Il mio blog preferito

domenica 28 aprile 2013

Abbiamo un governo?


E venne il giorno delle elezioni del Parlamento, quando tutto lasciava sperare che il povero elettore, stremato da vent'anni di campagna elettorale sempre più insopportabile, potesse finalmente concedere un po' di meritato riposo alle sue povere orecchie. 
E poi vennero i risultati, che sembravano usciti da un copione di Scherzi a Parte. E l'elettore guardò con fascinato orrore quel mostro singolare in pesante disaccordo con i sondaggi e le previsioni elettorali e ascoltò i commentatori politici che spiegavano che non poteva andare che così, che chiunque avesse un barlume di buon senso l'aveva previsto, dal momento che X aveva sbagliato tutto e Y e Z invece avevano azzeccato ogni mossa, e in cuor suo si domandò come mai, se tutti l'avevano previsto, nessuno lo avesse detto prima dei risultati, ma non trovò risposta.
E i risultati delle elezioni dividevano il paese in tre poli (più un quarto polo più piccolo) in barba a qualsiasi considerazione raziocinante di fisica e di geografia.
E l'elettore si domandò che accidente di governo si poteva fare con quei risultati, e ringraziò il cielo che non toccasse a  lui pensarci perché proprio non avrebbe saputo come spantanarsi. 
E vennero i tre capi dei tre poli, dopo aver assunto gran copia di analgesici contro il mal di testa, e dissero che il governo manifestamente spettava a loro - nel senso di "a ognuno di loro".
E venne il Presidente della Repubblica che si domandava in che cosa avesse peccato, lui o i suoi genitori, per trovarsi in tal frangente, ma che assegnò l'incarico di tentare di formare il governo a quello dei tre poli che aveva preso più voti degli altri.
E vennero gli elettori del primo polo che urlarono al capo del primo polo che se mai si fosse azzardato a fare il governo con il secondo polo lo avrebbero sbranato vivo per poi lasciare le sue ossa a biancheggiare al sole. E il capo del primo polo, avendo un certo qual attaccamento alla vita, cercò di fare il governo con il terzo polo.
E vennero i giorni del tentativo di fare il governo tra il primo e il terzo polo, con i rappresentanti del terzo polo che urlavano a gran voce che, piuttosto che fare il governo con il primo polo, si sarebbero tutti castrati sull'istante. E il capo del primo polo insistette quanto era possibile insistere e alla fine prese atto che non ci si può alleare con qualcun altro se il qualcun altro non è d'accordo e lasciò perdere. E nel frattempo il secondo polo mandava a dire che lui si sarebbe alleato volentieri con il primo polo perché lui, il secondo polo, era fatto di gente responsabile.
E venne il giorno che il nuovo Presidente della Repubblica, che in realtà era ancora quello di prima ma lo avevano rieletto, disse che a questo mondo il governo si poteva fare solo con chi ci stava a farlo, e che d'altronde un governo poteva fare comodo perché il paese aveva qualche piccolo problema cui sarebbe stato opportuno mettere mano, e che insomma fra tutti la smettessero di giocare e si decidessero a fare un governo perché i giorni passavano, le madri imbiancavano e un governo ci voleva, non si poteva andare avanti in eterno con gli avanzi del vecchio.
E il capo del primo polo si stracciò le vesti, si graffiò il volto, si gettò la polvere sui capelli e disse che, dato che lui aveva sbagliato tutto, come non facevano che ripetergli ormai da mesi, toglieva il disturbo e se la vedessero un po' tra loro.
E venne il giorno del Nuovo Incarico, quando un rappresentante del primo polo di cui nessuno aveva parlato in quei mesi, come se nemmeno esistesse, venne improvvisamente incaricato di fare il governo e avviò le trattative e le consultazioni.
E il terzo polo e gli elettori del terzo polo urlarono che loro non li aveva considerati nessuno e avevano il diritto di fare il governo, anche da soli e senza nessuno degli altri due poli che gli facevano schifo. E nessuno se li filò se non per schernirli aspramente e fargli le linguacce.
E il terzo polo disse che gli altri due poli stavano per allearsi per fare il governo, e che era una vergogna, ed entrambe le affermazioni erano verissime.
E il secondo polo esultò dicendo che loro avevano vinto e che avrebbero fatto il loro governo con il loro bellissimo programma elettorale.
E gli elettori del primo polo soffrivano di acutissime crisi di vomito e diarrea e ululavano alla luna che loro non volevano nessuno del secondo polo nel loro bel governo, nonostante qualcuno ammettesse a denti stretti che, per fare un governo col secondo polo, era pur necessario adattarsi ad avere a che fare con qualcuno del secondo polo.
E vennero le Indiscrezioni sulla Lista dei Ministri e gli elettori del primo polo vomitarono più volte financo la prima comunione, e qualcuno di loro cominciò a sospettare di aver contratto qualche grave forma di colera, ma alle analisi mediche non risultavano infezioni, però loro continuavano a vomitare e a soffrire di nausee peggio che se fossero alle prime settimane di una gravidanza particolarmente delicata.
E venne, dopo due eterne giornate, la Vera Lista dei Ministri, e gli elettori del primo e del secondo polo si accorsero che faceva meno schifo del previsto; e qualcuno, calmati finalmente gli spasmi più violenti della nausea, cominciò ad assumere piccole porzioni di cibo, sotto forma di brodino di pollo allungato o fette biscottate bagnate nel té leggero o nella camomilla. E il secondo polo gridava ai quattro venti che aveva vinto e il primo polo lo lasciava dire perché proprio non gli sembrava ci fossero gli estremi per controbattere che invece avevano vinto loro.
E nei forum politici i postatori stipendiati del secondo polo cominciarono subito a dire malissimo del nuovo governo e degli altri due poli, esattamente come quando l'anno prima con l'appoggio del loro polo era stato votato un governo cosiddetto "di tecnici".

E tutti continuavano a comperare grandi dosi di antiemetici e antidiarroici e a nutrirsi di sottili fette biscottate inzuppate nel té leggero, ma qualcuno in cuor suo osservava che, a conti fatti, quel governo non sembrava all'apparenza né meglio né peggio di tanti altri governi che avevano avuto, alcuni dei quali avevano perfino fatto una riuscita decente.
E tutti i politici continuavano a straparlare come se fossero ancora in campagna elettorale, e a quello sembrava proprio non esserci rimedio, ma intanto il mondo andava avanti, bene o male che fosse.

mercoledì 24 aprile 2013

Contro l'esasperante ed esasperato uso dell'esasperante parola "inciucio" (post esasperato)

L'inciuccio, si sa, è un utile strumento per far rilassare i bambini. Un po' troppo nominato, di questi tempi. Una collega (da me imitata) ogni tanto istituisce il premio del "Ciuccio d'oro" per le classi dal comportamento infantile.


