Il mio blog preferito

sabato 30 novembre 2013

Gimli e Galadriel


Gimli il Nano si dimostra fin dall'inizio persona ragionevole e senza troppi pregiudizi verso gli Elfi. La convivenza con Legolas nella Compagnia è piuttosto tranquilla, con solo un paio di frecciatine reciproche di assaggio. Ma quando arriva a Lothlorien di pregiudizi ne trova, eccome:  saputo che nella Compagnia c'è un nano gli elfi guardiani fanno un sacco di storie, nonostante Frodo assicuri che è un nano rispettabilissimo scelto per la Compagnia da Elrond in persona e Legolas si faccia garante per lui. I regolamenti del Bosco d'Oro sono implacabili, e per traversarlo Gimli deve essere bendato.
Il trattamento, oltre che ingiusto, è anche piuttosto sciocco: perché, preoccupatissimi di sorvegliare il pericoloso nano sovversivo, le sentinelle di Lothlorien si lasciano scivolare tra le mani Gollum, che va e viene come più gli comoda per il Bosco d'Oro, mentre Gimli non si sogna nemmeno di far qualcosa di men che ortodossoComprendiamo così che l'ostilità tra nani ed elfi deriva principalmente dal fatto che gli elfi hanno sempre trattato i nani come appestati, cosa del resto già ampiamente dimostrata ne Lo Hobbit.

Davanti alle comprensibili rimostranze di Gimli, Aragorn decide che tutta la Compagnia avanzerà bendata, dopo una breve osservazione sul fatto che, forse, magari, gli avversari del Nemico potrebbero fare qualcosa di meglio che darsi addosso l'un l'altro. Le lamentele di Legolas arrivano al cielo, ma insomma alla fine la Compagnia si muove.
Per fortuna Galadriel manda subito l'ordine di sbendarli tutti, nano compreso, e quando i viaggiatori arrivano davanti ai reali consorti Gimli si è un po' addolcito.

Accolto con grande (e doverosa) cortesia, a parte uno scivolone subito rimangiato di Celeborn, il nano guarda Galadriel negli occhi e gli parve di penetrare nel cuore di un nemico all'improvviso, e di trovarvi amore e comprensione
Il cuore di Gimli cambia all'improvviso, e quella che era una ragionevole disponibilità in nome di interessi comuni diventa un grande affetto. Da quel momento lui e Legolas saranno amici inseparabili, e Galadriel regnerà per sempre nel suo cuore.
L'affetto tra il prode nano e la regina degli elfi è reciproco e profondo, e Galadriel decide di portarlo alla luce. Sa che Gimli desidera da lei qualcosa che lei non può offrire, ma che può accettare di concedere se richiesta; così non gli prepara un regalo d'addio (non sarebbe stato difficile: un qualsiasi manufatto ben eseguito sarebbe stato perfetto per l'occasione. I doni per Merry, Pipino e Boromir rientrano in questa categoria) ma gli chiede di chiederle cosa vuole da lei. Gimli risponde con la più medievale delle cortesie che non desidera alcun regalo, e per lui è sufficiente aver veduto la Signora dei Galathrim e udito le sue dolci parole
Galadriel insiste: "Sono certa che tu desideri qualcosa ch'io sono in grado di darti". E alla fine Gimli ammette di desiderare uno dei suoi capelli che eclissano l'oro della terra come le stelle eclissano le gemme delle miniere - ma ha cura di precisare che non lo sta chiedendo, sta solo obbedendo alla richiesta che lei gli ha fatto di esprimere un suo desiderio.
Sentito il desiderio gli elfi fanno tanto d'occhi, mentre il regal consorte Celeborn  osserva un dignitosissimo silenzio - pur pensando probabilmente molte cose in cuor suo; e Galadriel scioglie una delle sue lunghe trecce e consegna a Gimli non uno ma tre dei suoi capelli d'oro che eclissano eccetera eccetera, aggiungendo al dono la previsione che nelle mani di Gimli l'oro scorrerà a flutti, ma non avrà mai su di lui nessun potere - che, più che una previsione o una profezia, sembra a quel punto una constatazione.
Il vero regalo naturalmente non sono i capelli, è l'opportunità che Galadriel gli ha offerto di conoscere ed essere quello che lui realmente è, ed è un regalo senza prezzo di cui giustamente Gimli le sarà riconoscente per tutto il resto dei suoi giorni. I tre capelli d'oro sono a loro volta testimonianza di quel che avrebbe potuto essere tra elfi e nani e non è mai stato, se non in qualche occasione ormai lontana nel tempo, e che ormai è troppo tardi per realizzare compiutamente a livello di razza - ma non tra singoli individui che sanno riconoscersi.

Questa bella scena è stata per me il primo incontro con quel modo particolarissimo di parlarsi che hanno i personaggi di tanta letteratura medievale, che viene genericamente etichettata come "cortesia". Solo un medievista poteva scriverla.

venerdì 29 novembre 2013

Nord e Sud - Elizabeth Gaskell


In Inghilterra, ci dicono, Elizabeth Gaskell (1810-1865) è molto conosciuta. Non credo che si possa dire altrettanto in Italia, dove è stata tradotta una goccia per volta, ogni volta con un editore diverso, e quasi sempre di editori di nicchia.
Quando, con comodo e senza fretta, qualcuno si è finalmente degnato di considerare la possibilità di tradurre Nord e Sud, uno dei suoi romanzi più famosi, a farlo è stata una casa editrice veramente di nicchia, praticamente un fantasma: l'Agenzia Letteraria Jo March (rintracciabile anche su Facebook, volendo).
Proprio da Facebook sono arrivata a loro, ma per vie assai tortuose, prima tra tutte un casuale "mi piace" messo da un'amica (nemmeno molto appassionata di letteratura vittoriana, e probabilmente solo incuriosita dal nome) che mi ha portato sulla loro bacheca un annetto fa. Ho così scoperto che costoro, ormai da un anno, avevano pubblicato in italiano North and South, romanzo di cui avevo sempre sentito dire grandi meraviglie ma di cui conoscevo solo, e molto vagamente, la trama.
Non fu facile per il mio libraio procurarmelo, ma nel frattempo ho scoperto che comprare in rete dall'Agenzia è relativamente facile e rapido, e così la seconda copia, destinata ad un'amica*, è arrivata nelle mie mani nel tempo record di nemmeno due settimane. Adesso poi il libro è perfino sul catalogo delle librerie Feltrinelli (sugli scaffali no, certo, ma nessuno sperava di arrivare a tanto, con un libro fantasma).

In realtà proprio fantasma il libro non è, anzi nella sua massiccia concretezza consta di ben 455 pagine più indice e copertina leggera (con una bella illustrazione assai pertinente al contenuto, cosa molto  rara al giorno d'oggi) per il prezzo tutto sommato modico di 15 euro, che ho sborsato senza rimpianti .

Si tratta di un classico romanzo vittoriano, scritto da una classica romanziera vittoriana e che racconta la formazione di una classica ragazza vittoriana che si conclude con il di lei matrimonio - dove naturalmente "classico" non sta per "banale": le romanziere vittoriane erano tutte tipi piuttosto originali e scrivevano romanzi decisamente insoliti e con protagoniste (e protagonisti, talvolta) tutt'altro che scontati. 

Nel caso in questione la giovane e bella protagonista, Margaret, trascorre per esempio non poche pagine interessandosi di economia e di condizione operaia, oltre che della madre ammalata e del padre addolorato. Economia e questione operaia (che Elizabeth Gaskell conosceva piuttosto bene) sono parte integrante della trama molto ben intrecciata e il romanzo si lascia leggere con gran piacere e partecipazione emotiva; ed è proprio la parte economica che risulta attuale in modo sorprendente.
Siamo a metà Ottocento (il libro uscì nel 1855), nel pieno della rivoluzione industriale. Per vari motivi la protagonista si trova sbalzata da un idilliaco e pacioso (ma non troppo benestante) angoletto dell'Inghilterra del Sud all'industializzatissima città di Milton, dove le ciminiere fumano senza posa, i telai sfornano tonnellate su tonnellate di tessuti e indumenti di cotone e dove torme di operai sfruttati e spesso sottopagati cercano di conquistarsi condizioni decenti di lavoro attraverso le lotte sindacali, mentre folti manipoli di imprenditori dell'industria tessile si ingegnano di tenerli al loro posto, con alterni risultati.

