Il mio blog preferito

venerdì 25 gennaio 2019

Emma - Jane Austen


Possiamo iniziare con una novità: questo non è il primo romanzo di Jane Austen. Per quanto mi è  dato sapere, viene universalmente ritenuto il quarto.
Come tutti i romanzi di Jane Austen presenta delle sue specifiche particolarità, nella fattispecie la continuità di scena: all'inizio del romanzo incontriamo Emma a Hartfield, nella villa di famiglia dei Woodhouse, e lì resterà fino alla fine. Molti dei protagonisti intorno a lei schizzano come palline da flipper a Londra, in Scozia, nelle varie tenute di famiglia e via dicendo ma Emma è sempre lì, ad Hartfield, e nemmeno resta mai a dormire fuori da amici.
Il motivo che spiega questa stasi, del tutto insolita per una ragazza di buona famiglia in età da marito che deve cercare di conoscere nuove persone per meglio procurarselo, è il padre di Emma, Mr. Woodhouse, un uomo vecchio  nell'animo prima ancora che nel fisico, terribilmente ansioso e ansiogeno e abitudinario, che per sua buona sorte nonostante il notevole (ma inconsapevole) egoismo del suo atteggiamento è universalmente amatissimo grazie alla sua bontà d'animo e perciò nessuno l'ha ancora strozzato - ma in certi momenti il lettore lo farebbe con gran gioia.
Così, grazie a questo padre all'apparenza permissivo ma in realtà vincolante come una catena da lavori forzati Emma, pur essendo all'apparenza la padrona di Hartfield e la più ricca tra le protagoniste austeniane (30.000 sterline di dote, cioé una rendita di 1.500 sterline all'anno) è quella che nei fatti gode meno libertà: l'organizzazione delle giornate e soprattutto delle serate è subordinata alla necessità di intrattenere e divertire suo padre, ma soprattutto di non farlo mai preoccupare: impresa che, con un uomo che va completamente in tilt per un velo di neve contro cui affrontare una scarrozzata di un chilometro scarso o davanti agli inconvenienti digestivi che può causare una fetta di torta di nozze, è praticamente ai limiti dell'impossibile.
Emma è dunque una premurosissima figlia, ma anche una ragazza bella (molto, molto bella) e intelligente. La sua intelligenza però è stata solo molto occasionalmente messa alla prova dal contatto col mondo esterno, e quindi le difetta assai l'esperienza - il che giustifica in parte i granchi clamorosi che prende nel corso del romanzo.
Una parte di questi granchi si spiega anche con i pregiudizi sociali che Emma coltiva con gran cura - che sono esattamente gli stessi che dettano il comportamento di Mr. Darcy con cui Emma ha in comune diversi tratti (e infatti come lui usa senza ritegno la sua influenza per guidare in modo a suo avviso molto opportuno le scelte sentimentali di una persona a lei cara).
Per giunta l'autrice la mette al centro del più insidioso dei suoi romanzi, dove quasi niente è come sembra; e per ulteriore giunta Emma decide di prendersi in carico l'educazione e la raffinazione di Harriet, una bella e cara ragazza sprovveduta perfino più di lei, ma per sua disgrazia provvista di una incrollabile fiducia nel suo giudizio (suo di Emma, ahimé).
Con queste premesse, la disposizione finale delle coppie finisce per riservate qualche sorpresa e tutta la vicenda offre più di un colpo di scena - anche se il più importante viene largamente anticipato al lettore da svariate centinaia di indizi e financo dalle osservazioni e riflessioni di un personaggio che, al contrario di Emma, non sbaglia mai... beh, quasi mai - perché alla fine qualche abbaglio lo prendono quasi tutti.
Quesro romanzo, tra i sei, è quello dove lo spettro della povertà mostra più le sue ossa: viene dato ampio spazio alle due signore impoverite, di buona famiglia ma costrette a farsi bastare una piccola rendita e  a vivere in una modesta casa con una (sola) serva fedele che però sta invecchiando, e alla figura piuttosto tragica della ragazza di buona famiglia, cresciuta tra la gentry ma che dovrà presto andare a fare l'istitutrice per mantenersi.
Altra caratterisrica piuttosto insolita di questo romanzo nel canone austeniano, che condivide solo con Orgoglio e pregiudizio e in parte con Persuasione, è la presenza di vere e autentiche scene d'amore, che normalmente la scrittrice scansa con gran cura.
Infine: nel canone austeniano non è forse il romanzo più apprezzato, ma conta su una fitta schiera di estimatori che in molti casi lo preferiscono anche a Orgoglio e pregiudizio. Quanto a me, ne ammetto senza remore i molti pregi ma, pur appezzandolo assai, ammetto che gli altri cinque mi piacciono di più.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro felici letture invernali a chiunque passi di qua - e, naturalmente, anche a chi non ci passa perché è occupato a far di meglio.

giovedì 24 gennaio 2019

Insegnanti New Age 2 - Per moderare un eccesso di aggressività


Feci tutta la Scuola di Specializzazione (detta SSIS) in uno stato di rabbia incandescente, soprattutto perché mi sentivo costantemente presa in giro. La cialtronesca boria con cui buona parte degli insegnanti ci trattava, convinta di poterci ammansire con lezioni di livello elementare,  la faciloneria con cui ignoravano l'esistenza stessa delle scuole medie, considerando che le scuole fossero composte esclusivamente di Istituti Superiori e soprattutto la becera arroganza tipica dei docenti universitari con cui si rivolgevano a noi, che in molti casi eravamo persone decisamente adulte costrette in loro balìa da un perverso meccanismo delle graduatorie (che, manco a dirlo, si ridimensionò di parecchio non appena ebbi conquistato l'agognato titolo di specializzata) contribuirono ad alimentare questo mio giusto sdegno fino a livelli pericolosi per la mia salute, provocandomi perfino una breve malattia infiammatoria che fu prontamente definita "sissite" dai miei cari, con tono che stava tra il divertito e il preoccupato.
Tra le varie materie quella che più mi irritava era Storia, dove francamente il livello medio si rivelò basso in modo patetico e l'arroganza dei docenti passò perfino il notevole margine consentito ad un docente universitario.
Fu così che mi ritrovai, una mattina in cui avevo preso permesso da scuola assaissimo a malincuore per fare l'esame di fine anno, a scoprire verso le dieci, dopo la solita ora canonica di attesa delle Loro Boriosissime Maestà, che avrei fatto il colloquio non prima delle quattro del pomeriggio. Ma dirlo prima no?
Tornai a casa in uno stato di irritata esasperazione che perfino io finii per trovare eccessiva e mi resi conto che, in quello stato  d'animo, rischiavo seriamente di saltare alla gola del mio esaminatore qualunque domanda mi avesse fatto, fosse pure il mio nome e cognome. Decisi perciò di fermarmi im erboristeria dove mi feci fare una boccetta di Fiori di Bach atta a riportarmi tra le persone civili: Cherry Plum contro le esplosioni di collera, Holly contro la rabbia eccetera.  Poi mi ci attaccai, prendendo le gocce ogni cinque minuti*.
Fiori da una parte, libro di testo dall'altra, avviai una seduta di rapido ripasso.
In teoria non c'è nessun motivo per cui i Fiori di Bach, che si basano sulle presunte vibrazioni energetiche dei fiori immersi nell'acqua, debbano funzionare; è un fatto però che su di me funzionano alla grande, e gradualmente le tenaglie della rabbia si allentarono, lasciandomi sempre più paciosa e concentrata.
Andai all'esame serena e di buon umore ma, ahimé, del tutto priva di quella carica magnetica che agli esami mi porta sempre a dare quel qualcosa in più e risposi alle domande in modo pacioso ma un po' approssimativo, toppando tra l'altro platealmente una domanda sulla Pacem in terris - che mi dispiacque molto perché è una delle poche encicliche che conosco che mi piacciano, e uscii dall'esame con voto piuttosto basso per i miei elevati standard sissini**, ovvero un modesto ventotto.