Ci deve essere stato, immagino, un tempo in cui la parola "inciucio" aveva un qualche significato. Ma, e lo ricordo bene, c'è stato anche un tempo in cui questa parola non veniva usata se non in dialetto napoletano. In italiano si parlava di compromessi, accordi sottobanco,  pastette, trattative riservate e un sacco di altre robe più o meno commendevoli e più o meno consuete in politica. Poi, un bel giorno un qualche politico (corre voce sia stato l'ineffabile D'Alema) lo usò in un'intervista e da allora questa parola perseguita l'incauto elettore italiano che, per le più varie ragioni, non possa permettersi di passare la sua esistenza in una cella a tenuta stagna e completamente isolato dai mezzi di informazione.
La parola mi rimase immediatamente antipatica perché sin da subito la associai a quell'utilissimo strumento tanto spesso usato per placare bambini piangenti o comunque di malumore: il problema, dal mio punto di vista, è che dove c'è un ciuccio assai spesso c'è un bambino assai piccolo che strilla o potrebbe strillare, e a me i bambini fino ai dieci anni fanno venire l'orticaria. 
Mai quanto l'uso indiscriminato della parola "inciucio", comunque.

Col passare degli anni quest'assurda parola ha perso ogni pur vago contatto con l'originale significato di "pettegolezzo, chiacchiera" e si è trasformata in una di quelle parole-bandiera il cui scopo precipuo è far vibrare di indignazione il cittadino al solo nominarla. Viene usata senza ritegno per alleanze conclamate, fusioni di movimenti politici avvenute in eurovisione davanti a milioni di testimoni, accordi minuziosamente preparati in pubblico nonché per banali formule di convivenza politica che rientrano al più nelle consuete regole del viver civile. Può darsi che, in un qualche punto della storia italiana, abbia effettivamente indicato un accordo non avvenuto in forma totalmente pubblica, ma di cotale (ed eventuale) uso si è persa da tempo la memoria. Sta di fatto che, ormai da più di quindici anni, quando un politico non sa assolutamente cosa dire a un comizio, una pubblica dichiarazione o un'intervista, evoca la parola "inciucio" allo scopo di suscitare schifo e ribrezzo verso l'immondo avversario in chi lo ascolta (perché, purtroppo, c'è sempre qualcuno che lo ascolta).

Il suono della parola mi è sempre risultato irritante; le manovre troppo apertamente manipolatorie, anche; i politici che parlano a frasi fatte comprate al discount un tanto al chilo, ancor di più. Da non so più quanti anni, quando un qualsivoglia esponente di una qualsivoglia parte politica evoca sia pur di striscio l'inciucio in qualche dichiarazione stacco l'audio e segno l'esponente in questione in una (ormai lunghissima) lista nera di persone da non prendere minimamente in considerazione quando aprono bocca.
Ciò nonostante, devo pur prenderne atto, gli esponenti politici sembrano del tutto indifferenti alle mie liste nere e la parola "inciucio" è ancora usatissima, alla faccia delle mie personali idiosincrasie.
Inoltre, tutti intorno a me continuano a vibrare doverosamente di indignazione davanti alla forza evocativa di cotal parola.

(Vabbe', il mondo è freddo e pieno di incomprensione, si sa.
Per fortuna, almeno il mio blog mi capisce e con lui posso sfogarmi)

venerdì 19 aprile 2013

Uomini d'arme - Terry Pratchett


Dopo A me le guardie ecco il secondo libro del Ciclo delle Guardie nella saga di Mondo Disco di Terry Pratchett.

Il tema principale del romanzo riguarda gli incontri tra Diversi. 
Le differenze, si sa, possono essere motivo di attrito, ma quando vengono affrontate con buon senso e spirito costruttivo possono anche arricchire  le varie parti in causa.
E dunque abbiamo: le differenze sociali, nel fidanzamento ormai avviato al matrimonio, tra la incredibilmente ricca Lady Sybil, allevatrice di draghi da palude e lo scalcagnatissimo e introspettivo capitano delle guardie della città Samuel Vimes, con molte interessanti considerazioni sul fatto che i veri ricchi possono vivere da ricchi spendendo meno dei poveri che vivono da poveri; le differenze razziali all'interno del corpo di guardia, dove è stato deciso di aprire l'arruolamento a tutte le varie componenti della popolazione della città di Ankh-Morpork, nani, troll e non solo;  il rapporto inizialmente conflittuale tra il troll Detritus e il nano Cuddy che impareranno prima a convivere e poi ad apprezzarsi per i loro vari meriti in un rapporto che ricorda molto l'amicizia tra Legolas e Gimli, con qualche piccola variante; la storia d'amore tra la bellissima Angua, dalle particolari abitudini notturne in certi periodi astrali, e l'irresistibile caporale Carota, dove in verità il contrasto parte principalmente da Angua, che con sensibilità squisitamente femminile non cessa di elencarsi i motivi per cui una storia tra lei e Carota non potrebbe mai funzionare, ma evita con ogni cura di ostacolarla (perché "sensibilità  squisitamente femminile" non è sempre e solo sinonimo di "autolesionismo"); e le molte differenze tra cani e lupi e uomini e tutte le varie possibili mescolanze tra queste tre nobili specie, dove una parte molto importante è riservata a Gaspode, cane-che-non-è-soltanto-un-comune-cane, anche lui con qualche problema di inserimento sociale.

Uno dei fili conduttori della trama, che serve da raccordo per molti di questi confronti, è costituito da una serie di omicidi sui quali la Guardia Cittadina è chiamata ad indagare e che coinvolgono la Gilda degli Assassini (sì, ad Ankh-Morpork c'è una Gilda degli Assassini, ed è guardata con grande rispetto, soprattutto da chi teme di diventarne vittima), la Gilda dei Buffoni, problemi di travestimenti e di identità e, soprattutto, l'uso di una terribile arma inventata per caso e di cui da tempo era stata decisa la distruzione - ma, come succede sempre in questi casi, la distruzione pare non essere stata condotta nel più efficiente dei modi, anche se alla fine la questione dovrebbe essere effettivamente risolta, grazie alla soluzione escogitata dall'abile Carota (che a fine libro passa di grado).
Il movente in filigrana dietro questi omicidi, che emergerà gradualmente, è il tentativo di organizzare un colpo di stato per riportare un re sul trono di Ankh-Morpork. Un Ritorno del Re, insomma, dove l'erede della dinastia reale a lungo scomparsa riesce però con molta abilità ad occultare le prove inconfutabili della sua ascendenza e non prende nemmeno in considerazione la possibilità di lasciare il suo amato posto di guardia cittadina - perché "poliziotto" viene da "polis" e significa "uomo al servizio della città".
Ma, come ricorda il Patrizio della città verso la fine del romanzo, anche "politica" viene da "polis" ed indica l'arte di governare la città, o comunque la comunità. 
Che è questione singolarmente attuale, per noi italiani.

E' possibile che sia il mio libro preferito del ciclo - anche se è una questione su cui cambio idea ogni volta che ne prendo in mano uno.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro un felice fine settimana a lettori e non lettori.

lunedì 15 aprile 2013

La biblioteca della scuola media di St. Mary Mead

La biblioteca della scuola media di St. Mary Mead non è esattissimamente così. Non proprio.

