenza.
Il fantasy da qualche tempo viene fatto in prima, visto che ben si attacca alle favole - e io le favole le faccio sempre, in quantità industriale, perché mi piacciono e ne conosco tante.
In seconda c'è il giallo e l'horror. In terza si fa la fantascienza, credo perché viene considerata più difficile - il che non sempre è vero; infine spesso c'è una sezione sul romanzo storico in letteratura, che serve di solito da introduzione per i Promessi Sposi.
Per ogni genere vengono indicate delle caratteristiche che mi fanno regolarmente venire l'orticaria - una particolarissima forma di orticaria psicologica di cui soffro con grande facilità ma che fortunatamente su di me non ha ripercussioni fisiche, visto che finora non ho mai sofferto né di orticaria né di allergie alimentari di alcun genere.
Partiamo dalla figurina con cui apro il post: l'alunno deve scegliere fra tre diverse possibilità la caratteristica base di un romanzo giallo. Piccolo e insignificante particolare: tutte le tre risposte sono giuste: un romanzo giallo si incentra sulla soluzione di un enigma o di un mistero, ma anche sulla scoperta di un crimine e a volte sulla ricerca di un serial killer. Certo, se si parla di un giallo della scuola "classica", ovvero scritto tra la fine del XIX secolo e i primi trent'anni del XX, si tratta soprattutto di risolvere un mistero, e spesso infatti nei titoli dei gialli compare la parola mistery o mistero. Abbondano comunque i serial killer (basti pensare all'immane quantità di apocrifi di Sherlock Holmes dedicati alla caccia a Jack lo Squartatore) e, soprattutto nei cold case, si tratta di scoprire che una misteriosa fuga con l'amante o suicidi conclamati o morti all'apparenza naturali sono stati in realtà omicidi di cui è opportuno scoprire l'autore.
I romanzi o racconti di fantascienza non hanno necessariamente a che fare con le astronavi e sono spesso trattati di sociologia o di antropologia più o meno ben camuffati, qualche volta includono un mistero da risolvere, spesso contengono almeno una storia d'amore e non di rado sono ambientati in scuole o accademie militari e non di rado sono romanzi di formazione - spesso comunque si basano soprattutto sull'incontro con il diverso ed evidenziano i pregiudizi della nostra epoca. Altrettanto spesso sono storie che descrivono uno scenario alternativo che viene sviluppato anche solo per curiosità.
Piccolo particolare: i testi scelti sono tutti degli anni 50 o 60 del secolo scorso e che io sappia non si parla nemmeno della saga di Guerre stellari. D'accordo, La sentinella è un bellissimo racconto, di quelli che lasciano il segno, Asimov è davvero bravo, ma è possibile che dopo di lui non sia più stato scritto niente di interessante? Mi permetto di dissentire, pur non essendo certo una grande esperta del ramo.
Quando si arriva alle caratteristiche del fantasy non si tratta più di una semplice orticaria, mi ritrovo regolarmente con una colossale orchite - fenomeno assai insolito in una dama che non ha mai avuto problemi di gender e che non solo dunque non dispone di testicoli, ma nemmeno ha mai desiderato averne, e se ne sta contenta col le sue brave ovaie, tra l'altro ormai andate in pensione dopo lunga vita lavorativa.
Il fantasy, non fanno che ripeterci le antologie, parla parla de la lotta del bene contro il male, dove naturalmente deve vincere il bene, per il quale il protagonista combatte senza tregua. Il tutto ignorando che il tema portante della saga di Harry Potter (oltre all'estrema importanza del libero arbitrio) è che il confine tra bene e male è difficilissimo da distinguere e che è estremamente facile, perseguendo con troppo zelo il male, ritrovarsi schierati in pieno dalla sua parte e per di più con l'assurda pretesa di farlo per difendere il bene, e che in Tolkien, anche nei film, la regola base è che nessuno parte cattivo, anche se a volte si cade (con possibilità di rialzarsi) e nessuno è buono per contratto ma solo per scelta, minuto dopo minuto, e soprattutto buttando allegramente nel cesso la grande abbondanza di letteratura fantasy che tratta spesso di tutt'altro: l'importanza di opporsi all'autorità e superare la tradizione, il problema di svegliare forze troppo forti per potere essere controllate, il rapporto con la natura, l'emancipazione femminile... anche nel fantasy c'è molta antropologia e molta sociologia, e negli ultimi decenni anche una sempre più forte tendenza a mescolarsi con la fantascienza.