Fu così che imparai che un eccesso di aggressività può essere indubbiamente negativo, ad un esame, ma quel po' di giusta aggressività che ti spinge  a vendere cara la pelle è al contrario cosa buona e giusta, e non va mai dismessa.

*con i fiori la regola è prenderli quattro volte al giorno oppure ogni volta che ti capita di pensarci. Quel giorno ci pensai parecchio, devo dire.
**Sono stata una allieva piuttosto brava all'università, ma alla SISS ero una delle prime di tutto il corso regionale  - il tutto studiando poco ma grazie ad una buona preparazione di base che si era ben stratificata attraverso gli anni.

lunedì 21 gennaio 2019

Insegnanti New Age - Di fiale portentose e di Dolcezze

Aura Soma è un sistema di terapia olistica che cura la nostra aura con i colori, attraverso boccette di oli essenziali e acque colorate che contengono anche cristalli, erbe e altro.
Prima di essere in boccette era in fialette come quella che Galadriel regala a Frodo
E già che siamo in argomento, il sistema è stato elaborato (anche) da una signora che si chiama proprio Galadriel. 
Ad ogni modo adesso non fanno più né le fiale né l'apposito portafiale per portarle al collo, e lavorano su bottigliette bicolor, molto carine anche loro.
La mia amica New Age è riuscita però a procurarsi un po' di fiale in una svendita di scampoli di fine stagione, e per me ha preso quella color magenta, verso cui ho provato subito una fortissima attrazione: il magenta infatti è l'esatto colore del sangue da trasfusioni, e uno dei miei problemi principali è proprio legato all'anemia per mancato assorbimento del ferro.
Insomma, ho preso volentieri la fiala, ma come avrei fatto a indossarla? 

Con singolare spudoratezza mi sono rivolta a Dolcezze di Mamma, che è sempre a caccia di nuove sfide, e le ho mandato una foto della fiala e le sue dimensioni.
Con gentilezza e velocità davvero impagabili Dolcezze ha risposto, ed ecco il risultato della sua arte, davvero notevole secondo me:

La collana di lana, come insisto a chiamarla, è in lana bordeaux e nero-magenta, la stoffa è bordeaux. E adesso ho ben DUE collane portafiala che si intonano magnificamente alla mia fiala magenta - e una buona scelta del colore immagino sia davvero importante nella CROMOterapia. Al momento però uso solo quella di lana, che è stata universalmente ritenuta più invernale.
Ci credo, alla cromoterapia? Non lo so e non mi interessa, ma astucci e fiale sono il risultato del lavoro di due persone che si sono preoccupate per me quanto bastava per procurarmi tutto ciò. Che cosa posso chiedere di più?

venerdì 18 gennaio 2019

Il problema dei tre corpi - Cixin Liu

Splendida copertina, una volta tanto, e pure pertinente.
Sarà perché è ripresa pari pari dall'edizione americana?   

Fantascienza cinese, nientemeno, ché non si dica che qua si leggono solo romanzetti inglesi.
Fantascienza cinese DOC, scritta da un cinese che tuttora vive e pubblica in Cina, non dal solito transfugo che si è stabilito negli USA o in Inghilterra; prima pubblicata in rivista a puntate, a partire dal 2006, poi raccolta in volume, poi nel 2016 tradotta in inglese e pubblicata negli USA, dove ha vinto il più prestigioso premio del settore, lo Hugo. A quel punto Mondadori si è mossa e nel 2017 lo ha portato anche in Italia, rispolverando per l'occasione la collana Oscar Fantastica col suo bel fondo argenteo in copertina.
E volendo parlare della copertina, possiamo dire che nella terza e quarta appunto di copertina ci sono due spoiler a cinque stelle, di quelli che sembrano un po' eccessivi perfino a me che notoriamente con gli spoiler sono di manica larga. C'è da dire però che il romanzo è talmente pieno di colpi di scena e bruschi cambi di prospettiva che i due grossi spoiler, situati rispettivamente a un terzo e a due terzi della narrazione, non spiegano poi molto e non anticipano la conclusione - che, e qui spoilero anch'io, si chiude su una inaspettata nota di ottimismo.
Non è un romanzo autoconclusivo, è il primo volume di una trilogia chiamata Il passato della terra; il secondo volume si intitola La materia del cosmo, il terzo Nella quarta dimensione, tutti pubblicati.
Il fatto che sia il primo volume di una trilogia spiega in parte la struttura piuttosto insolita del romanzo - ma qualcosa deve entrarci anche il fatto che si tratta, appunto, di un romanzo cinese e che quindi viene da una tradizione letteraria diversa dalla nostra. Naturalmente anche le scelte del singolo autore influiscono sulla struttura del libro e così ci ritroviamo un romanzo stranamente denso, quasi vischioso, molto ricco - tanto ricco che a tratti si rischia di ingozzarsi leggendolo - che comprende elementi di quasi tutti i generi (fantascienza, politica, sociologia, satira, storia, teologia, thriller, giallo, avventura, azione, formazione, divulgazione scientifica, fantasy, videogiochi e di sicuro ho dimenticato qualcosa) e riserva un colpo di scena o un capovolgimento di prospettiva serio all'incirca ogni dieci pagine nella sua seconda parte. E quanto alla prima... 

La prima parte ha un avvio apparentemente lento, come certi solenni attacchi d'organo e il lettore letteralmente non capisce dove si sta andando a parare, anche se si lascia volentieri catturare nel vortice della narrazione. Si inizia con la Rivoluzione Culturale cinese, e purtroppo non c'è niente di fantascientifico nella rivoluzione culturale cinese - caso mai, volendo proprio scomodare un genere letterario sarebbe forse possibile tirare in ballo l'horror.  
La rivoluzione culturale cinese fu infatti un momemto terribile  che divise non soltanto popolazioni, villaggi e amici, ma che spezzò anche nuclei familiari fino a ridurli in tante particelle separando coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle - chiunque insomma possa essere separato.
Tra le tante vittime di questo orrore c'è una dei protagonisti del romanzo, Ye Wenjie (un elenco dei personaggi assai chiaro e completo posto a inizio libro soccorre misericordiosamente il lettore occidentale che in mezzo ai nomi cinesi si perde con facilità) che dopo aver assistito impotente al totale disfacimento, anche fisico, della sua famiglia, rimane anni dopo intrappolata in un gioco di equivoci che la classifica tra i nemici del popolo. Siccome è una brava astrofisica si salverà grazie a una proposta di arruolamento nel misteriosissimo e mitico Progetto Costa Rossa, situato sul monte Radar. Unico inconveniente: se accetta non potrà lasciare mai più il monte Radar data appunto la segretezza del progetto. Ye accetta senza esitare (ma gli anni passano, le circostanze politiche cambiano, il Progetto Costa Rossa verrà smantellato e Ye il monte Radar lo lascerà eccome, e non certo per andare a stare peggio).