Di mia spontanea volontà quest'anno mi sono presa l'incarico di "referente della biblioteca scolastica". L'ho fatto in parte per puro masochismo e in parte per puro divertimento. I due motivi sono apparentemente inconciliabili, ma dal mio perverso punto di vista poche cose sono più divertenti del combattere con qualcosa di assai simile al brodo primordiale e venirne a capo - dopo tutto, sono stata anche archivista, e quando ti mettono a riordinare un archivio, ciò non avviene mai perché cotale archivio è già ordinatissimo di per sé - in quel raro caso, al massimo te lo fanno schedare al computer, o descrivere o cose del genere.

Prima di tutto: a St. Mary Mead c'è una biblioteca, e credo ci sia sempre stata da quando quella scuola esiste* e questo ci mette già in posizione di netto vantaggio rispetto a una cospicua fetta delle scuole medie. E c'è anche una stanza dedicata alla biblioteca, con scaffalature a norma, in metallo, fissate al muro. 
Ci sono anche dei libri. Magari non recentissimi, ma ci sono.
Il punto è che nessuno là dentro (salvo, in piccola parte, io, dopo qualche mese che ci sto dietro nei ritagli di tempo in cui la scuola è aperta, non sono in classe o a compilare registri e nemmeno mi diletto a prendere e riprendere influenze) ha la benché minima idea di quali siano questi libri.
Non c'è il registro dell'inventario. Chiaramente deve esserci stato, un tempo, perché molti libri sono inventariati ed etichettati; ma, a giudicare dalle condizioni dello scotch che tiene attaccate le etichette e delle date di stampa dei libri in questione, si tratta di un tempo piuttosto remoto. Da un attento (forse) esame storico, storiografico e storicistico nonché da accorte analisi per la datazione col metodo del carbonio 14 non risultano interventi successivi alla metà degli anni 70 del secolo scorso.
Perché l'inventario è scomparso nel nulla? Quel tipo di registri non scompare quasi mai, nemmeno quando da tempo ha perso ogni utilità di essere. 
Da noi però è scomparso.
D'accordo, sono molti anni che non c'è più un bibliotecario. Sono diversi anni che la maggior parte delle scuole non ha più un bibliotecario - più o meno da quando il ministro Moratti ha stabilito che quegli insegnanti che non possono più stare in classe** devono stare in classe nonostante tutto. Tra l'altro in molte scuole ormai non c'è più un bibliotecario, ma non per questo manca l'inventario.
Inoltre la gran parte delle biblioteche scolastiche della zona ha avuto una fioritura, o ri-fioritura, verso la fine del secolo scorso e i primi anni di questo (facciamo 1995-2003), quando su richiesta arrivavano fondi e aiuti. Lì no. In quegli anni, in cui il Ministero era ancora della Pubblica Istruzione e concepiva ancora la possibilità di scucire qualche soldo alle singole scuole, nessuno da St. Mary Mead ha chiesto un soldo bucato per la biblioteca della scuola media, nessuno lo ha speso, nessuno ha incollato nemmeno mezza etichetta sul dorso dei libri.

Oltre all'inventario manca anche la memoria storica della biblioteca - comprensibile, visto che quella specifica biblioteca ha smesso di esistere verso la fine degli anni 70. Da quando sono lì ho sempre sentito parlare della "biblioteca" come di una misteriosa entità di cui nessuno sa niente, quasi fosse un  meteorite con tracce di metalli sconosciuti alla scienza terrestre piombati dal cielo chissà quando e chissà da dove. 
In un tempo lontano quella bibioteca fu montata e costruita con dei criteri di base (e, direi, con dei finanziamenti quasi rispettabili). Comprarono un sacco di enciclopedie, quasi tutte ormai buone soltanto per l'Istituto Antropologico per la Storia della Cultura del Dopoguerra e anche un po' sfasciate. Comprarono pure una selezione di opere di didattica, anche sperimentale, degli anni 60 e primi 70 e riviste di informazione scolastica - chiaramente per gli insegnanti. 
C'è poi uno stuolo di quei libri che usavano tantissimo quando ero bambina (infatti erano considerati libri per bambini, non per ragazzi): riduzioni di riduzioni di classici della letteratura ottocentesca (ormai logorati dal grande uso al punto di non essere più utilizzabili) spesso corredati da orribili illustrazioni.
Due palchetti di libri sulle due guerre mondiali.
Un po' di libri di storia locale (nessuno dei quali etichettato).
Un'enciclopedia del calcio... degli anni 70 (non etichettata).
Molta letteratura italiana, con molti autori tutt'altro che praticati nelle scuole medie.
Un po' di classici stranieri.
Un'infinità di quei libretti di narrativa che gli editori scolastici ti rifilano, tu lo voglia o no.
Ex libri di narrativa adottati negli anni intorno al giro di boa del 2000.
Un po' di roba portata dio solo sa da chi negli ultimi vent'anni, non catalogata e per la maggior parte dei casi utile ad una biblioteca delle scuole medie quanto le tradizionali biciclette lo sono per i pesci.
Libri di geografia e di scienze degli anni 50.
Un po' di Maestri del Colore, malridotti.
Gran copia di libri scolastici degli ultimi dieci anni, per lo più non adottati (una parete piena, in buona parte intatti).

Stante che l'inventario non esiste e che la lista dei libri non è ricostruibile ho deciso di partire da un'accorta opera di sfrondamento allo scopo di far emergere da questa curiosa accozzaglia ciò che può servire se non altro agli insegnanti. Sì, lo so, un vero bibliotecario dovrebbe prima di tutto procurarsi un programma per la catalogazione al computer; ma siccome io non sono un vero bibliotecario, prima di tutto mi occuperò di selezionare ciò che va ri-catalogato.
E prima ancora di far questo, archivierò*** immani quantità di zavorra.
E per farlo mangerò una gran quantità di polvere e mi divertirò alla follia, incurante degli sguardi compassionevoli dei colleghi (un paio delle quali mi han pure offerto una concreta collaborazione).
Al cuore non si comanda, si sa.

*La scuola media unica è stata istituita nel 1963. Le medie comunque esistevano già da prima, e St. Mary Mead le aveva
**magari perché sono pazzi furiosi. Beh, probabilmente la Cleptomane non sarebbe stata una buona bibliotecaria. E potrebbe pure essere che l'inventario l'abbia fregato lei, chissà.
***in questo caso il verbo "archiviare" va inteso nel suo significato non-archivistico di "accantonare e/o cestinare"

venerdì 12 aprile 2013

Vincere di cortesia? O non vincere affatto?

Non c'è solo la piramide di Maslow, a questo mondo.