Ah, e poi tra queste caratteristiche del menga c'è anche, sempre, l'ambientazione medievale citando tra gli elementi medievali i draghi e la magia (che non  mi risulta fossero più diffusi nel medioevo di quanto lo sono ora, e che si trovano in abbondanza anche nella letteratura classica - intendo quella greca e latina). Capisco che Il trono di spade abbia lasciato le sue belle tracce, ma allora perché non lo citano mai? E perché non spendere nemmeno mezza parola sulla urban fantasy, che è quella che più facilmente leggono i ragazzi?
Dopo queste descrizioni da Bignami dei poveri, regolarmente le antologie suggeriscono ai malcapitati insegnanti di Lettere (che raramente si intendono di letteratura di genere, limitandosi per lo più a leggere, giustamente, quel che gli pare a seconda dei gusti) e agli ancor più malcapitati alunni di scrivere un racconto di questo o quel genere, sorvolando allegramente sul fatto che scrivere un racconto, di qualsivoglia genere, forma e qualità è una roba piuttosto complessa che richiede comunque un po' di addestramento.
Vabbé, lasciando perdere il ciarpame delle caratteristiche di questo o quel genere, mettere i ragazzi a scrivere un racconto in effetti non morde, e può risultare molto catartico o comunque interessante. Dargli qualche paletto, tipo un inizio o uno scenario, o anche l'obbligo di scrivere solo parole di una determinata lettera dell'alfabeto è in realtà una forma di facilitazione perché li aiuta a scartare un po' di possibilità. E naturalmente nessuno obbliga né può obbligare alcun insegnante a mettere in pratica consigli assurdi, né gli impedisce in alcun modo di eliminare le parti più improbabili di questi suggerimenti per confezionare un compito su misura per la singola classe. In effetti non so bene nemmeno io perché mi sto lamentando - a parte forse il problema dello spreco di carta che moli libri di testo costituiscono (ma non c'è alcun obbligo di adottarli, in effetti).

venerdì 14 luglio 2023

Le volpi del deserto - Pierdomenico Baccalario

Ho adocchiato questo romanzo alla Mostra del Libro, me lo sono preso tra gli omaggi e me lo sono pure portata a casa per leggerlo con calma. Ho trovato molti motivi per dirne bene, a cominciare dalla copertina.
Ebbene sì, perfino la Mondadori può azzeccare una copertina! E questo dimostra che davvero c'è speranza per tutti. Non solo, ma mi accorgo che è la terza copertina di fila di cui mi ritrovo a dire bene. Che si stia aprendo un nuovo corso nell'editoria, almeno in quella per ragazzi? 
Sarebbe davvero molto bello.
Il titolo è altamente evocativo e pure un po' ingannatore: volpe del deserto è il celebrissimo soprannome dell'ancor più celebre Erwin Rommel, generale del Terzo Reich noto per le sue grandi qualità di stratega ma anche per la sua astuzia. Se si guardano le sue foto si deve ammettere che non era un brutto uomo, ma certo niente a che vedere con la sfolgorante bellezza della volpe del deserto propriamente detta, ovvero il fennec.
Ecco qui una pucciosissima cucciolata di fennec:
Piccolo ma surreale dettaglio: è una cucciolata di allevamento. E capisco che il fennec è carino, capisco anche che possa nascere un legame di amicizia con un fennec se vivi ai bordi del deserto, così come può capitare di fare amicizia da noi con un riccio, uno scoiattolo o un merlo, ma andarselo a comprare... sembra però che si lasci più o meno addomesticare. In molti stati comunque è illegale possederlo, e mi sembra giusto così: chi vuole per amico un animale selvatico secondo me se lo deve guadagnare, con la pazienza, l'amicizia e qualche piccolo dono o aiuti concreti, grandi o piccoli che siano. Fine della tirata.