Tutto ciò costituisce una specie di prologo. Nella sedonda parte, ambientata nella Cina del terzo millennio 38 anni dopo (dove ancora le ferite della Rivoluzione Culturale emergono qua e là, con grande amarezza di tutti i partecipanti) incontriamo invece il secondo protagonista, Wang Miao, un ricercatore specializzato in nanomateriali afflitto da un misterioso conto alla rovescia che lo perseguita, e che finisce per trovare pace soprattutto seguendo un videogioco particolarmente evoluto, di quelli che richiedono una tuta speciale per essere giocati e che mostra le complesse avventure e la complessissima lotta per la sopravvivenza del pianeta Trisolaris - i tre corpi, scopriremo circa a due terzi del romanzo, sono i suoi tre soli che lo stesso pianeta per lungo tempo ha ignorato di avere e che lo mettono in una particolare situazione di instabilità che può finire soltanto molto male.
Unica possibilità di salvezza: trovare un pianeta dove la vita sia possibile e trasferirsi lì. E quale potrebbe essere questo pianeta? Sedetevi in un luogo tranquillo, concentratevi a fondo e spremetevi le meningi senza risparmio: ebbene sì, come in un qualsiasi cartone animato giapponese abbiamo gli alieni che, per sopravvivere, sono praticamente costretti a invadere la Terra. Solo che siamo in un universo altamente scientifico (come dimostrano le lunghe spiegazioni di cui è disseminato il libro e che la povera letterata di turno riesce a seguire in maniera molto... ehm... relativa) seppure anche assai quantistico, e nessuno ha ancora inventato né la curvatura di Star Trek né il comodissimo Salto nell'Iperspazio, e insomma anche agli alieni ci vorrà il suo tempo. Molto, molto tempo. Davvero molto tempo.
Ma nel frattempo hanno inviato Qualcosa sulla Terra che potrebbe.... e i terrestri dal canto loro potrebbero...
Il primo libro si chiude così, con una nota sospesa di catastrofe imminente e una di ottimismo, dopo un rutilare di effetti speciali nel finale davvero spettacolare. Ma una volta chiuso e concluso continua a insinuarsi nei pensieri del lettore, lasciandolo curiosamente inquieto, tanto che non trova pace finché non ne parla un po' in giro e medita perfino la folle idea di rileggerselo per assimilarlo meglio fin dall'inizio... insomma, è uno di quei libri che dà dipendenza.

Per concludere cito un passo che mi ha molto colpito per certe curiose risonanze con la situazione politica attuale italiana, pur venendo dalla penna di un cinese che lo ha scritto dodici anni fa. Quando su Trisolaris discutono su come intenerire la futura resistenza terrestre all'invasione, il Console Scientifico spiega al Principe:
"Il piano si concentra sull'enfatizzare gli effetti ambientali negativi dello sviluppo scientifico e suggerire alla popolazione della Terra la presenza di poteri sovrannaturali. Oltre a esacerbare le conseguenze disastrose del progresso, tenteremo anche di far leva su una serie di "miracoli", che useremo per costruire un universo illusorio inspiegabile dalla logica e dalla scienza. Tenendo vive queste illusioni per qualche tempo, è possibile che la nostra civiltà divenga oggetto di adorazione religiosa sulla Terra; a quel punto, il ragionamento non scientifico prevarrà su quello scientifico nelle menti degli eruditi umani, e porterà al collasso dell'intero sistema razionale".

Ringrazio di cuore Blog Senza Pretese, senza il quale non avrei mai nemmeno sentito nominare né il libro né l'autore, almeno a tempi brevi, e per me sarebbe stata una bella perdita.
Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro a tutti buone letture che vi tengano piacevolmente compagnia mentre mangiate mandarini comodamente al calduccio sotto il kotatsu.

martedì 15 gennaio 2019

Sull'annosa e controversa querelle dei compiti da fare a casa (post noioso come un giorno di pioggia)

Questa non è in alcun modo una scritta polemica.
Oh no, essa non lo è. 

L'attuale ministro dell'istruzione Marco Bussetti non si è distinto finora per soverchio interventismo nonostante le accorate richieste di Ernesto Galli Della Loggia, anche se dietro le quinte, con alcune accorte circolari, è intervenuto in alcune questioni mostrando di possedere una certa dose di buon senso. Del resto il comparto della scuola in questo momento non va particolarmente di moda se non per operarci qualche moderato taglio e nessuna persona che lavora al suo interno desidera richiamare su di esso l'attenzione di questo governo - pur essendo indubbio che detto comparto richiederebbe diversi interventi  (ad esempio una seria riforma dei tecnici e soprattutto dei professionali, che andrebbero infine visti come qualcosa di più di un refugium peccatorum o un cassonetto della raccolta differenziata).

Ad ogni modo, in uno dei suoi rarissimi guizzi di interventismo detto ministro, partecipando a una  trasmissione radiofonica, aveva vagamente accennato all'opportunità che gli insegnanti non dovessero  dare troppi compiti durante le vacanze di Natale permettendo così ai ragazzi di farsi un po' di vita loro, e sembra che si fosse perfino spinto a promettere una circolare in tal senso. La promessa, se c'era stata, era stata comunque ben presto ridimensionata: evidentemente il ministro, al contrario di certi suoi colleghi di partito, ha dato una scorsa a qualche Bignami dedicato a "Diritti e Competenze di un Ministro" e dunque sa che un ministro non può impicciarsi di questioni  didattiche in base ad un preciso articolo della Costituzione; il tutto si era infine risolto con un vago invito alla riflessione sul tema "compiti a casa" inserito nel tradizionale biglietto di auguri che come ogni anno il Ministro ha mandato ai docenti che  sono in servizio - e che dunque io non ho avuto, ahimé, alcuna possibilità di vedere.
Per quel che ho potuto vedere in rete, la questione non ha sollevato alcuna polemica tra gli insegnanti; in compenso è stata titolatissima sui giornali ed è stato molto interessante (e divertente) leggermi i  commenti che fioccavano in coda ai vari articoli dove gli infiniti tuttologi sulla scuola di cui il nostro bel paese pullula si dividevano in due schieramenti assai nettamente contrapposti: da una parte chi, oltre ad appoggiare il pensiero  ministeriale, ne approfittava per proclamare l'assoluta inutilità di qualsivoglia compito da assegnare per casa, dall'altra chi invocava un totale de profundis  sulla scuola dato che l'assenza di una grossa mole di compiti da svolgere durante le vacanze di Natale avrebbe inevitabilmente condotto alla più assoluta decadenza e alla più totale ignoranza delle giovani generazioni. Vie di mezzo, non pervenute.