Nella Seconda Effervescente un nuovo cartellone si offre al mio sguardo. Il titolo, scritto ben grande, è "I nostri bisogni".
"Oh, la piramide di Maslow" mi dico. Ma in effetti non somiglia affatto a una piramide, bensì ad un reticolato.
"Scusate, quel cartellone?".
"Ce l'ha fatto fare la prof. Ghirlandai. Sostiene che andiamo troppo spesso in bagno e allora così teniamo il conto di quante volte alla settimana e al mese ci va ognuno di noi".
Il cartellone, infatti, è calcolato per contenere tutti i giorni del mese e tutti gli alunni della classe.

Ci tengo a precisare che la prof. Ghirlandai non si è mai segnalata per particolare stupidità, e anzi tutti noi nutriamo verso di lei stima e fiducia; tuttavia, non c'è poeta cui non manchi un verso e non c'è insegnante cui non manchi come minimo un'intera strofa.

L'intento della collega, senza dubbio, era di indurre i ragazzi ad una salutare riflessione sulla scorta dell'esame di dati oggettivi - e in verità, indurre alla riflessione attraverso l'analisi di dati oggettivi è operazione didatticamente assai valida, specie con una classe caotica ma sveglia.
Di fatto, però, le cose non sono andate esattamente come auspicato dalla Ghirlandai.

"Prof. Murasaki, posso andare in bagno?"

"Certamente"
"Ehi, Crodegango, c'è Rudperto che va in bagno"
Crodegango, assorto nei suoi pensieri (o forse nella mia spiegazione, tutto può essere a questo mondo) non sente.
"Crodegango! Ti decidi a muoverti? C'è Rudperto che va in bagno"
"Ma oggi non tocca a me"
"Sì che tocca a te"
"Ah già, è vero. Rosvita, mi dai il pennarello?"
Rosvita smette di scrivere sul diario e gli porge il pennarello.
Crodegango prende la sedia, la porta al tabellone e ci sale sopra (Rudperto è uno dei primi nomi della lista).
"No, non lì, oggi è il 12"gli ricorda Ermengarda.
Crodegango si corregge, poi chiede "Che ore sono?"
"Le undici e sette" lo informa Adalberta.
Crodegango segna l'ora esatta, scende dalla sedia, la riporta a posto, si siede, tappa il pennarello, lo restituisce a Rosvita e la lezione può infine continuare.
Nel frattempo Rudberto non è andato e pure tornato dal bagno, come chiunque sarebbe portato a pensare, bensì ha aspettato che tutte le formalità burocratiche fossero espletate nel più rigoroso dei modi. Solo a quel punto, quando la registrazione dell'evento è completa in tutti i dettagli, esce dalla classe.

Poiché la natura mi ha dotato di un'ammirevole pazienza ho sopportato tutta la trafila per diversi giorni, sperando che le procedure si sveltissero. Infine un giorno ho dichiarato, con voce forte e chiara, che se non avessero imparato a gestire tutta la faccenda nel più rapido e silenzioso dei modi avrei risolto la questione a modo mio non mandando più nessuno in bagno, per la prima volta in tredici anni di servizio prestato senza demerito; e la classe si è infine data una regolata.


"No, non è stata una buona idea" ammette senza esitazione la prof Ghirlandai.

"Beh, ci hai provato" cerco di confortarla.

Alla fine del mese il cartellone viene rimosso.

Non per questo la Seconda ha smesso di essere Effervescente.

mercoledì 10 aprile 2013

IntelligenzaPratica

Un affascinante e un tantino caustico post de LaProf tratta la questione dei BES (ovvero Bisogni Educativi Specifici) di recente entrati in scena al posto degli ormai logori DA (ovvero Disturbi dell'Apprendimento Non Meglio Identificati) tramite apposita circolare. In cotal fascinoso e caustico post, LaProf sostiene causticamente che al MIUR hanno stabilito che, dal momento che noi docenti non facciamo una benemerita minchia dalla mattina alla sera, sarebbe ora che ci occupassimo un po' di questi BES (che restano sempre Non Meglio Identificati, con la variante che dovremmo identificarli noi, dall'alto delle nostre competenze). 
Un attento ed occhiuto esame, svolto con la diligenza del buon padre (o madre) di famiglia rivela che sì, in effetti si tratta proprio di una di quelle Circolari Scaricabarile che da qualche anno in qua il MIUR ci rifila a scadenze non sempre regolari per indurci ad applicare la buona vecchia esortazione "Hai dei problemi? Risolvili!". Con la piccola aggiunta che, stando alla circolare in questione, noi insegnanti dovremmo sì risolvere i nostri problemi didattici, ma non si capisce bene come. "Riempiendo scartoffie" viene da pensare ad una prima lettura. Ma no, non è così definitivo: riempire scartoffie potrebbe forse tutelare il Consiglio di Classe e forse fornire un aiuto al BES di turno, ma anche no. E forse è giunto il momento di delegare ufficialmente la scrittura delle circolari del MIUR non tanto ai funzionari del ministero, quanto ai ben più qualificati Oracolo di Delfi o Sfinge, magari applicando la regola Turandot che recita "Gli enigmi sono tre, la morte è una".
Ulteriore corollario: la circolare in questione non cambia quasi nulla, a parte la grandiosa innovazione di trasformare i DA in BES; e per meglio illustrare questa mia convinzione vado adesso a narrare una storia dell'anno scorso.