Gli operai, scopre la spaesata Margaret, non sono come i contadini: sono più agguerriti, più combattivi e più complicati. E gli imprenditori non sono come la gentry della buona società che è abituata a frequentare, sono... la prima impressione che viene trasmessa al lettore attraverso gli occhi della protagonista è che si tratta di una notevole manica di stronzi - anche se, naturalmente, una brava eroina dell'età vittoriana non si esprime in termini sì crudi. E proprio con uno di questi imprenditori, lo spinoso e spigoloso Mr. Thornton, dopo un'iniziale e assai spiccata diffidenza, Margaret finirà per scoprire notevoli affinità, così come con uno dei più agguerriti operai, Higgins. No, non c'è alcun tipo di triangolo e il finale sarà esattamente quello... non diciamo prevedibile, ma auspicato dal lettore.

Quel che più sorprende l'inesperta ma sensata Margaret è che operai e imprenditori non cerchino di dialogare tra loro pur avendo in comune così tanti interessi, primo tra tutti la sopravvivenza in quel tempestoso mare che è il Mercato.
E proprio sulle leggi del Mercato, totem tuttora assai venerato da molti economisti che sembrano capirne di economia anche meno di una fanciulla vittoriana cresciuta a studi umanistici, dal libro arrivano frasi di sorprendente attualità per i lettori del terzo millennio.
"Gli Americani stanno conquistando il mercato generale dei filati" spiega Mr. Thornton "e l'unica possibilità che abbiamo è quella di produrre i nostri a un prezzo più basso. Se non ci riusciamo, tanto vale che chiudiamo bottega,  e che padroni e operai vadano tutti a mendicare. Ora questi idioti ritornano ai prezzi di tre anni fa... (...) E' un peccato scoprire che degli stolti - uomini ignoranti e capricciosi come questi - soltanto unendo le loro stupide, deboli testoline, stiano a dettar legge sulle fortune di coloro che possiedono tutta la saggezza che la conoscenza e l'esperienza possono dare, non senza pensieri e amare preoccupazioni. Il prossimo passo - davvero, siamo tutti proprio arrivati a questo, adesso - sarà che dovremo andare a chiedere - a chiedere umilmente, col cappello in mano - al segretario del Sindacato dei Filatori di essere così gentile da fornirci la manodopera al loro prezzo. Questo è quello che vogliono loro, che non hanno il buonsenso di vedere che, se qui in Inghilterra non otteniamo una giusta parte dei profitti che ci compensa per il nostro logoramento, potremmo cominciare a trasferirci in un altro paese."
Gli idioti, stolti, ignoranti e capricciosi sono gli operai sindacalisti, che hanno la curiosa e stravagante pretesa di continuare a mangiare tutti i giorni, americani o non americani, e che su questa pretesa si impuntano scioperando.
"Noi industriali di Milton abbiamo comunicato oggi la nostra decisione. Non sborseremo un penny di più. Diremo loro che potremmo ridurre i salari, ma non possiamo permetterci di aumentarli. Eccloci qui, dunque, ad aspettare la loro prossima mossa."
"E quale sarà?" chiese il signor Hale.
"Presumo uno sciopero immediato. Immagino che vedrete Milton senza fumo tra qualche giorno, signorina Hale."
"Ma per quale ragione non potete spiegare che avete buoni motivi di prevedere che il commercio andrà male?"
"Date spiegazioni ai vostri domestici sulle vostre spese, o su come gestite il vostro denaro? Noi, che possediamo il capitale, abbiamo diritto di scegliere cosa farne."

Lo sciopero - una sorta di catastrofe dai contorni ben diversi dei rituali scioperi contemporanei - viene sul momento arginato da Mr. Thornton ricorrendo a manodopera straniera, ovvero stracciatissimi immigrati irlandesi; che si rivelano però lavoratori più sottomessi ma assai più inesperti dei lavoratori di Milton, con conseguenze disastrose sulla produzione delle fabbriche, per tacere di una vera sommossa che l'arrivo dei poveretti scatena.
Sia sciopero che sommossa si rivelano sul momento un gioco da cui entrambe le parti in causa usciranno perdenti, e che non finiranno in un disastro completo solo perché Thornton accetta la supplica di Margaret di parlare con gli scioperanti. Margaret è infatti convinta, conoscendo entrambe le parti in causa (a livello personale, si noti bene) che imprenditori e lavoratori debbano prima di tutto parlare tra loro. Proposta decisamente strampalata, e che sono un uomo altrettanto strampalato come Mr. Thornton (e, dall'altra parte della barricata, come Higgins) può prendere in considerazione. I fatti finiranno per darle ragione, dopo un cammino abbastanza tortuoso.

Da questo romanzo è stata tratta qualche anno fa una miniserie televisiva dove il ruolo dello spinoso Mr. Thornton è affidato (con ottimi risultati, pare) a Richard Armitage. Sì, proprio Thorin Scudodiquercia.



Con questo post partecipo ai Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro un felice fine settimana pieno di sentimento non disgiunto da un'adeguata presa di coscienza politica dei problemi sociali contemporanei.

*si sa che regalare libri è sempre un po' azzardato, ma stavolta mi presenterò col pacchetto assai fiduciosa di NON regalare un doppione

mercoledì 27 novembre 2013

La Compagnia dell'Anello

Foto di gruppo della Compagnia prima della partenza

Al momento di formare la Compagnia dell'Anello, Tolkien avvisa Elrond che questo è un sequel de Lo hobbit, col risultato che gli unici personaggi veramente nuovi rispetto al romanzo precedente sono i due uomini.
La Compagnia è multirazziale (sì, con Tolkien possiamo parlare di razze senza essere scientificamente scorretti, anche se probabilmente lui ci spiegherebbe che sono comunque tutte nate da Iluvatar e che farne una scala gerarchica non avrebbe senso perché ogni razza ha i suoi pregi e i suoi difetti) e in teoria dovrebbe comprendere rappresentanti di tutti i popoli liberi della Terra di Mezzo, ma scopriremo poi che non è così; del resto, invitare anche un Ent sarebbe stato un problema, viste le distanze e i problemi di comunicazione con le zone al di là delle montagne, anche se probabilmente Legolas avrebbe assai gradito. 