Per quanto mi riguarda, incontrerei senz'altro la più totale approvazione da parte dell'attuale ministro:  non solo non do mai compiti durante l'estate se non c'è un consistente debito di grammatica da recuperare - e in quel caso naturalmente lo do al singolo, e ben personalizzato, non certo all'intera classe - ma addirittura spingo il mio virtuosismo fino a non dare l'ombra di un compito a  nessuno per le vacanze di Natale, di Pasqua ed eventuali ponti lunghi, e anzi mi regolo in base a quello che chiamo il Principio del finale della Sinfonia degli Addii di Haydn
dove tutti gli strumenti si azzittiscono, uno dopo l'altro, avendo cura di concludere tutti gli argomenti avviati senza lasciare l'ombra di qualcosa in sospeso (tanto, casomai restasse   del tempo in più posso sempre piazzarci dentro qualche lettura o qualche prova scritta) - il tutto in base a una teoria sull'importanza delle pause cui mia madre, che è stata insegnante alle elementari, mi accennò distrattamente in un tempo remoto in cui non solo non insegnavo, ma nemmeno lontanamente pensavo che l'avrei mai fatto un giorno.
Questa teoria (che in realtà più che una teoria credo sia un dato di fatto, probabilmente comprovato da qualche tonnellata di letteratura scientifica e didattica) sostiene che oltre all'apprendimento attivo  all'individuo servono dei tempi di pausa per assimilare a livello profondo quel che ha appreso. Queste apparenti pause insomma fanno parte a tutti gli effetti del percorso didattico e permettono all'alunno di apprendere principi, concetti e nozioni ad un livello più profondo della lezioncina studiata a memoria per il giorno dopo.

Per quanto riguarda i compiti delle vacanze intermedie comunque per me giocano anche considerazioni più pratiche: perché, se le esaminiamo nel dettaglio, queste vacanze lunghe  non sono affatto lunghe come potrebbero sembrare dall'esterno. Tralasciando i ponti di primavera, dove di solito i ragazzi arrivano completamente cotti, peggio perfino degli insegnanti, e quindi si può solo ragionevolmente sperare  che li usino per ricaricarsi un minimo le batterie, le vacanze di Pasqua praticamente non esistono: il Giovedì se ne va in festeggiamenti per l'inizio delle vacanze, dopo di che rimangono Venerdí, Sabato e Martedì, perché Pasqua e Pasquetta annegano rapidamente nel nulla tra parenti e gite di fuori porta. Per giunta molte famiglie si attentano in quei giorni ad andare al mare o in gita turistica, e non vedo proprio perché dovremmo fargliene una colpa.
Le vacanze di Natale non risultano molto più lunghe, in realtà. Tanto per cominciare, assolutamente tutti ci arriviamo con le batterie completamente scariche (qualcuno pure con un filo o un cordone di depressione latente) per precise questioni medico-astronomiche. I giorni che precedono Natale sono, sempre e comunque, un delirio per tutti. Poi arrivano Natale e Santo Stefano col loro carico di parenti e di eventuali trasferte fuori città dai parenti e tirate mostruose per preparare la tavolata per Natale o arrivare adeguatamente carichi di regali di Natale per tutta la tavolata e/o preparare il proprio contributo per la tavolata in questione -  per tacere dei celebri conflitti di Natale che appesantiscono vieppiù quelle giornate e che tanti mirabili romanzi hanno ispirato  a tanti abili scrittori di polizieschi. Capodanno si porta dietro anche lui il suo bel pacco di preparativi, perché ormai sin da giovanissimi i ragazzi se lo gestiscono in proprio, a volte anche con una organizzazione piuttosto complessa, e così anche il 31 e il 1 se ne vanno, spesso con un discreto strascico di mal di testa e di intontimento che non è detto non si prolunghi fino al 2 Gennaio compreso. In mezzo ci sono spesso anche due Sabati e due Domeniche dove la vita si illanguidisce e rallenta piacevolmente. La Dodicesima Notte, detta anche Epifania, in buona parte d'Italia continua ad avere un suo peso nonostante lo strapotere di Babbo Natale, e in più abbiamo una vera infinità di visite per lo zio Evaristo, la zia Crodeganga e il nonno Narciso, che magari ne ha approfittato per finire all'ospedale onde meglio complicare la vita di tutti, senza contare che qualche famiglia desidera pure farsi un viaggetto, andare a trovare parenti o amici, fare una puntatina sulla neve, godersi un po' i regali di Natale, esibirli con gli amici e magari provarli con loro (i videogame, per fare un esempio a caso) - e c'è anche una bella fetta di famiglie che già il 22 Dicembre impacchettano la famiglia al gran completo e se ne vanno nella terra di origine per l'intero arco delle vacanze.
In mezzo a tutto questo, quanta voglia può avere una povera creatura in piena crescita di dedicarsi alle somme algebriche, ai diagrammi cartesiani, al predicato nominale o al genitivo sassone? Soprattutto quando l'alternativa a sì pallificanti attività è una bella pista da sci, i cugini che non vedi da tre mesi o una pizza con gli amici?

E infatti la cruda verità è che i compiti assegnati per Natale, Pasqua o i ponti primaverili sono quasi sempre fatti male, in modo frettoloso e trascurato, in mezzo a liti familiari, oppure direttamente non fatti. Gli unici che si impegnano per farli bene sono quelli che, lavorando regolarmente con grande  impegno ed eccellenti risultati, più di tutti avrebbero diritto a godersi una bella pausa - e tuttavia anche da loro possono venire amare sorprese e curiose defaillance.
Insomma  anche tralasciando la teoria delle pause, assegnare compiti per le vacanze di Natale e Pasqua e per i ponti primaverili è per lo più una grande perdita di tempo e implica un discreto spreco di risorse e spesso anche alcune arrabbiature non programmate e del tutto superflue.