La copertina presenta comunque non un fennec, ma una vera e propria volpe, di quelle che si trovano con relativa facilità anche nei nostri boschi o in campagna; questa volpe se ne sta nel deserto su una duna a guardare... un sommergibile che vola nel cielo. Normale, no? 
Nel cielo comunque c'è anche un aeroplano, di quelli da seconda guerra mondiale.
Dunque una storia ambientata nella seconda guerra mondiale nel deserto africano con Rommel tra i protagonisti?
Niente affatto: come ho detto la copertina è deliziosamente ingannatrice.
Non c'è l'ombra di un fennec in tutto il romanzo.
Non si parla di sommergibili che volano (e a questo, magari, il lettore arriva abbastanza preparato).
La storia è ambientata nel 1986 in Corsica - che, per quanto goda di un clima caldo di tipo Mediterraneo, col deserto non ha nulla a che vedere.
La volpe di copertina evoca però irresistibilmente una delle volpi più celebri della letteratura: quella del Piccolo principe di Saint-Exupéry, di cui troviamo una citazione proprio prima dell'inizio - il celebrissimo passo dove la volpe spiega al principe i pregi della domesticazione.
Di Rommel e di Saint-Exupéry in effetti si parla molto, e c'è anche un piccolo accenno a Dahl, ben più di un piccolo accenno a Bormann e perfino qualcosa su Hitler.
La storia però  è ambientata in Corsica, nel 1986 e racconta la prima estate passata in Corsica da un ragazzino di dodici anni con la sua famiglia - una famiglia francese abbastanza normale per l'epoca, padre e madre piuttosto simpatici e tre figli: il protagonista, che si chiama Morice, secondogenito, una sorella maggiore che studia lingue e una sorellina più piccola. Della famiglia fa parte anche Fabrice, che è una sorta di fantasma del fratello gemello che Morice si porta dietro - no, non è un vero spoiler, Fabrice entra in scena già alla terza pagina e quasi subito capiamo che i genitori di Morice non vivono con grande entusiasmo la presenza di questa sorta di amico immaginario (Morice comunque se ne frega, giustamente).
La famiglia di Morice viene dal continente, ovvero dalla Francia. Il padre si è abbastanza stufato del suo lavoro e ha deciso di dare una svolta alla sua vita: ha visto un albergo abbandonato (dal non troppo originale nome di Napoléon, che come sanno anche i sassi era appunto di origine corsa), se n'è innamorato e ha deciso di comprarlo, restaurarlo e riavviarlo. La moglie è piuttosto favorevole all'idea, i figli non sono contrari.
Un albergo abbandonato, nemmeno si sa bene perché, vicino a un piccolo e semidisabitato paesino di nome Dautremere, una famiglia di francesi che arriva lì portata dalla piena...
Dautremere è un classico paesino da romanzo giallo o dell'orrore: tutti si conoscono benissimo e tutti (come apparirà ben presto) condividono immani quantità di segreti. A questo punto può arrivare qualche misteriosa morte da indagare o qualche spettro  da esorcizzare o sotto cui soccombere. Ma non succede né l'una né l'altra cosa - oppure, in un certo senso, succedono entrambe, ma il tema portante non è quello; e non si tratta nemmeno, se non in piccola parte, di un vero romanzo di formazione. Naturalmente nel corso della vicenda il protagonista crescerà e imparerà una serie di cose su sé stesso, ma questo succede in qualsiasi romanzo che abbia un protagonista giovanissimo - oppure in qualsiasi romanzo, punto.