Abbiamo dunque quattro hobbit, due dei quali imparentati con Bilbo che tutti hanno conosciuto di persona (Pipino meno degli altri, essendo ancora un bambino quando Bilbo lasciò la Contea), e tutti e quattro conoscono la Cerca di Erebor come se l'avessero fatta loro.
Poi c'è lo stregone, Galdalf, che la Cerca di Erebor l'ha fatta per davvero e addirittura in buona parte organizzata e diretta. Al fianco porta la spada elfica Glamdring, trovata per l'appunto durante la Cerca e "compagna della spada Orcrist che giaceva ora sul petto di Thorin sotto la Montagna Solitaria" - una frase cupa, che sembra anticipare le cupe ombre di Moria e i suoi ancor più cupi abissi di fuoco, e che ci ricorda Thorin - che della Cerca di Erebor era stato uno dei principali protagonisti ma che a questa particolarissima impresa, che consiste nel perdere irreversibilmente un tesoro invece di ritrovarlo, contribuisce solo con la cotta che ha regalato a Bilbo.
Poi ci sono il Nano e l'Elfo. Nel vasto assortimento di Elfi di cui dispone Gran Burrone, tutti di altissimo lignaggio e di grandi poteri ma che per la Compagnia  sarebbero utili quanto la tradizionale bicicletta per un pesce, viene scelto l'unico che ha un qualche vago legame con la Cerca, anche se nel romanzo precedente non è mai comparso (probabilmente perché l'autore non aveva ancora pensato a crearlo): Legolas, il figlio di re Thranduil di Bosco Atro, che non tarda a dimostrarsi ben più gentile e simpatico del padre, e assai più aperto di vedute.
Infine Gimli il Nano, anche lui collegato alla Cerca. E' il figlio di Gloin, uno dei tredici nani della spedizione che però, in tutto il romanzo precedente, non ha fatto o detto niente di particolare e che cominciamo a conoscere solo quando si presenta a Frodo durante il banchetto.
Certo, anche Gloin è un discendente di Durin e parente di Thorin Scudodiquercia (ramo laterale); ma ci si sarebbe forse aspettati di vedere un figlio o nipote di Balin, il nano più amico di Bilbo nel romanzo. Gloin, chi se lo ricorda? E cosa ha fatto durante la Cerca per farsi ricordare?
Comunque sia, Gimli al momento è l'unico nano di età abbordabile per partecipare alla missione (l'assortimento dei nani di Gran Burrone è molto ridotto, e in verità solo l'accortezza del romanziere permette che ce ne sia almeno uno candidabile per la Compagnia). Non sappiamo se ha chiesto di partecipare o se gli è stato offerto, in ogni caso accetta con consapevolezza e si dimostrerà fedele e leale, oltre a rivelarsi un eccellente amico per tutti. Forse perché non è un nano sperso in un gruppo di tredici nani, nessun lettore ha mai la minima difficoltà a ricordarsi di lui.
Per me, che ho letto Il Signore degli Anelli prima de Lo Hobbit, è stato il primo nano - e dopo aver conosciuto lui, devo ammettere che i nani della Cerca di Erebor sono stati una delusione: Gimli ha certamente più costanza, più forza d'animo, più lungimiranza e maggior sensibilità di tutti loro messi insieme, e certo non deve arrivare al letto di morte per farsi venire il sospetto che, forse, gli amici hanno un valore non inferiore all'oro e alle gemme; anzi, dà l'impressione di saperlo già prima della partenza.
Come capirà subito Galadriel.

domenica 24 novembre 2013

A casa (non sempre il posto migliore è la Contea)

Sin dalla sua prima visita, Bilbo si è sempre trovato molto bene a Gran Burrone
(sì, quelle sullo sfondo sono attrezzature sceniche. Anche l'asse in primo piano, mi sa)

Risvegliato infine dalle abili cure di Elrond, Frodo scopre che fra i suoi titoli di merito a Gran Burrone non c'è solo quello di essere il Portatore dell'Anello e un caro amico di Gandalf, ma anche e soprattutto essere il nipote di Bilbo, che sin dai tempi della Cerca di Erebor lì è considerato uno di casa.
E infatti proprio lì Bilbo si è insediato in pianta stabile, dopo breve peregrinazione. Lo ritroviamo nel Salone del Fuoco, seduto tranquillamente in un angolo, una poesia in mano da finire di ritoccare, una ciotola e un po' di pane accanto a lui come cena.

Ha assistito Frodo insieme a Sam ma non c'era al momento del risveglio e non ha partecipato al banchetto perché "quel genere di cose non lo attira più tanto"; proprio lui che ha salutato la Contea con una delle più colossali abbuffate che la storia hobbit ricordi, adesso preferisce uno spuntino accanto al fuoco per dedicarsi con più calma alla sua canzone.

L'inquietudine è sparita, ora che ha lasciato l'Anello; è tranquillo, un po' invecchiato; le sue canzoni non sono più inni al bagno caldo o alla cena dopo una lunga passeggiata, ma poemi sulle antiche storie elfiche; il suo Libro Rosso non è andato molto avanti (e infatti sarà Frodo a completarlo).
In pratica: ha smesso di scrivere romanzi ed è occupato a scrivere... il Silmarillion*.
Adesso sa cos'è quell'Anello che ha incautamente maneggiato con tanta confidenza, e soprattutto ha capito in che razza di trappola ha messo il suo amato nipote adottivo. E gli dispiace.
L'Anello ha ancora un'ombra di potere su di lui: quando Frodo glielo mostra (malvolentieri) succede Qualcosa, e improvvisamente Frodo vede ...
Non è chiaro se la trasformazione in un vecchio adunco e rapace con la mano tesa verso l'Anello è un'immagine proiettata da Frodo o è quel che Bilbo effettivamente diventa davanti al suo ex-tessoro, ma qualcosa comunque succede, ed entrambi lo percepiscono chiaramente.

La storia cambia a seconda del momento in cui la guardi, e adesso Bilbo sa che il momento culminante della sua vita non è stato - come aveva creduto un tempo - affrontare un drago saldamente insediato sul suo letto d'oro, ma la gara di indovinelli con cui aveva vinto un anello a un piccolo mostriciattolo che meditava apertamente di mangiarselo. E' con una certa vanità che racconta al Consiglio di Elrond di come l'Anello è diventato suo. Addirittura, si offre di completare quel che ha iniziato, portando l'Anello a Mordor, nel tentativo di risparmiare Frodo - che è, come sanno quasi tutti al Consiglio, il Predestinato: perché chi ha avuto compassione perfino per Gollum può ben avere compassione per il suo amato nipote, che è finito in quel pasticcio per colpa sua.

Ma Bilbo è troppo vecchio per affrontare l'impresa, senza contare che sarebbe pericoloso affidare di nuovo l'Anello a qualcuno che l'ha già posseduto e forse non se ne è mai completamente liberato (come infatti è); il vecchio hobbit ha recitato tutta la parte che gli spettava ed è ormai fuori dal gioco. "La tua parte è terminata, ed il compito che ti rimane è quello del narratore*" stabilisce Gandalf, e Bilbo non insiste perché sa che lo stregone ha ragione. "Suppongo di non avere più forza e fortuna sufficienti per trattare con l'Anello" ammette "Lui è cresciuto e io no". Che mi sembra una bellissima risposta, oltre che un'analisi molto precisa della situazione.

Bilbo però trova un altro modo di aiutare Frodo, regalandogli i due cimeli più  cari della sua antica avventura: la spada Pungolo (che in realtà sarebbe Pungiglione), made in Gondolin,  e la cotta di mithril che a suo tempo Thorin gli ha regalato, entrambi oggetti dall'enorme valore materiale ma soprattutto di grandissima utilità.
La meravigliosa cotta di mithril, leggera come una camicia, forte e impenetrabile più di qualsiasi corazza, elegantissima con le sue decorazioni di diamanti e preziosa oltre ogni calcolo umano e hobbitiano si rivelerà per Frodo un enorme aiuto, dandogli una protezione ineguagliabile. Pieghevole come lino, fredda come ghiaccio, dura più che l'acciaio... Da sempre occupa i miei sogni, con quel rumore leggero di ghiaccioli tintinnanti e quel colore di metallo chiaro e lucente, bianco-argento. Elegante e pratica nello stesso tempo, leggera e resistente, lucente eppur discreta. Frodo la porterà con la stessa nonchalance di Bilbo, perché, come Bilbo, sa che le cose davvero preziose sono altre.