Ed eccoci al secondo corno della questione: i compiti a casa durante l'anno scolastico. Perché esiste un movimento di pensiero, non so quanto consistente, e l'inevitabile gruppo su Facebook (oltre, immagino, a una miriade di gruppi su Whatsupp) che sostiene l'assoluta inutilità dei compiti a casa vedendoli solo come una forma di accanimento da parte dei docenti contro i ragazzi, tanto inutile quanto crudele, e ne vorrebbero la totale abolizione per legge (il che è del tutto impossibile in base al già citato articolo della Costituzione che tutela il principio della libertà didattica).
Partiamo da alcune considerazioni, tanto banali quanto noiose ma necessarie.
Punto primo: a parte qualche rarissimo caso di manifesta insania mentale che si risolve in smania punitiva verso gli alunni colpevoli di esistere, nessun insegnante dà troppi compiti a casa: ognuno di noi, in scienza e coscienza, è convinto di dare esattamente i compiti necessari e non una sola goccia di più o di meno di quel che è suo preciso dovere.
Punto secondo: sarebbe vano negarlo, il problema principale sono i compiti delle materie umanistiche e scientifiche - in pratica i docenti di lettere, matematica e lingue straniere, soprattutto alle medie.
Punto terzo: i genitori nei compiti a casa non dovrebbero impicciarsi né tanto né poco: non ne dovrebbe essere dato per scontato l'intervento, non dovrebbero avviare gare a chi fa meglio i compiti dei figli, non dovrebbero insistere e litigare perché i compiti vengano fatti, solo sfoggiare un atteggiamento mediamente severo e coerente qualora qualche nota li informi che la loro prole non svolge incompiti assegnati con la dovuta regolarità.
(E se non li fa? Se la vedrà con l'insegnante, con i quattro che fioccano, con i compiti estivi, con l'eventuale bocciatura che potrebbe fargli un mondo di bene. Oppure, molto più probabilmente, si adatterà a fare i compiti dopo qualche iniziale resistenza e qualche settimana senza cellulare).
Al netto di questa raccolta di banalità di cui mi scuso, rimane una considerazione ancora più banale:
Per come è impostata attualmente la scuola italiana, un certo ammonto di compiti da svolgere al di fuori delle lezioni è ritenuto indispensabile da quasi tutti i docenti di quasi tutte le materie. I pochi che fanno eccezione seguono per lo più tecniche di didattica sperimentale o si adattano come possono a situazioni particolarissime. 
C'è infatti una parte di lavoro che è indispensabile che l'alunno faccia da solo o con pochissimi compagni ed è la parte che riguarda l'elaborazione autonoma (detta anche rimasticazione digestione) di quanto in classe è stato detto, spiegato, elaborato, insomma fatto tutti insieme. Lì ci si rende conto se quel che in classe sembrava tanto chiaro lo è davvero, oppure se quel che era sembrato tanto astruso lo è ancora, una volta   affrontato a mente fredda; lì si manda  a memoria quel che va mandato a memoria di regole e formule, lì si completano in autonomia i disegni impostati in classe eccetera. Si tratta insomma di una forma di fissaggio del lavoro dove si rimette quanto detto e fatto nel caos della lezione collettiva.
Il peso di questo lavoro varia a seconda del grado di concentrazione con cui viene svolto, dell'attenzione prestata in classe ma soprattutto dell'allenamento: l'abitudine a fare regolarmente i compiti li rende più facili, come succede con tutti i tipi di lavoro. 
Fatti con la dovuta concentrazione e  l'impegno adeguato, senza il peso emotivo di litigi in famiglia, sostentati da una buona merenda e con una certa atmosfera rilassata intorno (che può includere anche una buona colonna sonora ma dove un cellulare acceso puntato su un social risulta del tutto deleterio) i compiti a casa sono utilissimi e di solito anche piuttosto rapidi da svolgere. 
Fatti distrattamente, messaggiando in lungo e in largo, con genitori-avvoltoi che ti spronano e puntellano in continuazione (o che sbroccano perché in metà pomeriggio sono state fatte tre espressioni su sei e solo a prezzo di ore di martellamento), senza riguardare le istruzioni e la lezione cui si riferiscono, sono del tutto inutili e possono anzi accrescere la confusione del fanciullo o della fanciulla di turno.
Naturalmente il genitore sensato, che vede e conosce il quadro completo della situazione, può decidere in circostanze particolari (non solo se è crollato il tetto di casa o se la creatura  ha avuto un attacco di peritonite: va bene anche una uscita di famiglia decisa sull'ispirazione del momento o i festeggiamenti di un compleanno che si sono prolungati più del previsto) di giustificare la prole: se fatta con criterio e parsimonia, l'uso delle giustificazioni familiari può alleggerire una situazione che rischia di avvitarsi su sé stessa e in presenza di un impegno costante qualche occasionale giustificazioni non lascia danni né tracce.
Infine: siccome il sovraccarico di compiti si verifica in presenza di più insegnanti convinti che esista una sola materia, ovvero la loro (il singolo docente di solito non riesce a fare danni più di tanto) in certi casi è opportuno che i genitori, laddove la questione non riguardi solo due o tre singoli alunni, superata  la fase della mormorazione tra di loro, affrontino apertamente la questione ai Consigli di Classe con dolce fermezza e senza troppi proclami. Gli insegnanti naturalmente non gradiranno e borbotteranno assai peggio di pentole ricolme di stracotto, per poi lamentarsi moltissimo tra loro su questi ragazzini viziati e questi genitori che si allargano troppo, ma quasi sempre ne terranno conto, non fosse che per scansare grane future. Del tutto sconsigliabile invece scavalcare il Consiglio e andarsi direttamente a lamentarsi dal Preside, che più di tanto non può intervenire (e se lo fa se la prende solo con l'ultimo supplente arrivato, quello con la posizione contrattuale in apparenza più fragile) e di solito se la cava con un vago richiamo in Collegio Docenti dove evita con cura di spiegare quale classe si è lamentata e di quali insegnanti si sta parlando,
con grande irritazione del corpo docente e soprattutto di chi non è colpevole ma  sarebbe anche disponibile a farsi un esame di coscienza, però prima di avviare il doloroso processo vorrebbe la certezza che la questione lo riguarda.

Personalmente in classe applico molto la tecnica della contrattazione sindacale: dall'apposita colonna del registro, manuale o elettronico che sia, è facile vedere se qualche collega è, diciamo, molto assiduo nell'assegnazione dei compiti a casa e avendo di solito molte ore in una classe imparo a concentrare i compiti in certi giorni più che in altri. Soprattutto chiedo: "Come siete messi per Giovedì? VI va bene se il tema ve lo do per la settimana prossima? Ci sono problemi per Martedì, visto che avete la verifica di inglese?". Qualche moderata concessione ha spesso un effetto molto positivo sulla disponibilità degli alunni.
Va detto anche che ho un sistema di controllo piuttosto accurato e quando non mi consegnano i compiti divento una belva, ma questa è altra storia.

lunedì 14 gennaio 2019

Passatempi all'ospedale, ovvero "Qual è la vostra perversione?"

L'ospedale di Careggi è considerato una eccellenza a livello nazionale.
Tuttavia la biblioteca per i pazienti non è a questo livello.

Come tanti altri reparti ospedalieri, anche quello che mi ospita ha un paio di scaffali dedicati ai libri che i degenti o i loro amici lasciano in libera lettura. Sono lì, disposti alla rinfusa e  senza etichettatura: chi vuole va e lascia, chi vuole va e prende per leggere. 
Sono capitata per caso in quella stanza uno dei primi giorni, durante un giretto casuale fatto al solo scopo di muovermi un po'. Ci sono ritornata qualche giorno dopo, ho scorso distrattamente i titoli e ho arraffato un paio di titoli (tra i quali un Nero Wolfe che non avevo e che tornerà a casa con me).
Poi ci sono ritornata tre giorni fa in cerca di nuove letture e mi sono soffermata a guardare quel groviglio libresco in doppia fila. Senza che nemmeno me ne rendessi conto le mie mani hanno raggruppato la decina di libri di Danielle Steel e l'hanno riposti in un palchetto a parte.
Ho continuato a guardare.
Basterebbe fare una rozza divisione per argomenti, mi  dico: gialli, sport, umoristica, narrativa italiana e straniera.... spostando ciò che non era narrativa nello scaffale vicino, che era già strutturato in quel senso...
La mattina dopo, armata di guanti di lattice, mi sono fatta staccare la flebo e sono tornata là dentro.
Ho iniziato così quello che senz'altro potrà essere contato come il lavoro più inutile della mia vita; ma che ci posso fare se riordinare libri mi rilassa? È sempre stato così e sempre così sarà.
Appunto la cosa per rallegrare chi passa di qua - infatti, davvero non so perché, chiunque me lo sente raccontare scoppia a ridere pazzamente e non la smette più.
Aggiungo che i medici l'hanno trovato un buon segno: secondo loro, se mi occupo di qualcosa che va oltre la stretta sopravvivenza e ritorno alle mie consuete perversioni* è segno che il mio quadro clinico è in netto miglioramento. 
Personalmente sono d'accordo, e se da una parte mentre traffico con i libri mi sento decisamente idiota, dall'altra c'è il senso di conforto che mi dà il rientrare finalmente nella mia pelle.