Nella terza di Cristaccecami, com'è noto, non ci facevamo mancare nulla: su sedici gatti contavamo, oltre a Cristaccecami, ben due DSA all'acqua di rose, un altro certificato pure quello all'acqua di rose, un paio di situazioni familiari alquanto complesse e pure un DA.
Siccome il DA per me era roba nuova chiesi lumi, e mi spiegarono che si trattava di un Disturbo dell'Apprendimento Non Meglio Identificato. I DA, che grazie a una recente circolare del Ministero sono adesso inclusi nel più vasto universo dei BES sarebbero, per il poco che mi è stato dato capire, alunni che più di tanto non funzionano ma che, adeguatamente curati e innaffiati da appositi professionisti, imparano ad usare strategie particolari di apprendimento e a quel punto non se la cavano poi malaccio - purché i genitori abbiano i soldi per pagare la cura e l'innaffiaggio, si capisce, perché lo stato per questo non scuce un centesimo.
Tutti i colleghi come un sol docente mi spiegarono che costui, il DA, aveva "l'intelligenza pratica" - il che voleva dire che era in teoria capace di costruirti un granaio ben fatto ma non di studiare decentemente la guerra di secessione. Con gli anni aveva anche sviluppato una totale mancanza di autostima unita a un carattere che ben difficilmente avrebbe potuto essere simboleggiato da un barattolo di miele: specializzato da sempre nel litigare a morte con i compagni per i più ignobili motivi e nel praticare un bullismo nemmeno troppo soft sugli elementi più deboli della scuola, con gli insegnanti si mostrava piuttosto ruffiano e spesso cercava di risolvere tutto sciogliendosi in lacrime e sostenendo che i compagni ce l'avevano con lui. E di fatto era abbastanza vero che i compagni ce l'avevano con lui, ma non per questo lo trattavano ingiustamente; cercavano però di scansarlo.
Nei suoi quattro anni lì dentro IntelligenzaPratica aveva cambiato un gran numero di insegnanti (non tutti scelti tra il meglio che St. Mary Mead poteva offrire sul piano umano) che si erano regolarmente rimpallati il discorso sull'intelligenza pratica senza mai scavare più a fondo - del resto, se uno matematica non la capisce, non la capisce, giusto? Non c'è altro da fare che accettare la cosa e ricordare con scarso garbo all'alunno che c'è chi è in grado e chi non è in grado. Tanto per fare un esempio. 
Solo al terzo anno una delle molte insegnanti di Lettere che si erano avvicendate in quella classe aveva suggerito ai genitori una visita specifica, che aveva prodotto una diagnosi di Disturbo dell'Apprendimento piuttosto articolata; il ragazzo aveva un quoziente d'intelligenza bassino ma nella norma, il che non permetteva, pare, una diagnosi di dislessia - perché per essere dislessici, mi spiegarono, si deve essere parecchio intelligenti (più avanti qualcun altro mi spiegò che al giorno d'oggi anche se non sei una volpe delle più astute puoi aspirare al rango di dislessico, ma che la questione è ancora discussa); stava di fatto che IntelligenzaPratica era quello che leggeva peggio in classe, perché, mi spiegò la dottoressa che aveva stilato la diagnosi, se si concentrava sulla forma delle parole non riusciva a seguire anche il significato delle medesime, ma non era dislessico, mentre i due dislessici ufficiali avevano una bella lettura fluida  (e, uno dei due, anche molto espressiva). Di certificarlo, con quel quopziente di intelligenza, non c'era nemmen da parlarne. Insomma, era un Disturbo dell' Apprendimento: c'erano le convergenze parallele, c'era la sfiducia costruttiva e c'erano i disturbi generici dell'apprendimento. Il mondo, si sa, è bello perché è vario.
A noi del Consiglio, del resto, non interessava granché stabilire cosa esattamente fosse un disturbo generico dell'apprendimento; viceversa eravamo tutti assai interessati e disponibili a prendere atto di quel che dovevamo fare con IntelligenzaPratica per aiutarlo. 
Ahimé, la questione si rivelò assai fluida: potevamo fargli usare tutte le misure facilitative e aiuti e schemi di questo mondo durante l'anno, ma NON in sede di esame, potevamo stabilire degli obbiettivi minimi ma NON dargli prove facilitate all'esame, insomma durante l'anno ce lo potevamo giocare come ci pareva, poi se passava o no l'esame (che avrebbe fatto senza alcuna facilitazione) erano cazzi suoi.

Nel frattempo si era innestato un cosiddetto circolo virtuoso: l'insieme delle abili cure della dottoressa che lo seguiva, dei suoi consigli e dei nostri sforzi congiunti aveva prodotto alcuni timidi risultati che, aumentando l'autostima di IntelligenzaPratica, lo avevano portato a conseguire risultati sempre meno timidi e sempre più consistenti. Restava il fatto che, non avendo egli fatto una benemerita mazza per i tre anni precedenti, senza qualche aiuto l'esame non era in grado di passarlo, anche perché, se ormai affrontava con una certa confidenza le normali prove di verifica, stante il  carattere che si ritrovava, all'esame ben difficilmente avrebbe reso un pizzico più del solito per il benefico effetto dello stress, caso mai un bel po' meno del solito a causa  del terror panico che lo pervadeva in casi del genere.
D'altra parte era assurdo non passarlo proprio l'anno in cui aveva lavorato ed era pure grandemente migliorato (o meglio aveva fatto un suo percorso, secondo la classica formula del didattichese), senza contare che il ragazzo era stufo sin nelle barbe di starsene parcheggiato alle medie, con tutti quei bambini piccoli che lo guardavano dall'alto in basso perché lui era scemo (no, di tendenza non lo guardavano particolarmente dall'alto in basso, ma siccome ne avevano paura finivano per difendersi con quel che gli suggerivano i più grandi, ovvero ricordandogli che lui era lo scemo del villaggio) e insomma dalle medie doveva uscire, punto e basta.

Così, da bravi italiani, coniugammo il verbo "arrangiarsi". Beh, io dovetti arrangiarmi poco perché in italiano era sempre stato abbastanza sufficiente (se non si faceva troppo caso alla parte grammaticale, certo. Per quanto nel corso dell'anno avesse imparato a distinguere un predicato verbale da un paracarro, cosa che mi lusingò molto), salvo rispedirlo a pedate al posto quando cercò di consegnarmi un tema di una colonna e un quarto laddove era stato da tempo stabilito che nello scritto di italiano DOVEVA prendere almeno sette, e frustarlo col gatto a nove code finché le colonne non diventarono due e un settimo - e quasi tutta la colonna aggiuntiva venne dedicata ad illustrare la perfidia della prof. Murasaki rispetto alla bravissima prof. di Matematica. Del resto era verissimo che la sfigata supplente annuale di terza fascia di Matematica era brava al di là di ogni lode concepibile e comunque molto più brava di me, e infatti laddove io avevo semplicemente fatto del mio meglio, lei era riuscita nel miracolo di fargli piacere entrambe le sue materie, di gratificarlo e financo di insegnargli qualcosa.

A conti fatti comunque andò meno peggio del previsto, come succede spesso in questi casi: con qualche aiuto e un po' di psicoterapia da rianimazione, e soprattutto di griglie di correzione decisamente generose, oltre al sette nel tema arrivarono anche la sufficienza a matematica e spagnolo (quest'ultima, una piacevole sorpresa per tutti noi); le prove Invalsi si limitarono ad un arginabile cinque e l'orale andò piuttosto bene, anche se dopo averlo fatto il ragazzo sembrava passato nella centrifuga.
Fu così che IntelligenzaPratica andò ad esercitare altrove la sua intelligenza pratica (che nel frattempo si era rivelata anche un po' logica); e dove è adesso non consegue grossi risultati e ha anche litigato con un po' di gente ma nel complesso non sembra passarsela male.

Quanto a noi Consiglio di Classe, eravamo pur sempre riusciti nella mirabile impresa di tenere il cerino acceso che ci eravamo ritrovati in mano senza scottarci, che al giorno d'oggi sembra il massimo del trionfo cui può aspirare un insegnante.

venerdì 5 aprile 2013

Il gran sole di Hiroshima - Karl Bruckner



Nel 1961 Karl Bruckner, autore tedesco, scrisse questo romanzo per ragazzi che ottenne subito un grande successo di pubblico e di critica e che venne blasonato con numerosi premi letterari a livello internazionale. Io lo lessi per la prima volta intorno agli otto anni, prendendolo dalla biblioteca di classe che veniva formata col classico sistema artigianale "ognuno porti qualche libro". Negli anni delle elementari credo di averlo riletto una buona decina di volte, tanto che quando da adulta lo ripresi in mano mi accorsi di ricordarmelo praticamente riga per riga. Aggiungo che le copertine delle edizioni successive sono molto più scialbe della prima edizione e molto meno significative: qui c'è un gran sole, e anzi è così grande e lucente da insinuare una sottile inquietudine nel lettore; inoltre c'è pure un riferimento indiretto alla bandiera giapponese che, pure lei, reca l'immagine del sole - ma non era a quel sole che pensavano i giapponesi quando la scelsero, in tempi lontani.
Il titolo originale comunque è Sadako will leben, ovvero "Sadako vuole vivere". Una volta tanto però non disapprovo il titolo scelto dagli editori italiani.