*E di queste ciambelle al miele da gettare in bocca al critico letterario, Tolkien ne semina parecchie nel romanzo, quando parla di Bilbo. Sei d'accordo, povna?

venerdì 22 novembre 2013

Il pugnale di Morgul

Risveglio a Gran Burrone dove tutto è bello, perfino le coperte

Nessuno ha spiegato a Frodo che invocare il nome di Elbereth (nelle Terra di Mezzo certi nomi e certe parole sono più forti delle spade più acuminate) è un'eccellente difesa contro le armi del Nemico, ma ci arriva da solo. Purtroppo però l'idea gli viene solo dopo che la lama di Morgul lo ha ferito.
Per effetto di quel nome la lama si disfa come neve al sole - tutta, tranne la scheggia che è rimasta dentro lo hobbit e che lo cambierà per sempre. 
La ferita non è grave e si richiude in fretta. Il gelido frammento però lavora dentro di lui, lasciandogli dentro un freddo e una pena che né le mani da guaritore di Aragorn né il tocco di Glorfindel né la potentissima athelas riusciranno altro che ad attenuare per breve tempo.
Frodo soffre, in silenzio e con ammirevole forza, e un po' per volta la sua vista si annebbia. Prima sembra un velo dovuto alla stanchezza, che arriva alla sera e che i raggi del sole disperdono; ma col passare dei giorni la visuale si fa sempre meno chiara finché non vede più la cosiddetta realtà fenomenica, ma solo "l'altro mondo": la fiamma di Glorfindel, potente su entrambi i livelli, i gelidi cavalieri neri e ombre vaghe e indefinite. Il tenace organismo hobbit alla fine cede, ma il cuore hobbit non viene scalfito e i suoi pensieri e i suoi sentimenti non cambiano: gli uomini cedono facilmente alle lame di Morgul, ma per gli hobbit ci vuole ben altro.
Alla fine, dopo un grandioso inseguimento che splende davanti al lettore come una sequenza cinematografica, l'ammirevole e assai magico cavallo Asfaloth porta Frodo oltre il guado che conduce alla terra di Elrond. I Cavalieri Neri ormai impazziti per il richiamo sempre più forte dell'Anello provano a varcare il guado a loro volta, dimenticandosi dei problemi che hanno con l'acqua; ma Elrond scatena le acque del Rombirivio e li travolge. Pesti e ammaccati, dovranno tornare a piedi a Mordor (e il fatto di non avere piedi né cavalli complicherà alquanto il loro viaggio, con grande soddisfazione di chi legge e che non prova per loro alcunissima simpatia).

Il frammento però continua a lavorare, e solo dopo tre giorni Elrond riesce infine ad estrarlo, proprio prima che raggiunga il cuore di Frodo, che stava ormai cominciando a svanire, lasciando per sempre la terra dei comuni mortali.
Una ferita di questo tipo non resta senza conseguenze, solo che non sono  affatto le conseguenze previste dal Nemico. Il cuore di Frodo è intatto, ma la sua anima è in un certo senso raffinata. Frodo continua a non sentire alcuna  attrazione verso il lato oscuro della Forza, ma sviluppa una sensibilità più acuta e una maggior consapevolezza del Male quando lo ha vicino - per certi versi anche una maggiore capacità di comprensione; diventa però più facilmente percepibile per i servitori del Nemico (per esempio il misterioso mostro acquatico che vive nello stagno davanti alle porte di Moria e che cerca di afferrare soltanto lui).
E' una ferita magica e produce effetti magici. Se ci fosse stata solo quella però lo hobbit sarebbe potuto tornare a vivere nella Contea senza troppi problemi, probabilmente. Restando comunque segnato, certo: non si possono passare due settimane tenendosi dentro un frammento di lama di Morgul e tornare a vivere come se niente fosse. Qualcosa è comunque cambiato.
Ma forse è proprio quel Qualcosa che è cambiato che lo spinge, infine, ad accollarsi l'intera missione e ad accettare di portare l'Anello fino al Monte Fato, adesso che non è più "solo" un hobbit.

giovedì 21 novembre 2013

All'insegna del Puledro Impennato

Ted Nasmith - Gandalf e Thorin a Brea (ovvero dove tutto ebbe inizio)

La terra di Brea è un simpatico posto dove uomini e hobbit vivono mescolati con grande soddisfazione reciproca e dove nani e uomini di varia provenienza passano di frequente nei loro viaggi. Adesso però a questa variegata fauna si sono aggiunte le spie del Nemico e pure i Cavalieri Neri, e questo rende assai complicata la tappa che i quattro hobbit fanno lì.
Per proteggerli ci sarebbe Aragorn, figlio di Arathorn, erede di Isildur nonché amico e confidente di Gandalf. Ma il primo intervento del blasonatissimo ramingo si rivela disastroso sotto tutti gli effetti: preoccupato che, chissà, forse Pipino potrebbe finire per rivelare qualcosa dell'Anello chiacchierando del più e del meno nella sala comune della locanda, Aragorn spinge Frodo ad intervenire - e Frodo per distrarre tutti canta una canzone di Bilbo (tuttora molto famosa ai nostri giorni) e finisce per infilarsi involontariamente l'Anello e sparire, mettendo così sull'avviso tutti i Cavalieri Neri del circondario - quattro, per il momento - nonché innervosendo assai tutti gli ospiti del Puledro Impennato. Complimenti, messer Aragorn, con amici come lei i nemici sono superflui.

Nonostante questo disastroso avvio gli hobbit (o almeno Frodo) decidono di fidarsi di lui e se lo prendono come guida, incuranti della palese preoccupazione dell'oste Cactaceo - che, anche lui, come amico non sembra un gran guadagno visto quel che ha combinato con la lettera di Gandalf.

La tappa di Brea è l'ultimo, fragile istante in cui le cose hanno ancora un aspetto di normalità: una gustosa cenetta in un salottino della locanda (e chi la vedrà più, una locanda? Palazzi reali quanti ne vuoi, ma un pasto normale in una locanda d'ora in poi gli hobbit possono soltanto sognarselo), conversazione con gente normale nella sala comune, con una buona birra in mano, canzoni da osteria, provviste da acquistare per il viaggio... E' anche l'unica volta che vediamo del denaro: autentiche monete coniate da qualche zecca e usate per transazioni finanziarie. Scopriamo così che si usano i soldi d'argento, monete di un certo valore perché con quattro puoi comprarci un buon pony e una spesa imprevista di trenta soldi sguarnisce assai le casse dell'oste. D'ora in poi avremo solo regali, ricche ospitalità, pranzi al sacco o digiuno drastico e non vedremo più cambiar di mano nemmeno a una monetina di bronzo o di rame.

Davanti ai quattro hobbit, all'erede di Isildur e al pony Billy si aprono le distese delle Terre Selvagge, che se le chiamano così c'è ben il suo motivo. 
Il pony comunque è contento: stava talmente male col suo padrone precedente che nelle Terre Selvagge ingrassa, si rimette in forze e riprende il pelo lucente e il buon umore di cui Natura lo aveva dotato.
Si sa, a volte basta davvero poco.

mercoledì 20 novembre 2013

Al di là del Brandivino

Il traghetto sul Brandivino

I Took sono il ramo avventuroso degli hobbit, celebri per buttarsi a capofitto nelle avventure (...ogni tanto, se proprio capita). I Brandybuck invece sono quelli "strani": vivono al di là del fiume, maneggiano barche, abitano a un passo dalla Vecchia Foresta... non è necessario che cerchino le avventure, sono le avventure che cercano loro. Ma non ne parlano molto. La sera però chiudono a chiave le porte di casa, e hanno fatto crescere la Frattalta, una grande e robusta siepe, per tenere a bada la Vecchia Foresta. Per uscire dalla Frattalta c'è un cancello, chiuso con un pesante catenaccio. No, non è per paura che vengano dei ladri a rubare l'argenteria. E la Terra di Buck ha un richiamo musicale per dare l'allarme, quando il pericolo arriva - segno che ogni tanto arriva.

Mariadoc Brandybuck, futuro signore di quella terra, avrebbe le carte in regola per essere l'eroe in un'altra storia (non in questa, dove serve un eroe di tipo particolarissimo, ovvero Frodo). Non si spaventa facilmente, non è portato a drammatizzare ed è un efficiente organizzatore. In effetti la prima parte della spedizione la dirige lui. Aiuta Frodo a trovare casa a Crifosso, organizza il trasloco, organizza nello stesso tempo la partenza che sa che dovrà essere fatta perché ha capito buona parte di quel che stava succedendo, e l'ha capito perché si è messo a indagare sul come e sul perché stesse succedendo questo e quello. E' l'unico hobbit che a Gran Burrone studia le mappe del viaggio che dovranno fare, ed è anche quello che viene sfiorato più da vicino dall'Ombra - senza mai essere ferito davvero: al risveglio dopo l'incubo dei Tumulilande si ricorda ancora di quel che è successo - o meglio, che ha rivissuto - compresa la lancia nel suo cuore. I Cavalieri Neri arrivano a sfiorarlo, durante la notte a Brea, lasciandolo tramortito. Lui, con il loro capo, farà ben altro che sfiorarlo - e proprio con l'aiuto della spada trovata nei Tumuli: l'impresa più convenzionalmente eroica, ovvero l'uccisione del re stregone di Angmar, spetta a lui. E' l'hobbit con più senso pratico, e il più decisionista. E' anche quello meno toccato dagli Elfi, che sulla Terra di Mezzo rappresentano il ponte verso il Mondo Superiore, e l'unico dei quattro che non incontrerà Gildor. La sua patria di elezione diventerà la terra di Rohan, abitata da uomini buoni e coraggiosi ma abbastanza disinteressati verso il trascendente: cavalli, guerra, campi da coltivare, eroiche gesta e nemmeno una goccia di sangue elfico nelle vene.
All'occorrenza sa anche organizzare eccellenti cene e spuntini all'aperto, a Crifosso come tra le rovine di Isengard.