*naturalmente non si sono espressi così, è solo una mia libera traduzione delle loro parole

venerdì 11 gennaio 2019

Letteratura al maschile e letteratura al femminile

Le tre sorelle Brontë, dipinte dal fratello Patrick. 
Il ritratto, molto più malridotto di come appaia qui, si trova alla National Portrait Gallery - un piccolo quadretto smiciato che lascia l'impressione di una forza davvero potente. 
Nell'ultimo anno nei circuiti letterari si è andato diffondendo un curioso tema di discussione: davanti  ai meccanismi editoriali le donne risultano svantaggiate?
Murasaki Nel Paese Delle Meraviglie è rimasta abbastanza perplessa davanti a questo Grande Interrogativo perché è una figlia dei tardi anni 70, un periodo in cui le donne andavano assai di moda o almeno così sembrava. D'altra parte, se J.K. Rowling in persona (e non certo solo lei) ha preferito dare al suo nome come autrice una sorta di neutralità, evitando di indicare i suoi due nomi e limitandosi alle iniziali, qualcosa di vero potrebbe anche esserci.
E invero le statistiche non sembrano lasciare dubbi: rispetto agli uomini le donne sono meno pubblicate, meno lette e anche meno considerate come scrittrici anche dalle donne stesse (che, com'è noto, sono la maggioranza delle persone che leggono). In rete è circolata la domanda Nella tua libreria ci sono più libri scritti da uomini o da donne? e la risposta in molti casi sembra sia che gli autori maschi prevalgono alla grande.
Ho scrutato molte volte la mia personale libreria, senza peraltro nessuna voglia di mettermi a fare un conto preciso ché mi sta troppa fatica - senza contare che andrebbe ben considerato come la mia libreria contenga solo una parte dei libri che lo letto (biblioteche, prestiti di amici e una cospicua libreria di famiglia assai ben fornita han fatto il resto) e a quel punto il conto diventa decisamente difficile.
Tuttavia, nonostante la massiccia presenza di Agatha Christie e di Marion Zimmer Bradley* e di alcune  ottime mangaka temo proprio che i libri negli scaffali di casa mia siano in buona parte al maschile - cosa del tutto inevitabile in una biblioteca formata in gran parte di "classici" (chiamo classico qualsiasi libro abbia più di una quarantina di anni, indipendentemente dal valore letterario); anche perché, fino a buona parte del XVIII secolo le scrittrici del canone europeo si contano abbastanza facilmente**: per la letteratura greca abbiamo Saffo e una manciatina di signore che ci  han lasciato qualche citazione indiretta, come Anite di Tegea; per quella latina abbiamo tal Sulpicia che ci ha lasciato un pingue corpus di ben cinque brevi scritti finiti nel canone di Tibullo e  che forse non sono nemmeno suoi. Per il mio amato medioevo non siamo messi molto meglio, anche se le poche autrici si segnalano se non altro per una certa varietà di temi (Dhuoda scrisse un manuale di educazione per suo figlio, Rosvita, badessa assai colta, scrisse drammi edificanti che le sue monache potevano recitare, Trotula ci ha lasciato un bel trattato di medicina, Eloisa segue il filone autobiografico e introspettivo oltre che monastico, Ildegarda di Bingen si occupò di mistica, minerali, medicina, musica e teologia, Maria di Francia scrisse poesie che narravano storie cavalleresche e d'amore in francese, Caterina da Siena teologa e oggi patrona d'Italia nonché dottore della Chiesa, ci ha lasciato un corpus davvero vasto e Christine de Pizan scrisse di soprattutto di storia e filosofia. Qualcosina arriva col rinascimento italiano, con una fioritura di poetesse italiane che comprende anche Gaspara Stampa e Vittoria Colonna, e nel Seicento dalla Francia con i grandi epistolari *** e soprattutto con Madame de La Fayette, considerata dalla critica l'inventrice del romanzo moderno francese (o anche occidentale, dipende).
Nel Settecento la situazione cambia, perché è arrivata quella benemerita invenzione che si chiama appunto romanzo, e lí fin dall'inizio le donne hanno dato un consistente apporto, soprattutto nella letteratura inglese. 
Quanto ai pregiudizi verso le femmine scrittrici, almeno da parte dei critici maschi, moltissimo ci sarebbe da dire anche per il presente (se andate a leggervi un po' di cosiddetti Commenti Autorevoli su Elena Ferrante e la sua quadrilogia avrete un interessante spaccato in materia) ma posso assicurare che anche in passato alle donne scrittrici non è stato fatto mancare niente.
Il primo sospetto in materia lo ebbi quando, al liceo, studiavo letteratura italiana. D'accordo, il professor Blasio nemmeno ci accennò all'esistenza di poetesse rinascimentali, ma quell'anno facemmo un programma veramente ridotto ai minimi termini, e d'altronde a suo tempo aveva risolto Boccaccio con una lezione una. Ma mi colpí il manuale di letteratura di Salinari, che invece  alle potesse del Cinquecento accennava quanto bastava per spiegare che non erano nulla di che: troppo emotive e troppo prese dal sentimento (e troppo poco letterarie?). Io lessi e rilessi l'unica citazione che si degnava di fare di Gaspara Stampa
"Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto; 
piangerò, arderò, canterò sempre 
(fin che Morte o Fortuna o tempo stempre 
a l'ingegno, occhi e cor, stil, foco e pianto) 
la bellezza, il valor e 'l senno a canto
che 'n vaghe, sagge ed onorate tempre 
Amor, natura e studio par che tempre  
nel volto, petto e cor del lume santo...“ 
Gaspara Stampa, 26. XXVI. 
e la trovai molto bella, mentre gli altri poeti del Cinquecento, quando non scrivevano poemi epici, mi lasciavano piuttosto freddina.
Più amara fu la sorpresa quando una cara amica che si laureava in inglese mi prestò la storia della letteratura di David Daiches e scoprii quanto poco spazio dedicava a quelli che, a mio avviso, erano senza dubbio i meglio pezzi dopo Shakespeare: Jane Austen e le sorelle Brontë, e quante banalità sciorinasse per la circostanza. Un po' meno mi sorpresero le discussioni sugli scritti di Eloisa, e su "quale uomo fosse nascosto dietro quel nome". Solo a un certo punto della mia vita mi resi conto che, essendo abituata a leggere soprattutto critica letteraria (e sociologia) scritta da donne negli anni più caldi del femminismo, arrivavo in un certo modo impreparata all'impatto col mondo accademico che era soprattutto maschile.

Perché il punto è proprio questo: di tendenza leggo mooolto più volentieri libri scritti da donne, e per quanto ricordo è sempre stato così. In qualche modo trovo che il loro punto di vista sia più morbido, più interessante, più sfaccettato e più recettivo verso le cose che effettivamente sono importanti, e a questo punto non saprei dire se si tratta di un pregiudizio o di una effettiva risonanza col mio modo di essere - sta di fatto che, classici a parte che in qualche modo sono usciti dal vaglio di una dura selezione, di tendenza i romanzi scritti da uomini quasi sempre mi annoiano un po' (con le dovute eccezioni, si capisce). 