La storia, semplice e chiara ma narrata a molte voci e con un gran numero di personaggi, racconta il lancio della prima bomba atomica sulla città di Hiroshima e le sue conseguenze negli anni. La narrazione inizia il giorno prima del lancio e si svolge parallela tra le vicende di una famiglia giapponese (la fame costante, la vita che scorre tutto sommato tranquilla perché Hiroshima non è un obbiettivo dei bombardamenti, i turni di lavoro massacranti delle operaie nell'industria bellica, i passatempi di due normali bambini, fratello e sorella, con la madre in fabbrica tutto il giorno e il padre nell'esercito, qualche vecchietto che fa loro compagnia) e gli ultimi atti di preparazione del lancio nella base americana; dopo il lancio della bomba e le sue conseguenze viene narrata la riunione delle famiglia giapponese e i successivi anni della ricostruzione, dalle baracche di lamiera e il mercato nero, con la fame che va progressivamente attenuandosi, fino al ritorno del benessere.
Dieci anni dopo l'esplosione della bomba, improvvisamente una lunga e combattuta gara in bicicletta fa riaffiorare nella figlia più piccola, ormai adolescente, l'effetto delle misteriose radiazioni. 

La storia ha fatto versare fiumi di lacrime a varie generazioni di bambini, e ha senz'altro contribuito alla formazione di generazioni di pacifisti avversi alle armi nucleari - io, almeno, non ho mai avuto dubbi in proposito.
Finito il libro, assai preoccupata, corsi da mia madre.
"Mamma, mamma, sono ancora così pericolose le bombe atomiche?".
Mia madre stava cucinando "No, Murachan: oggi lo sono molto, molto di più".
E' uno dei ricordi più chiari della mia infanzia.

Fu anche il mio primissimo approccio al Giappone: la sua cultura e la sua società vengono presentate dall'autore con molta precisione e con grande rispetto, ma anche con estrema naturalezza. Si capiva che per i giapponesi la vita e il modo di pensare erano diversi dai nostri, e che andava benissimo così. Si capiva perfino qualcosa della mentalità militare, presentata in forma critica ma comprensibile per un bambino - sia quella americana che quella giapponese.
Molto bella anche la descrizione dell'esplosione e della reazione sconvolta dei piloti.
"In quel preciso momento, l'uomo compiva il suo primo tentativo per annientare sé stesso.
Il tentativo era riuscito".

Con questo post partecipo a I Venerdì del libro di Homemademamma, e auguro buone letture e un felice fine settimana di sole a tutti.

giovedì 4 aprile 2013

L'arte della discrezione nel Decameron di Boccaccio (con la storia di Agilulfo)




(Riadattato dal mio portfolio SSIS, percorsi di letteratura italiana)



La novella di Agilulfo è una delle mie preferite di tutto il Decameron. L'ho proposta alcune volte in seconda media, naturalmente tradotta in italiano moderno, anche con l'idea di trasmettere ai miei alunni l'idea che in certi casi pensare prima di agire può raddirizzare situazioni che sembrano all'apparenza del tutto irrimediabili; ma anche tralasciando questo aspetto didattico è comunque una bellissima storia d'amore, senza contare che è divertente, a lieto fine e che i tre personaggi ci fanno tutti un'ottima figura. Inoltre è un racconto squisitamente medievale, in tutto e per tutto. 
Una prova di comprensione del testo può servire per controllare che l'intreccio piuttosto complesso sia stato afferrato appieno.
La novella della marchesa di Monferrato, molto meno appariscente, è ugualmente fruibile  in una scuola media. Sì, in teoria lo sarebbero anche le altre due, ma ho sempre preferito evitare.

L’arte di tacere nel Decameron
(novelle III, 2; IX, 6 e I, 4; I, 5)

Molti sono i personaggi che nel Decameron si cavano d’impaccio (talvolta anche da impacci invero assai incresciosi) grazie a pronte e accorte risposte; ma in più occasioni Boccaccio ci mostra come gli uomini e le donne prudenti sappiano cavarsi dai più gravi impicci soprattutto grazie al fatto di aver saputo tacere al momento opportuno, riuscendo in tal modo ad evitare danno e scandalo.

Gli accorti e silenziosi protagonisti delle quattro novelle scelte sono molto diversi tra loro per educazione e condizione sociale: un celebre re longobardo, una marchesa, un giovane monaco, la moglie di un modesto oste del contado. In comune tutti e quattro hanno la ventura di trovarsi all’improvviso in una situazione assai spinosa e di riuscire a sfilarsene con garbo e soprattutto con dignità grazie ad una grande discrezione (discretum è infatti colui che sa cernere, ovvero scegliere il partito giusto da prendere) e ad una prontezza di reazione che ha del prodigioso. 
Tutti e quattro,  a buon diritto, potrebbero prendere come motto il celebre “Primum, non nocere” attribuito ad Ippocrate: prima di tutto, non peggiorare la situazione.

III, 2: Un pallafreniere giace con la moglie d’Agilulf re, di che Agilulf tacitamente s’accorge: truovalo e tondelo; il tonduto tutti gli altri tonde e così campa della mala ventura

La novella seconda della terza giornata viene introdotta dalla narratrice (Pampinea) proprio con un elogio della discrezione:
"Sono alcuni sì poco discreti nel voler pur mostrare di conoscere e di sentire quello che per lor non fa di sapere, che alcuna volta per questo riprendendo i disavveduti difetti in altrui, si credono la loro vergogna scemare, là dove essi l’accrescono in infinito: e che ciò sia vero, nel suo contrario mostrandovi l’astuzia [...] d’un valoroso re, vaghe donne, intendo che per me vi sia dimostrato".