L'altro abitante della Terra di Buck che conosciamo un po' più da vicino è l'accortissimo Maggot, che tra i suoi amici include niente di meno che Tom Bombadil (altra figura decisamente radicata alla terra); proprio Tom Bombadil lo descrive con parole di alta lode: "C'è terra solida sotto i suoi vecchi piedi, creta sulle sue dita, saggezza nelle sue ossa e i suoi occhi sono ben aperti". Infatti con pochissimi elementi Maggot capisce subito l'essenziale di quel che c'è da capire: quel che sta succedendo, per incomprensibile che sia "è dovuto agli strani traffici di Bilbo"; più esattamente, a qualcosa che ha portato indietro dal suo viaggio.

martedì 19 novembre 2013

Un lungo addio



La fonte di ogni delizia, ovvero Casa Baggins

Bilbo parte in una bella mattina di tarda primavera, di corsa e senza pensarci, in uno slancio di entusiasmo. 
Frodo lascia Casa Baggins molto a malincuore in una sera di inizio autunno dopo lunga, lenta e snervante preparazione. Lo strappo si consuma solo dopo che ogni ragionevole e decente pretesto di rinvio si è trascinato fino ai limiti della sopportazione.
E' uno stacco lento e doloroso: prima la vendita di Casa Baggins ai Sackville-Baggins (Orrore! Profanazione!) insieme a una parte dei mobili. I preparativi per il trasloco si trascinano per settimane, con quattro prodi amici che hanno preparato le casse con le cose da portare via, verso la futura dimora di Crifosso dove gli hobbit dormiranno una sola notte.
Nel cuore di Frodo alberga da tempo una blanda disponibilità verso un Viaggio di Avventure anche e soprattutto in cerca di Bilbo, che a diciassette anni dalla sua partenza ricorre ancora con grande frequenza nei pensieri suoi e degli amici; ma, appunto, è una disponibilità blanda, prova ne sia che non ha mai lasciato la Contea né pensato seriamente di farlo.
Quando sa di dover partire davvero, o meglio quando si accolla la responsabilità di portare l'Anello fuori dalla Contea, il suo atteggiamento infatti è di viva contrarietà e trova modo di rimandare di un bel po' - una scelta che si porterà dietro deplorevoli conseguenze. Aspetta il compleanno di Bilbo, che è anche il suo. Aspetta il tramonto. Lui,  Sam e Pipino danno l'addio a Casa Baggins, stanza per stanza, Sam si congeda anche dal barile di birra. E' una partenza dolorosa, con le ombre che crescono fino a invadere le stanze - e al loro ritorno la troveranno profanata oltre ogni dire.
Soprattutto, Frodo aspetta Gandalf, che gli aveva promesso di tornare in tempo per partire con loro. Ma Gandalf ha faccende assai pericolose da badare e gli aveva infatti scritto di partire prima, solo che la lettera è rimasta bloccata all'osteria del Puledro Impennato, come scopriranno più avanti.
Alla fine il primo strappo avviene, appena in tempo: a casa Gamgee qualcuno, vestito di nero, su un cavallo nero, è venuto a cercare "il signor Baggins" (che non è il signor FRODO Baggins, scopriremo più avanti) proprio qualche minuto prima della loro partenza - e non è qualcuno che abbia intenzioni amichevoli, questo Frodo lo immagina sin dall'inizio.
Alla fine l'addio si compie e i tre hobbit partono per quella che all'inizio sembra una graziosa escursione di tre giorni, con canzoni intorno al fuoco e piacevoli colazioni all'aperto, più un breve temporale che gli farà ancor meglio apprezzare l'acqua calda che l'efficientissimo Meriadoc Brandybuck ha preparato per il loro arrivo a Crifosso (in cui gli hobbit  si tuffano, cantando naturalmente una canzone scritta da Bilbo).

lunedì 18 novembre 2013

Quest'anello! Ma com'è possibile che l'abbia io?


Bilbo compie in modo istintivo due scelte che determineranno il futuro della Terra di Mezzo. La prima è risparmiare Gollum perché "non volle colpire senza necessità", la seconda è scegliere il futuro Portatore dell'Anello - e il tratto più notevole della seconda scelta è di farla senza sapere, almeno a livello conscio, che sta scegliendo qualcuno per qualcosa. E' il primo Portatore che regala l'Anello, e a sua volta Frodo, che dell'Anello è entrato in possesso in modo perfettamente legale, si dichiara più volte disponibile a offrirlo a persone che possano gestirlo meglio di lui (Gandalf e Galadriel che giustamente rifiutano inorriditi) e a chi secondo lui ne è il proprietario legittimo (Aragorn, in quanto discendente di Isildur che l'aveva vinto in battaglia, il che vuol dire rubato, al suo legittimo proprietario).
Frodo si rivela fin da subito la scelta migliore che Bilbo poteva fare - ed è stata effettivamente una scelta: Bilbo l'ha adottato, dopo diversi anni che lo conosceva, e ne ha fatto il suo erede. Non aveva particolare necessità di farlo: anche considerando che non voleva lasciare nemmeno uno spillo ai Sackville-Baggins, poteva comunque regalare le sue proprietà a chiunque altro. Ha scelto Frodo. E ha scelto di regalargli l'Anello perché non voleva più tenerlo per sé.

Il carattere di Frodo non viene mai descritto, nemmeno per quel poco che Tolkien descrive i suoi personaggi. Frodo, semplicemente, compare sulla scena e comincia a fare e a dire. Sin dall'inizio appare un individuo perfettamente centrato e non farà mai niente in contrasto con la sua personalità se non un paio di volte, verso la fine del Viaggio, quando l'Anello riuscirà in qualche momento a sopraffarlo. Accetta il suo destino con consapevolezza e lo segue con grande pazienza - ed è, invero, un destino decisamente perfido.
Secondo ogni logica le forze che gli si contrappongono dovrebbero schiacciarlo in cinque pagine scarse, ma contro ogni previsione e ogni ragionevole possibilità Frodo ce la farà, affrontando le sue scelte senza farsi molte illusioni né coltivare particolari speranze.

Quello che è uno dei migliori eroi della letteratura occidentale si distingue per un carattere dolce e affettuoso. Si affeziona a tutti, non porta rancore a nessuno (beh, a qualche orchetto forse un pochino sì. E magari anche a Shelob o agli Spettri dell'Anello. Ma non sembra pensarci molto, in effetti) e con garbo e cortesia, da pari a pari, parla con stregoni, dame elfiche di altissimo rango, principi elfici, re di Gondor e quant'altro di personaggi importanti incrocia sulla sua strada - e ne incrocia davvero parecchi. 
Giustamente ha molti amici, sin dall'inizio, e sono tutti amici disposti letteralmente a morire per lui - cosa che però lui non gli permetterà mai di fare. E non resta mai solo, nemmeno dopo che l'Anello viene distrutto, in quei terribili momenti in cui il mondo sembra letteralmente crollargli addosso, nemmeno quando dovrà abbandonare la Terra di Mezzo per andarsene a guarire al di là del Mare. Chiunque incontri Frodo ne resta incantato*, e perfino Gollum, vicino a lui, sfiora per un attimo la possibilità di redenzione - perché anche lui lo ama, alla fine, e vorrebbe risparmiarlo. Almeno un po'.