Tutto questo per spiegare che quando Lurkerella ha esortato Pensierini a leggersi Anne Brontë l'ho presa per una richiesta rivolta a me di segnalarli nel Venerdì del Libro e, come una tigre che visto un bel filetto di chianina decide di farsi anche il controfiletto, la noce e lo scannello pappandoseli in tre bocconi con gran gusto, ho prontamente deciso, finiti di presentare i sei romanzi di Jane Austen, di dedicarmi a tutti i romanzi delle sorelle Brontë nonché alla biografia di Charlotte Bronte scritta da Elizabeth Gaskell, a qualcosina di George Eliot (così magari è la volta che finalmente mi leggo il Mulino sulla Floss invece di limitarmi a rileggere Middlemarch) e forse perfino a qualcosina di Virginia Woolf. Con i miei tempi, naturalmente. Il tutto al grido di "ogni scusa è buona per rileggere certi romanzi".


Con questo post partecipo al Venerdì del libro di Homemademamma e auguro a tutti felici letture degli autori ogni sesso.


*la cui influenza su di me appare piuttosto sovradimensionata dal formato dei volumi, a dire il vero, ma insomma l'ho letta quasi tutta
** sotto questo aspetto han fatto assai meglio in Giappone, dove la letteratura giapponese segnala nomi assai importanti ben prima della mia illustre omonima. Quanto alla tradizione araba, indiana e cinese, confesso la mia totale ignoranza in materia ma se mi fosse capitato per le mani qualche antico testo arabo o cinese scritto da una signora araba, indiana o cinese sono sicura che avrei cercato di procurarmelo, sia pure in prestito. Se però quaggiù non ce ne siano perché non ce ne sono punto e basta, oppure se sia per colpa dell'insipienza degli editori italiani davvero non saprei dire. Si accettano con gioia chiarimenti e segnalazioni.
***Ne approfitto per mandare un particolare vaffanculo agli editori che non si sono ancora degnati di tradurre l'epistolario di Madame de Sevigné. 

Orgoglio e pregiudizio - Jane Austen



Premetto di essere ben consapevole che presentare Orgoglio e Pregiudizio al Venerdì del Libro di Homemademamma, dove l'hanno letto e riletto praticamente tutti, ha un po' dell'assurdo; d'altra parte è il libro più famoso di Jane Austen e sarebbe ingiusto lasciare da parte proprio lui, mi sembra - anche perché è uno dei miei libri preferiti. 

Iniziamo con la consueta premessa: ebbene sì, anche questo è il primo romanzo di Jane Austen, proprio come già si è detto di Ragione e sentimento e de L'abbazia di Northanger; perché in effetti la cronologia dei romanzi di Austen è piuttosto ingarbugliata; tuttavia esiste la concreta possibilità che questo sia davvero il primo romanzo, quello da cui tutto cominciò. 
Sappiamo che una prima versione, dal titolo First Impression, venne rifiutata da un editore nel 1797. In seguito Jane Austen lo riscrisse, cambiando il titolo in Pride and Prejudice e agli inizi del 1813 l'editore Egerton si degnò di comprarlo, pagandolo ben 110 sterline - senz'altro un buon affare, considerando che si tratta di un libro che dopo due secoli è ancora lettissimo e popolarissimo in tutto il mondo.
Orgoglio e pregiudizio è considerato un capostipite del genere rosa (pur non essendo affatto un "romanzo di genere" e presentando un intreccio del tutto originale per l'epoca), in particolare di quello specifico ramo della letteratura rosa particolarmente caro ai romanzieri americani dove i due protagonisti litigano furiosamente per quasi tutto il libro, mostrandosi grandissimo schifo e avversione reciproca, fin quando, a dieci pagine dalla fine, si confessano profondamente innamorati l'uno dell'altro fin da pagina due. Rispetto al romanzo di Jane Austen occorre però considerare che l'antipatia di Elizabeth verso Darcy è autentica, genuina e basata su motivi piuttosto validi agli occhi dell'osservatore spassionato, primo fra tutti il notevole torto che Darcy fa a Jane, l'amatissima sorella di Elizabeth, ostacolando come meglio gli riesce la sua unione con Bingley.

Una delle critiche più frequenti (maschili, di solito. Sarà un caso, visto che si tratta di uno dei personaggi più apprezzati a tutt'oggi dal pubblico femminile? Ah, saperlo, saperlo!) rivolte al romanzo riguarda per l'appunto Mr. Fitzwilliam Darcy: troppo irreale, troppo idealizzato, addirittura negativo perché induce le fanciulle in fiore a coltivare eccessive aspettative verso ciò che un uomo può essere, che finiscono a tutto svantaggio di un comune mortale di sesso maschile che esce inevitabilmente schiacciato dal raffronto. E tuttavia, se devo essere sincera, io tutta questa grande e impareggiabile perfezione in Fitzwilliam Darcy non ce l'ho mai vista: al netto  delle caratteristiche che hanno tutti i protagonisti maschili destinati alle protagoniste femminili dei romanzi austeniani, ovvero notevole bellezza, una discreta intelligenza ed elevati principi morali, si tratta infine di un uomo superbo, scontroso, tutt'altro che conviviale, ricolmo di pregiudizi sociali e ostinatamente convinto di avere sempre e comunque ragione - un tipo di carattere che Jane Austen riutilizzerà anche in seguito, ad esempio con Emma nel romanzo omonimo e con Mr. Bertram in Mansfield Park, con cui ha in comune anche un altro paio di caratteristiche, ovvero la capacità di innamorarsi profondamente e quella di ammettere, davanti alla più plateale evidenza, di avere avuto torto; entrambe sono caratteristiche, mi sembra, non del tutto introvabili in un essere umano, e in effetti conosco molte persone - tra cui me stessa medesima - che, trovandosi strette all'angolo o anche semplicemente convinte dall'evidenza dei fatti, hanno francamente ammesso i loro errori e fatto poi del loro meglio per porvi rimedio cambiando atteggiamento e comportamenti. E siamo d'accordo che secondo certi moderni codici culturali il Vero Uomo non deve mai ammettere di avere torto, ma tutti sappiamo che per fortuna, nel mondo reale, le cose vanno un po' diversamente.

Il mio primo ricordo legato a Orgoglio e pregiudizio risale al 1970, quando mia madre me lo lesse mentre ero allettata per un malanno. Giovane e implume com'ero, senza ancora aver preso la licenza elementare, seguii benissimo lo sviluppo delle varie storie d'amore e delle battute di Caccia al Marito da parte delle varie famiglie ma mi sfuggirono quasi completamente le implicazioni legate alla scala sociale. In compenso rimasi molto favorevolmente colpita dall'estrema libertà delle Bennet e delle Lucas (e di tutte le altre ragazze solo intraviste) che andavano, venivano, viaggiavano, giravano per paesi e negozi a coppie e a gruppi e talvolta anche da sole e gestivano la loro vita sentimentale in perfetta autonomia:, tanto che si andava a "parlare col padre" solo dopo aver ricevuto il consenso della ragazza. Nel complesso quelle ragazze inglesi mi sembravano più libere delle donne che mi circondavano, e certamente erano molto più libere delle loro contemporanee francesi (non parliamo delle italiane per pietà) e, caso mai, avrebbero potuto assorellarsi alle protagoniste di Piccole donne.
Ricordiamo gli anni: fine Settecento, inizi Ottocento, in Inghilterra avevano Elizabeth Bennet, in Italia avevamo Lucia Mondella. Seconda metà dell'Ottocento: negli USA avevano Amy, Beth, Jo e Meg March, in Italia avevamo la Mena dei Malavoglia. Davvero è così strano che i giovinetti dei nostri anni abbiano qualche difficoltà ad appassionarsi ai Grandi Classici della nostra letteratura dell'Ottocento?