La storia parla di un palafreniere della corte di Agilulfo che si innamora pazzamente della regina Teodolinda, tanto da decidere, rischiando il tutto per tutto, di tentare di passare una notte d’amore con lei. Per quanto forte sia l'amore, però, non ha spento del tutto in lui l’istinto di conservazione né il discernimento: consapevole del fatto che la regina non consentirebbe mai a prendersi un amante, e tantomento uno stalliere, il giovane sceglie di non svelare alla regina l’amore che le porta, e di tentare semplicemente di sostituirsi al re. A questo scopo studia accuratamente le abitudini della regale coppia e una notte, prese le dovute precauzioni, tenta il colpo, che riesce nel migliore dei modi.
Stanco ma soddisfatto il giovane va a riposare con tutti gli altri servi.
A questo punto entra in scena il re Agilulfo, che proprio quando il giovane ha appena lasciato la regina decide di godere i suoi privilegi coniugali e si reca perciò nell'appartamento della regal consorte; questa, vedendolo “si meravigliò forte”, tanto da dirgli “O signor mio, questa che novità è stanotte? Voi vi partite pur testé da me, e oltre l’usato modo di me avete preso piacere, e così tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi fate.”
Agilulfo capisce subito cosa è successo e se ne rincresce assai; ma nello stesso tempo elabora anche un’altra serie di considerazioni: la regina non sa cosa è successo, ed è opportuno che continui a non saperlo, per non turbarla e non darle occasione “di disiderare altra volta quello che già sentito avea”. Dunque si guarda bene dal chiarire l’equivoco "il che molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbero detto: “Io non ci fu’ io: chi fu colui che ci fu? Come andò? Chi ci venne?” Di che molte cose nate sarebbono, per le quali egli avrebbe a torto contristato la donna e, datole materia di disiderare altra volta quel che già sentito avea: e quello che tacendo niuna vergogna gli poteva tornare, parlando s’arebbe vitupero recato".

Il danno ormai è fatto, ma si può almeno evitare di renderlo pubblico e di far capire alla donna che, del tutto inconsapevolmente, ha commesso un adulterio (e magari farle desiderare di compierlo di nuovo). Molti sciocchi si sarebbero lanciati in un interrogatorio in piena regola per conoscere tutti i dettagli della faccenda; ma si dà il caso che Agilulfo non sia affatto uno sciocco.
Non per questo è disposto a lasciar cadere la cosa. Così, mostrando di accogliere la preoccupazione della sua gentil consorte, che teme che troppe fatiche nuocciano alla sua salute, rinuncia per quella notte ai piaceri coniugali e lascia subito la stanza per “chetamente trovare chi questo avesse fatto”.
Una rapida riflessione lo convince che il colpevole è uno di casa, e che dalla casa non è potuto uscire. Così raggiunge il dormitorio dove riposa quasi tutta la servitù ed “estimando che, qualunque fosse colui [...] non gli fosse ancora il polso e ‘l battimento del cuore per lo durato affanno potuto riposare, tacitamente [...] a tutti cominciò ad andare toccando il petto”.
La prova riesce e il colpevole viene individuato. Arresto pubblico, dunque, con grida e strepiti e gran clamore?
Niente affatto; perché Agilulfo "sì come colui che di ciò che fare intendeva niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra cosa gli fece se non che con un paio di forficette, le quali portato avea, gli tondé alquanto dall’una delle parti i capelli, li quali a quel tempo portavano lunghissimi, acciò che a quel segnale a mattina seguente il riconoscesse".

La mattina dopo, il servo che si fosse svegliato con un nuovo taglio di capelli sarebbe stato con bel garbo chiamato a parte e portato innanzi al re, al quale non sarebbero mancati modi e argomenti per esternare nel più efficace e discretissimo dei modi il suo estremo disappunto.

L’ottimo e discretissimo piano viene però rovinato dal fatto che il palafreniere, ancora sveglio, aveva capito benissimo perché era stato segnato. E ha provveduto, silenzioso e discreto quanto il re, a stornare da sé il danno: la mattina dopo Agilulf scopre infatti che buona parte della servitù ha i capelli tagliati da una parte. Preso atto che il suo avversario “quantunque di bassa condizione sia, assai ben mostra d’essere d’alto senno” (altro tema assai caro a Boccaccio), il re decide di lasciar perdere "veggendo che senza romore non poteva avere quel ch’egli cercava, disposto a non volere per piccola vendetta acquistare gran vergogna, con una sola parola d’ammonirlo e di mostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque, e a tutti rivolto disse: “Chi ‘l fece nol faccia mai più e andatevi con Dio”.
Un altro gli avrebbe voluti far collare, martoriare, esaminare e domandare; e ciò faccendo avrebbe scoperto quello che ciascuno dee andar cercando di ricoprire; ed essendo scoperto, ancora che intera vendetta s’avesse presa, non scemata ma molto cresciuta n’avrebbe la sua vergogna e contaminato l’onestà della donna sua".

In conclusione Agilulfo preferisce lasciare alquanto meravigliata l’intera sua servitù (del che gli importa poco) e tenersi le corna in testa (che ormai ci sono, ma resteranno un caso isolato) piuttosto che sollevare uno scandalo e infamare la regina. Davanti a un danno non più rimediabile e alla prospettiva di uno scandalo da cui non trarrebbe alcun vantaggio ma solo un danno di immagine, il prudente re accetta di lasciare le cose come stanno.

IX, 6: Due giovani albergano con uno, de’ quali l’uno si va a giacere con la figliuola, e la moglie di lui disavvedutamente si giace con l’altro; quegli che era con la figliuola, si corica col padre di lei e dicegli ogni cosa, credendo dire al compagno; la donna, ravvedutasi, entra nel letto della figliuola, e quindi con certe parole ogni cosa pacefica.

La sesta novella della nona giornata viene narrata da Panfilo (il corrispettivo maschile di Pampinea), e in essa vediamo “un subito avvedimento d’una buona donna avere un grande scandalo tolto via”.
Siamo nella casa di un oste di Pian del Mugnone -  un ambiente sociale molto diverso dalla corte longobarda, ma non per questo indifferente agli scandali.
La famiglia dell’oste è composta da lui, la sua bella e accorta moglie,il loro figlio di pochi mesi che dorme in una culla accanto al letto della madre che ancora lo allatta, e un'altra figlia di sedici anni.
La figlia ha un innamorato, Pinuccio, che allo scopo di portare a compimento il loro amore una sera combina le cose in modo da restare a dormire con la famiglia dell’oste (che proprio per eventualità di questo tipo tiene un letto in più) insieme al suo amico Adriano.
La stanza non è grande, i letti sono fitti. Da una parte i due ospiti, in un altro letto la ragazza, nel terzo letto i padroni di casa con la culla del bambino accanto alla madre.
Tutti vanno a dormire, ma la notte si rivela movimentata. Per primo, naturalmente, si alza Pinuccio, che raggiunge l’innamorata. Poi si alza la signora, perché “una gatta fece certe cose cadere, le quali la donna destatasi sentì: per che levatasi, temendo non fosse altro, così al buio come era, se n’andò là dove sentito aveva il romore” (quadretto che risulta squisitamente familiare a chi ha la ventura di ospitare una o più gatte in casa). Per ultimo si alza anche Adriano “per alcuna opportunità naturale”; quest’ultimo trova la culla a sbarrargli la strada, e la muove per passare, senza però preoccuparsi di rimetterla a posto quando torna a letto.
La donna, constatato che il danno non era grave “garrito alla gatta, alla cameretta se ne tornò” e, ingannata dalla posizione della culla, finisce nel letto di Adriano che, sentendola arrivare “caricò l’orza, con gran piacere della donna”, convinta pure lei, come Teodolinda, di essere con suo marito.
A sua volta ingannato dalla malefica culla, Pinuccio raggiunge non il suo letto, bensì quello dell’oste, e siccome “non era il più savio giovane del mondo”, credendo di parlare all’amico lo informa di quanto piacevolmente è stato accolto dalla sua amica.
L’oste reagisce male, e la donna improvvisamente si accorge di quel che è successo: 
"incontamente conobbe là dove era stata e con cui: per che, come savia, senza alcuna parola dire, si levò, e presa la culla del suo figlioletto, come che punto lume nella camera non si vedesse, per avviso la portò allato al letto dove dormiva la figliuola e con lei si coricò".