Il coraggio di Frodo non è molto appariscente - all'occorrenza mostra anche una certa dose di coraggio fisico, ma niente di spettacolare. E' un tipico coraggio hobbit: non permette a niente e a nessuno di farlo essere diverso da quel che è. Solo l'Anello, in uno sforzo supremo, riesce per un breve attimo a sopraffarlo; ma contro questo Frodo ha già provveduto da tempo, portandosi dietro, a dispetto di tutto e di tutti, il più scomodo e sgradevole antidoto di cui la medicina della Terra di Mezzo disponga - ovvero l'insopportabile Gollum.
E dunque Frodo, l'hobbit dolce e pacifico, cresciuto in mezzo agli agi e al benessere, riesce dove chiunque dei molti eroi di cui la Terra di Mezzo dispone non osa avventurarsi, dopo aver avuto la forza di sopportare stenti e privazioni di ogni tipo, perdendo perfino, alla fine della strada, la memoria di quel che è stata la sua vita.

Grandi ricompense alla fine non ce ne sono, ma immagino che essere Frodo Baggins sia comunque di per sé una ricompensa.

*Sì, certo, purché non sia un orchetto o uno spettro dell'Anello. C'è un limite a tutto.

domenica 17 novembre 2013

17 Novembre 2013 - Festa del Molto Onorevole Gatto Nero




Auguri a tutti i bellissimi gatti neri che riempiono le nostre case e i nostri giardini con la loro grazia, la loro eleganza e la dolcezza del loro affetto.

(E un augurio supplementare a tutti i gatti diversamente neri, anche a quelli bianchi come la panna)

Come burro spalmato su una fetta di pane troppo grande


A Long Expected Party - Inger Edelfeldt (ma in realtà Bilbo indossava un abito scuro)

Visto che Lo Hobbit aveva avuto un buon successo, l'editore suggerì a Tolkien di  scrivergli un seguito, come usava assai nella letteratura per ragazzi. All'inizio Tolkien cercò di scantonare: ormai aveva detto tutto quel che sapeva sugli Hobbit, la storia di Bilbo era finita, che razza di seguito poteva farne?
C'erano centinaia di possibilità, naturalmente. Si poteva mandare a casa di Bilbo un'altra compagnia di nani, con qualche altro mostro da affrontare. Oppure una comitiva di Elfi. O tirare in ballo qualche altro hobbit.
Ma Tolkien si impuntò per cercare un vero seguito, qualcosa che il primo romanzo potesse avere lasciato da completare. E ripensò all'anello.
In origine era un normale anello magico, di quelli che nelle fiabe si trovano a tutti gli usci senza che nessuno si preoccupi mai di spiegarne origine e  provenienza agli ascoltatori. Questo specifico anello rendeva invisibili e faceva capire il linguaggio degli animali - niente di particolare, in effetti. Ma da dove proveniva?

Ci accorgiamo subito, prima ancora di cominciare, che sarà proprio l'Anello il centro della vicenda: nella prefazione, insieme ad un sacco di note erudite sulla possibile origine degli hobbit e l'uso dell'erba-pipa, viene dedicato un capitoletto  al suo ritrovamento, mentre della Cerca di Erebor ci si limita a dire che "l'impresa non avrebbe avuto molto rilievo nella storia o meritato più di un accenno nei lunghi annali della Terza Era" se non fosse stato per un piccolo incidente: il ritrovamento dell'Anello, appunto. Sul quale Bilbo prova a raccontare a Gandalf una strana storia che lo stregone faticherà a districare*.

Il romanzo vero e proprio si apre su Bilbo Baggins,  introdotto con una lenta ma funzionale apertura in stile Agatha Christie che lo descrive attraverso le chiacchiere dei vicini. Sapevamo già dalla chiusa dell'Hobbit che i suoi giorni "furono eccezionalmente lunghi", e lo ritroviamo... immutato.
Fisicamente, almeno. Questa eterna giovinezza lascia perplesse le lingue lunghe del paese: "Non è secondo natura, e ci porterà dei guai". E sembra una classica chiacchiera tanto per fare, questa di prevedere sventure perché qualcuno non invecchia - ma alla fine risulterà che le lingue lunghe avevano ragione, e i guai arriveranno per davvero, anche se l'eterna giovinezza di Bilbo non è la causa dei guai ma solo uno degli effetti minori prodotti dalla vera causa.
Tra una chiacchiera e l'altra scopriamo che, se Bilbo era strano per parte Tuc (la famiglia della madre), nella Contea c'è gente ancor più strana dei Tuc: i Brandybuck, che addirittura maneggiano barche e vivono "dalla parte sbagliata del fiume". Bilbo non è imparentato con loro, ma suo nipote Frodo sì.

Dopo la sua Grande Avventura Bilbo non si è sposato ed ha vissuto da solo, senza grandi amicizie, frequentando gente strana: elfi, nani, stregoni. Ha legato solo, molti anni dopo, con hobbit giovanissimi, che amavano ascoltare le sue storie (a cui il resto del paese non aveva mai creduto).
Solo più avanti, quando Bilbo fa il suo vero discorso d'addio a Gandalf, scopriamo con una certa sorpresa che l'eternamente giovane e stravagante hobbit non ha vissuto una vita felice. Prospera e stravagante sì, ma non felice. C'era in lui qualcosa che gli rendeva sempre più insopportabile l'aria serena e assai provinciale della Contea, una strana inquietudine che lo faceva sentire osservato, troppo osservato. Dai vicini, dai Sackville-Baggins... e dall'Anello, quell'Anello che aveva da tempo deciso di lasciare a Frodo insieme a tutte le altre proprietà ma da cui non riesce a staccarsi, e che finisce per chiamare "il suo tesoro" (senza strascicare le esse, si spera). Per fargli infine abbandonare l'Anello Gandalf deve trasformarsi da amichevole stregone in minaccioso avversario.

Un po' suo malgrado, un po' impaurito, Bilbo riesce però ad abbandonare volontariamente l'Anello, unico tra tutti i portatori a parte Sam (che però lo tiene solo per poche ore). In sessantadue anni l'Anello non è mai riuscito ad esercitare su di lui altro che una blanda dipendenza, ed è dall'Anello e dallo strano potere che ha preso su di lui che Bilbo scappa nella notte verso le Montagne, sentendosi sollevato non appena è riuscito a cederlo.
Del resto, si sa, con gli hobbit l'Anello non avrà mai un gioco facile; e Bilbo è l'unico Portatore che, subito dopo esserne entrato in possesso, ha compiuto un atto di misericordia del tutto gratuito e dettato solo dalla compassione.

Una volta ceduto l'Anello, Bilbo si tirerà fuori dalla vicenda, e da questo momento si limiterà ad osservarla da lontano, né più né meno di quel che fa il lettore.

*e che era in realtà la storia contenuta nella versione originale de Lo Hobbit. In seguito Tolkien riscrisse il capitolo sull'incontro con Gollum per adattarlo alle vicende successive.

sabato 16 novembre 2013

Quando Mr. Bilbo Baggins di Casa Baggins...


A tre anni dall'ultima rilettura è davvero il momento di riprendere in mano Il Signore degli Anelli, questa volta dal punto di vista di Bilbo - un personaggio che finora avevo sottovalutato.
(Con un grazie speciale a Martin Freeman, che con la sua splendida interpretazione mi ha permesso di metterlo per la prima volta a fuoco nel modo giusto).

venerdì 15 novembre 2013

Istruzioni per rendersi infelici - Paul Watzlawick

Uscito nel 1983, ad opera di Paul Watslawick (1921-2007), psicologo e filosofo austriaco naturalizzato statunitense e vissuto per diversi anni in Italia, questo libro si è imposto fin dall'inizio come una pietra miliare nel suo genere e nei suoi trent'anni di vita ha continuato a vendere senza mai uscire dal catalogo dell'editore e senza perdere una briciola della sua autorevolezza e attendibilità.