Il romanzo afferisce a un genere letterario particolare e relativamente nuovo, anche se ha dei precedenti nella narrativa dell'Ottocento: è un romanzo da Complotto, dove viene ricostruita una vicenda storica con gran pezze di appoggio storiche e ricostruzioni storiche e grandi interventi di personaggi storici (nel frontespizio viene citato Christian Hill che ha svolto appunto le indagini storiche) il tutto per raccontare qualcosa che magari si è svolto in un qualche universo parallelo ma che nella nostra linea storica non risulta. Il genere Codice da Vinci, per intendersi; ed è un genere che, quando è scritto bene, mi piace molto. Vedere la storia in una luce diversa e scoprire misteriose sottotrame...
Per esempio: è cosa piuttosto nota che Roal Dahl ha collaborato con i servizi segreti inglesi durante la guerra come spia e come propagandista. Ma sapevate che anche Saint-Exupéry ha lavorato come spia?
Probabilmente no, visto che non esiste uno straccio di prova a riguardo; tuttavia  per una serie di circostanze si creò questa reputazione. Ma se Il piccolo principe fosse stato un romanzo a chiave, usato per trasmettere informazioni segrete solo a certi lettori? Informazioni, per di più, che riguardavano non tanto attacchi nemici o basi segrete bensì notizie su un grandissimo tesoro che...
Ecco, anche questo probabilmente non lo sapevate. In realtà l'ultima volta che mi sono ritrovata a scorrere Il piccolo principe mi sono convinta che è effettivamente un testo a chiave, di quella razza di racconti genericamente definiti "iniziatici" - come Il serpente verde di Goethe, per intendersi. Niente di legato allo spionaggio, ma una storia che racconta per simboli un'altra storia legata allo sviluppo e al perfezionamento dell'individuo. E con la trama che ha e quei numeri strani piazzati qua e là si presta bene a tanti tipi di interpretazione pur avendo anche una trama, diciamo così, "esterna" che funziona benissimo anche da sola (meglio del Serpente verde in effetti).
L'estate di Morice se ne va così, ricostruendo una storia del passato del tutto sconosciuta agli storici ordinari, un tassello per volta e i tasselli sono veramente tanti. E il sommergibile (che non vola) ha una parte molto importante.

Il complotto è divertente se si scopre pezzo a pezzo, come il cioccolato dentro la stracciatella, e dunque non ne posso parlare. Mi limito a dire che la lettura è molto piacevole e quel che è successo in passato ha dei risvolti piuttosto neri.
C'è un altro aspetto cui non avevo mai pensato, ed è che non puoi sapere una storia, anche molto famosa, se qualcuno non te l'ha raccontata. Non importa un racconto a voce, va bene anche un libro o un film. Morice ha fatto un regolare corso di studi ma del nazismo e della seconda guerra mondiale conosce ancora solo qualche frammento sparso, ricavato da brandelli di conversazione, documentari, cose così. Alle elementari di certi argomenti non si parla troppo nel dettaglio. Sa che Hitler ha fatto delle cose orribili, ma le vicende della guerra non le conosce bene. In effetti è stato così anche per me, e direi per tutti quelli che sono nati dopo il 1950.
Per un insegnante di storia è sempre difficile stabilire se c'è una base su cui si può costruire o se ci si sta impaludando - senza contare il fatto che ogni individuo, ogni generazione e anche ogni gruppo ha i suoi singoli brandelli e scampoli - l'ultima prima sapeva un sacco di cose sul feudalesimo perché ha passato due anni a giocare a "Castelli e cavalieri", quella che hai davanti adesso ha passato quei due anni a giocare a tutt'altro e devi partire dalle basi. E tutto ciò è complicato e ogni volta richiede tecniche diverse, e a volte sbagli approccio.

Comunque il libro si legge molto bene, ha una bella trama e dei personaggi interessanti e sto coltivando una mezza idea di leggerlo in classe l'anno prossimo.
Comunque per ora l'ho letto io, e mi è piaciuto.
Credo si trovi in tutte le biblioteche pubbliche, e l'edizione Oscar te la danno per undici euro.