Il primo spostamento della culla aveva creato tutti i problemi, il secondo li risolve: la padrona di casa assicura il marito che nessun Pinuccio ha dormito con la ragazza, perché con la ragazza c’era lei. In suo aiuto interviene anche Adriano che, “veggendo che la donna saviamente la sua vergogna e quella della figliuola ricopriva”, accusa l’amico di essere sonnambulo e di straparlare nel sonno. Alla fine perfino il non troppo savio Pinuccio fa la sua parte, mostrandosi sonnambulissimo e facendo vista di svegliarsi solo a gran fatica. L’oste, ormai tranquillizzato, accetta la nuova versione dei fatti senza alcun sospetto e tutto finisce nel migliore dei modi. 
(Quanto al bambino in culla, per tutto il tempo ha dormito un provvidenziale sonno di pietra).


I, 4: Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa, si libera dalla pena

La quarta novella della prima giornata, raccontata da Dioneo è la prima novella “spinta” dell’intero Decameron e il protagonista, un giovane monaco, con l'aiuto ella discrezione e di una certa astuzia riesce non solo a scansare uno scandalo,ma soprattutto a salvarsi  dalle gravi sanzioni previste per i monaci che si fossero resi colpevoli di fornicazione.

Costui infatti, incontrata una bella ragazza nei campi, se la porta in cella durante il riposo pomeridiano dei monaci. Disgraziatamente però l’abate, passando davanti alla cella “sente lo schiamazzio che costoro insieme facevano”. A sua volta il giovane si accorge che l’abate li ha scoperti, vedendolo da un pertugio della porta. "Di che egli, sappiendo che di questo gran pena gli doveva seguire, oltre modo fu dolente: ma pur, senza del suo cruccio niente mostrare alla giovane, prestamente seco molte cose ricolse, cercando se a lui salutifera trovar ne potesse; e occorsegli una nuova malizia, la quale al fine immaginato da lui dirittamente pervenne".
Insomma, invece di perdere tempo a lamentarsi il monaco spende assai più utilmente le sue energie cercando un modo per cavarsi d'impaccio. E lo trova.
Infatti, dopo aver spiegato alla ragazza che va a predisporre le cose in modo da farla uscire senza che nessuno possa vederla, la lascia nella cella chiusa a chiave e porta la chiave all’abate, com’era uso nel monastero quando i monaci uscivano, proclamando “con un buon volto”  la sua intenzione di andare a far legna. Poi lascia che la natura segua il suo corso.
L’abate, rimasto padrone del campo, inizialmente medita di aprire la cella davanti a tutti i monaci e rendere pubblico lo scandalo; poi comincia a pensare se non è il caso di indagare prima chi sia la ragazza (caso mai il monaco si fosse portato in cella una principessa o altra nobildonna) - e insomma entra nella cella per “vedere prima chi fosse e poi prender partito”. Il partito che alla fine prende, ovviamente, è quello di intrattenersi a sua volta con la ragazza - e a quel punto per il giovane monaco diventa facile risolvere la situazione con una battuta che fa capire chiaramente all’abate come sia stato non solo sentito, ma anche visto. 
I due finiranno per accordarsi, e la ragazza uscirà con gran discrezione dal monastero ma “poi più volte si dee credere ve la facessero tornare”.

I, 5: La marchesana di Monferrato con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette reprime il folle amore del re di Francia

La novella successiva (raccontata da Fiammetta) mostra un caso piuttosto diverso: la marchesa di Monferrato, bella e distinta dama, non ha alcun desiderio di tradire il marito, nemmeno inconsapevolmente - ma ci sono dei casi in cui per una signora dire di no è difficile, e soprattutto disagevole. 
Nella fattispecie la marchesa si trova da sola, mentre il marito è alla terza crociata, e improvvisamente il re di Francia le manda a dire che vuole passare con il suo seguito dalle sue terre, e fermarsi da lei per pranzo mentre va a Genova.

"La donna, savia e avveduta, lietamente rispose che questa l’era somma grazia sopra ogni altra e che egli fosse il ben venuto. E appresso entrò in pensiero che questo volesse dire, che un così fatto re, non essendovi il marito di lei, la venisse a visitare: né la ingannò in questo l’avviso, cioè che la fama della sua bellezza il vi traesse".
Insomma la marchesa tiene fede ai suoi obblighi di gentildonna e si mostra cortese e ospitale come dev'essere. E riflette, come ogni prudente donna deve fare, sul perché il re di Francia abbia deciso di venire proprio quando il marchese è assente. E arriva presto a comprendere la probabile ragione di quella visita.
Il problema qui non è tanto dire di no al re, ma cercare di  fermare le cose ben prima di trovarsi al punto di dire sì o no ed evitare a entrambi un colloquio invero spiacevole da cui sarebbero potuti nascere anche strascichi politici piuttosto gravi. 
La marchesa, senza confidarsi con nessuno, opta per un messaggio indiretto e organizza una fastosa ospitalità e un ricco pranzo dove però le vivande sono tutte a base di galline.
Il re nota la stranezza della cosa, in una terra ricca di selvaggina di tutti i tipi, e si rende ben conto che le galline portano con sé un messaggio. Non capisce però; o meglio non vuol capire, perché non si è mai sentito parlare, in tutto il medioevo (e neanche prima o dopo, in verità) di un significato galante o di una valenza afrodisiaca attribuiti alla carne di gallina; e finisce per chiedere, con notevole goffaggine “Dama, nascono in questo paese solamente galline senza gallo alcuno?”.
Per quanto infelice, la domanda è posta nella forma più opportuna per la bella marchesa, che ha così agio di rispondere “Monsignor no, ma le femine, quantunque in vestimenti e in onori alquanto dall’altre variino, tutte perciò son fatte qui come altrove”.
La risposta è chiara quanto basta per il re, che si rende conto che dalla marchesa non potrà ottenere niente né per amore né per forza. Così "senza più motteggiarla, temendo delle sue risposte, fuori d’ogni speranza desinò; e, finito il desinare, acciò che con presto partirsi ricoprisse la sua disonesta venuta, ringraziandola dell’onor ricevuto da lei, accomandandolo ella a Dio, a Genova se n’andò".
Insomma anche il re decide infine di usare un po' di discrezione, risparmiandosi di fare apertamente quella figura di imbecille (per non dire di peggio) che aveva già fatto ma che era rimasta, per così dire, discretamente nascosta nelle pieghe di una conversazione un po' casuale.