Ci si potrebbe forse domandare a che scopo preoccuparsi di fornire all'umanità istruzioni dettagliate su come rendersi infelici, quando ognuno di noi sembra già dotato da madre natura di più che bastevoli attitudini in cotal settore. Eppurtuttavia, se da una parte ci sono campi del sapere sì vasti che nessuno di noi può vantarsi di averli percorsi tutti e non avere più niente da imparare in merito, va anche detto che la maggior parte dell'umanità è sì in grado di rendersi infelice, ma in modo approssimativo e dilettantesco, tutt'altro che sistematico, e spesso il vigoroso successo che l'assiste in tale opra è frutto più del caso e dell'improvvisazione  che di una pianificazione sistematica.
Questo prezioso manualetto propedeutico, concepito per principianti volenterosi ma non privo di utili spunti anche per l'esperto, offre una preparazione di base per tutti i campi in cui questa affascinante materia può svilupparsi. Grazie a questa opera di pregio, economica ma di alta qualità (appena 6.50 euro in negozio, e disponibile aggratis in qualsiasi biblioteca comunale nonché in molte librerie di amici e parenti) ciascuno potrà finalmente dedicarsi in modo scientifico a molte tecniche di infelicità che già pratica da anni ed apprenderne di nuove ed inaspettate, onde rendersi assolutamente e cosmicamente depresso. Imparerà ad esempio:
- come vivere nel culto di un passato felice che non ha mai avuto
- come affondare senza possibilità di scampo una relazione, indipendentemente dal partner
- come costruirsi relazioni destinate all'assoluta infelicità mediante un'accorta scelta del partner
- come coltivare il senso di colpa in sé e negli altri
- come rendere infelice chiunque lo circondi 
- come sentirsi solo anche quando è circondato da persone tendenzialmente affettuose nei suoi confronti
- come imparare a disprezzare gli altri, chiunque siano
- come individuare i complotti alle sue spalle anche laddove non ve ne sono affatto
- come realizzare le più lugubri profezie
e tante e tante altre abilità a cui non aveva mai pensato prima.

Il libro si rivolge alle cosiddette persone "normali": per essere del tutto infelici infatti non è necessario essere colpiti da gravi lutti, avere malattie incurabili o gravi malformazioni fisiche oppure versare in condizioni economiche disastrate. Anche una persona sana, con una situazione economica accettabile e abbondanti relazioni sociali e familiari può salire la china dell'infelicità fino ad arrivare alla disperazione più completa, bastano un po' di buona volontà e di applicazione. Gli esercizi suggeriti sono alla portata di tutti e assai facilmente praticabili. Molti anzi li riconoscerete perché, in modo approssimativo e con impegno discontinuo, li applicate da tempo.

Il libro è indirizzato alle persone che desiderano sprofondare negli abissi della disperazione più cupa, ma risulta utile anche per chi ha progetti diversi della sua esistenza, aiutandolo a individuare una serie di trappole che tutti noi disseminiamo intorno a noi senza accorgercene (o forse accorgendocene benissimo?).

Consigliato a tutte le età sopra i 20 anni (non è tuttavia inadatto nemmeno per gli adolescenti)  è opportuno rileggerlo più volte nel corso della vita perché le trappole con cui ci infelicitiamo mutano a seconda degli stati d'animo, delle stagioni e degli anni - anche se ognuno, naturalmente, ha le sue preferite.

Con questo post partecipo ai Venerdì del Libro di Homemademamma augurando a tutti gli altri partecipanti e a chiunque passasse per di qua un infelicissimo fine settimana, e ricordando a tutti che essere infelici è sempre possibile, basta volerlo davvero. 

domenica 10 novembre 2013

Perchè i nostri amati allievi scrivono così male - Ipotesi 4


Nel corso di formazione che sto seguendo ci sono anche un po' di insegnanti delle elementari dell'Istituto Comprensivo di St. Mary Mead. Da quando facciamo capo allo stesso istituto i rapporti tra di noi fanno decisamente schifo e le cosiddette occasioni di confronto sono praticamente scomparse*, nonostante ci capiti molto più spesso di passare ore intere insieme nella stessa stanza; durante il corso, tuttavia, siamo pur costretti a rivolgerci ogni tanto la parola.

Al seguito di una serie di discorsi di tutt'altro genere, una delle maestre ha osservato, quasi parlando tra sé "come quando correggiamo due errori di ortografia su dieci per non mortificarli". Vedendo che la guardavo con due occhi grandi come tazze da té ha insistito "Sì, non puoi fargli vedere che hanno sbagliato tutto, e allora magari sorvoli. A quell'età sono fragili, appena arrivati a scuola...".
"Sì, ma... penso che non restino gratificati nemmeno quando alle medie si vedono restituire il compito pieno di errori" mormoro, piuttosto stranita.
"Ma è un'altra cosa... comunque non è che ci tappiamo gli occhi per non vedere, eh".
Mi sarebbe interessato approfondire l'argomento, a costo di sfociare in quello che il linguaggio della diplomazia internazionale definisce "un franco e aperto confronto"**, ma azzuffarsi nel bel mezzo del corso che verte, tra tanti argomenti, sull'arte di armonizzare le classi, davvero non mi sembrava cosa - e dunque ho lasciato perdere.

Si tratterebbe per me della prima conferma ufficiale dell'Ipotesi 2 cui avevo vagamente sentito accennare anni fa da una fonte non molto attendibile e soprattutto decisamente portata a enfatizzare i suoi racconti. Una maestra che parla del suo lavoro però potrebbe, mi sembra, essere ritenuta una fonte abbastanza attendibile per il lavoro in questione. E non ne ha parlato come di un metodo, bensì come di una precauzione dettata dal buon senso, quasi una misura protettiva per gli alunni: non mortificare gli alunni che fanno molti errori non facendoglieli notare. 

Questo spezzone di conversazione mi continua a rigirare in testa da più di una settimana, e più ci penso e più mi sembra un vero paradosso educativo, al di là della questione ortografica.

Sono un'insegnante delle medie e naturalmente guardo dall'alto in basso le maestre, come previsto dal Contratto Non Scritto, ma in realtà ne ho un profondo rispetto: il fatto che un essere umano apparentemente uguale a me riesca nella mirabile impresa di prendere un'intera classe di marmocchi e insegnargli a decifrare quegli strani ragnetti che noi chiamiamo lettere dell'alfabeto trasformandole in suoni è uno di quei prodigi davanti ai quali mi inchino con reverenza, consapevole che a me non riuscirebbe mai e poi mai. 

Ma tuttavia.

Quando arrivano alle elementari, i bambini di solito non sanno né leggere né scrivere. Quindi lo imparano lì. Esattamente come quando vanno a un corso di base di nuoto, di sci, di inglese, di sassofono o di batteria. Qualcuno è più portato, qualcuno meno, ma tutti stanno facendo qualcosa di nuovo. Non è strano che sbaglino. Qualcuno sbaglia meno e per breve tempo, e qualcuno all'inizio è un vero disastro e continua ad esserlo per molto tempo. E' normale, non siamo tutti uguali. Soprattutto, sappiamo tutti che alcune delle cose che oggi facciamo meglio sono proprio quelle per cui a suo tempo abbiamo a lungo sputato sangue. Io ho imparato a leggere così, senza accorgermene, ma ho ancora i segni sulle ginocchia di certe disastrose cadute dalla bicicletta - eppure alla fine in bicicletta avevo imparato ad andare proprio bene (e tanto mi fidavo della mia bravura che ho finito per adottare uno stile di guida decisamente spericolato, che ha lasciato ulteriori tracce su ginocchia, gomiti e mani). 
La vita è fatta di facili conquiste ma anche di trionfi pagati a duro prezzo, e l'autostima si nutre degli uni come degli altri. Non c'è motivo di censurare una persona che cerca di imparare qualcosa se sbaglia molto e a lungo, non ha senso tenerla inginocchiata sui ceci o sui chiodi di garofano per punizione, non c'è ragione di impuntarsi a dare per forza voti sin dall'inizio e via dicendo. Sono favorevole ai tempi di apprendimento rilassati, trovo giusto perdonare il peccatore settanta volte sette e anche qualcuna in più, va bene tenere conto di tutti gli ammortizzatori possibili e immaginabili; ma in una questione delicata come l'ortografia non segnare con chiarezza l'errore mi sembra una metodologia folle e sconsiderata: all'alunno deve essere sempre chiaro qual è la forma corretta e quale la forma scorretta. Sempre e comunque. E soprattutto non deve avere modo di evadere nemmeno in sogno dal fatto che aprii si scrive con due i e che l'ho o lo non sono la stessa parola.
Alle scuole medie ci sono difficoltà di vario tipo, genere, forma e qualità. Mandarvi una povera creatura indifesa che oltre a tutto debba improvvisamente combattere con una tigre dai denti a sciabola di nome Ortografia, superando con estrema difficoltà vecchi automatismi nati dalla benevola intenzione dei maestri di risparmiargli traumi, mi sembra assurdo e anche vagamente criminale.
Ma ancor più sconsiderato mi sembra inculcargli il principio che nel resto dell'universo le difficoltà si affrontano e si superano, mentre a scuola se non impari in fretta qualcosa ne resterai tagliato fuori per l'eternità e che lì, e soltanto lì, la vita non ti offre appelli ma soltanto la caritatevole elemosina di fingere di non vedere il tuo errore...

(...per tacere del trauma di quando ti rendono per la prima volta un testo di italiano con più croci che in un cimitero di guerra)

*il che non è affatto logico, e volentieri dedicherei un post alla questione se avessi una pur vaga idea delle cause - al di là, naturalmente, dell'oggettiva e spassionata constatazione che noi siamo buoni e loro sono cattivi.
** cotal definizione indica di fatto un incontro in cui ci si prende a pesci in faccia

venerdì 8 novembre 2013

L'arte della discrezione nella Seconda d'Ogni Grazia Adorna (Boccaccio probabilmente non approverebbe)

Percorrendo il corridoio per entrare nella Seconda d'Ogni Grazia Adorna incrocio Polyanna e Iriza. Polyanna ha gli occhi arrossati e lucidi, Iriza sembra molto partecipe.
"Che succede?" chiedo. Vengo giusto da una classe dove due fanciulle assai infreddolite sono andate a misurarsi la febbre. Ma le due scuotono la testa, mormorano un "No, niente" e sgusciano via.
Il corridoio è molto inquieto ma questo non fa testo: alla fine dell'intervallo il corridoio è sempre molto inquieto.
Anche la Seconda d'Ogni Grazia Adorna è molto inquieta, e anche questo non è più insolito. E quando siedo alla cattedra vengo presa d'assalto con la baionetta, e nemmeno questo è insolito. Firmo, chiedo se è successo qualc...
Mi rispondono in sette, accavallandosi. Ecco, questo è un filino più insolito. Solo un filino, però.
Cerco di districarmi tra le sette voci. Visto che non ci riesco, mi metto tranquilla e inizio a mimare una accurata laccatura delle unghie. Dopo un po' funziona e i sette si chetano.
"Allora, cos'è successo?".
Qualcosa con Wasp, a quanto sembra - e questo è del tutto solito, consueto e pure banale. Ma i tre o quattro che hanno ripreso a parlare non mi danno nessun dato concreto. Nel frattempo Wasp è rientrato in classe ma non ha nessun racconto particolare da fare (il che non significa necessariamente che non abbia fatto e ricevuto di tutto e di più).
Polyanna e Iriza piangono, mi dice qualcuno. "E come mai piangono?" provo a informarmi.
I maschi insorgono "Non ce l'hanno voluto dire!". Sono offesissimi "Piangono, e non ci vogliono dire perché!".
Dunque non c'è stato nulla di appariscente ed è una questione privata, concludo in cuor mio. Con tutta probabilità assai legata alla vita affettiva di una delle due o di entrambe.
Provo a intervenire: "Beh, può capitare che qualcuno...".
"Sì, ma non ci hanno voluto dire perché!".
E mai ve lo diranno, se continuate così.
"Non capisco perché non ce lo vogliono dire!"
Vorrei tanto dirgli "Ma allora siete proprio di coccio!", ma non mi sembra un intervento didatticamente valido: di fatto, se qualcuno ammette che non ha capito qualcosa, spiegargli che è davvero un idiota a non avere capito quel qualcosa che nella sua cristallina chiarezza sarebbe evidente a chiunque fosse appena appena uno zinzino meno idiota di lui/lei non è mai un intervento didatticamente utile, al massimo serve a irritare vieppiù il poveretto che, se non capisce, non è che lo fa apposta.
"Vedete" provo a spiegare con soave dolcezza "Se qualcuno piange, ha senz'altro i suoi buoni motivi per piangere. Per lo meno, ha dei motivi che a lui, o a lei, sembrano validi per piangere. Se però decide di non farvi partecipi di quei motivi, direi che ha pieno diritto..."
Si apre la porta. Polyanna e Iriza rientrano, un po' ricomposte ma ancora molto afflitte. Si siedono al loro banco, con l'aria di chi sta eroicamente sopportando un crudele dolore - e probabilmente è davvero così. 

A questo punto, in nome della solidarietà tra pari e del motto universalmente diffuso "Teniamo gli adulti fuori dai cazzi nostri", la classe dovrebbe essere molto disponibile ad un rapido cambio di argomento. Suggerisco dunque di aprire il libro di storia e...
"Perché ci hanno detto che c'è qualcuno che ha offeso Polyanna, ma lei non vuol dirci chi è stato" insiste Fili. Sussulto delle due fanciulle addolorate, che fanno conto di essere Altrove - in un luogo, chissà, popolato di compagni con un minimo di ritegno. Il che è pura fantascienza, a quel che sembra.
"Per favore, NON POTETE parlare di Polyanna come se non fosse qui!" insorgo.
"Ma se qualcuno l'ha offesa...".
"E lei non vuol dirci chi è stato...".
"Una persona ha tutto il diritto di decidere autonomamente e in completa libertà se vuole condividere o no i fatti suoi, e se non vuole farlo gli altri devono semplicemente prendere una teglia e cucinarsi un gustoso sformato di cavoli propri" provo a spiegare.
Un ombra di sollievo passa negli occhi delle due fanciulle afflitte, ma i ragazzi sono davvero perplessi.
"Guardate che sto parlando delle più elementari regole del viver civile, non dell'uso della quarta forchettina d'argento per il pesce, che si usa per lo storione ma voi nel piatto avete gli sgombri e allora come dovete fare. Non si può pretendere come un diritto che gli altri ti raccontino i fatti loro. E' uno dei pilastri su cui poggia la civiltà".
I ragazzi sembrano sempre più perplessi. Di tendenza mi riconoscono una certa autorevolezza, ma in questo momento per loro è come se stessi parlando un dialetto caucasico di quelli particolarmente ostici. E sono anche vagamente offesi. 
Le due fanciulle afflitte, in quel momento molto meno afflitte, ridono sotto baffi che non hanno. Le altre fanciulle si scambiano tra loro sguardi d'intesa del peso di circa 7 kg. l'uno. Wasp cerca di dire qualcosa ma lo prevengo.*
"Gentilmente, potreste aprire il libro di storia? Desidererei interrogare sulla prima fase delle guerre in Italia, se non vi è di troppo disturbo".
I libri vengono aperti. Cerco con gli occhi qualcuno che non sia troppo afflitto né troppo offeso e riesca a concentrarsi quanto basta a scodellarmi un'interrogazione almeno decorosa. Strano ma vero, lo trovo.

E dunque è evidente che, seppur la Seconda d'Ogni Grazia Adorna è in pieno passaggio adolescenziale, i maschi sono al momento staccati di qualche spanna dalle femmine, ma non per questo la classe ha perso niente della solidarietà che la caratterizza.

*Wasp ha un senso della discrezione talmente minimale che gli altri al confronto sembrano altrettante reincarnazioni di Talleyrand