Le varie ragazze presenti nel romanzo (le cinque sorelle Bennet, le due sorelle Lucas, Miss Bingley, la scialba De Bourgh e Giorgiana Darcy) sono tutte assolutamente reali. Oh sì, tutti i personaggi di Jane Austen sono costruiti con eccellente realismo ma in particolare le sorelle Bennet sono tra i personaggi più realistici della letteratura occidentale, a cominciare da Jane, tanto bella quanto amabile e che per principio non pensa mai male di nessuno senza prove schiaccianti e qualche volta nemmeno in presenza di quelle; segue poi Elizabeth, brillante ma non impulsiva, dotata di senso dell'umorismo ma priva di meschinità, soggetta però a farsi deviare dai pregiudizi della collettività che la circonda, a suo agio in ogni ambiente sociale senza formalizzarsi né vergognarsi inutilmente, perfettamente capace di tenere testa a chiunque cerchi di calpestare i suoi diritti; la pedante Mary; la scialba Kitty sempre in cerca di riferimento cui attaccarsi come una vongola allo scoglio, fosse pure la sorella minore; ma soprattutto quel capolavoro insuperabile che è Lydia -giovanissima, frivola, vivace, irriflessiva, sventata fino all'incoscienza più totale - eppure capace di uscire indenne e in buona salute dai peggiori colpi di testa, pronta a corteggiare e farsi corteggiare da qualsiasi bel giovane che porti una divisa addosso, capace di scegliersi per marito "il peggior gentiluomo d'Inghilterra" sull'onda di una travolgente  infatuazione ma di non perdere mai, in seguito, il diritto alla rispettabilità che il matrimonio le aveva dato: niente scandali per lei, niente fughe, niente intrighi peccaminosi e relazioni adulterine: sposata a sedici anni al peggiore (e più insolvente) gentiluomo d'Inghilterra a lui resterà fedele e si comporterà da moglie rispettabile e onorata. Abbiamo mai incontrato o conosciuto qualcuno come Lydia? Personalmente sì, a tonnellate, e sono tutte donne che a conti fatti non se la sono cavata né meglio né peggio nella vita di tante di noi. 

Solo in età adulta mi colpì l'aspetto economico della vicenda - che in realtà nel libro è presentato molto chiaramente e senza infingimenti sin dalle prime pagine, sì come Jane Austen è solita fare: come in tutti i suoi romanzi ogni protagonista matrimoniabile (e anche molti matrimoniati) girano portando un invisibile insegna che indica la loro rendita o retribuzione, e così siamo subito informati che Charles Bingley va per le 5.000 sterline, Fitzwilliam Darcy ne vale 10.000 (che, sì, è una cifra quasi da favola) e che il reverendo Collins è un partito più che discreto, che oltre ad un beneficio ecclesiastico non indegno ha la prospettiva di ereditare una rendita e terreni per 2000 sterline l'anno mentre George Wickham, per quanto avvenente, affascinante e simpatico non ha il becco di un quattrino e dunque come partito non si presenta affatto bene.
La famiglia Bennet sotto questo aspetto vive assai pericolosamente, in costante equilibrio su una lama di rasoio di cui solo Mrs. Bennet sembra consapevole, ma di cui Mr. Bennet conosce bene le insidie. I due coniugi si studiano di evitarle, ma lo fanno in modo contraddittorio, come se non si fossero mai rassegnati al crudele tiro che la sorte gli ha giocato.
Provo a spiegarmi più chiaramente: Mr. Bennet vive con una rendita di 2.000 sterline annue (che non sarebbe affatto male), lui, la moglie e le cinque figlie in età da marito, non una delle quali all'inizio del romanzo è nemmeno vagamente fidanzata - e Jane, la maggiore, va ormai per i ventidue anni.
La rendita di Mr Bennet è però vincolata a un erede maschio - le cinque figlie sono state concepite e partorite appunto nel tentativo di avere quel maschio che non è mai arrivato, finendo così per aggravare quel problema che avrebbero dovuto risolvere; e alla morte di Mr. Bennet la proprietà andrà a un parente laterale della famiglia, tale Mr. Collins.
il ramo materno per giunta offre assai poco: 1.000 sterline a testa non sono esattamente una dote di gran lusso.
Le prospettive delle ragazze sono dunque potenzialmente drammatiche se almeno una di loro non riesce a fare un buon matrimonio, ma la prospettiva non sembra togliere il sonno a nessuno, nemmeno alla madre che, pur accusando sul tema "matrimonio" frequenti crisi di nervi (come fa davanti a qualunque contrarietà, per quanto esigua) non ha niente in contrario che due di quelle ragazze perdano la testa ogni settimana per un giovane ufficiale diverso (e i giovani ufficiali, si sa, di solito sono cadetti o comunque squattrinati).
Le cinque ragazze Bennet sono state tirate su come principesse o perfino meglio: chi ha voluto studiare l'ha fatto con appositi maestri, chi era pigro ha potuto dedicarsi tranquillamente a cose più divertenti di canto, pittura, disegno, ricamo di paraventi o studio delle lingue (che, stando a una molto interessante conversazione di un gruppo di personaggi all'inizio del romanzo, costituiscono la lista delle materie che formano l'educazione femminile, e dietro il tono giustamente polemico di Fitzwilliam Darcy si intravede in trasparenza una Jane Austen ancora più polemica).
Inoltre nessuna delle cinque sorelle Bennet si è mai immischiata nella conduzione della casa: in una conversazione molto illuminante anzi Mrs. Bennet accenna con un certo disprezzo a Charlotte Lucas che era attesa a casa per le polpette (o per la torta di mele, dipende dalla traduzione) puntualizzando con Mr. Bingley che non capiva l'utilità di impegnare le ragazze nella gestione domestica quando si disponeva di servitori che sapevano fare il loro mestiere, e sottintendendo così che le sue figlie, in cucina, nemmeno ci entravano. Sia Jane che Elizabeth in effetti sembrano molto più adatte a gestire ampie dimore come Pemberley o Netherfield piuttosto che una piccola canonica dove ogni centesimo andava speso con cura e molte spese evitate; e quando Mr. Collins prova, piuttosto sennatamente, a risolvere la questione del vincolo sulla proprietà di Mr. Bennet sposando una delle ragazze della  nidiata, non si rende conto della fortuna sfacciata che ha avuto ricevendo un franco rifiuto da Elizabeth, la fortunata prescelta, che davvero in quell'occasione fa del suo meglio per garantirne la futura felicità appunto rifiutandolo.
In occasione di quel rifiuto, che la madre prenderà malissimo, Mr. Bennet si schiera con decisione dalla parte della figlia, non solo perché se non lo vuole ha tutti i diritti di non sposarlo, ma (anche se non lo dice esplicitamente) anche e soprattutto perché Mr. Collins è un uomo noioso in modo esasperante e non sarebbe quindi adatto come carattere a Elizabeth. Un discorso molto franco in proposito lo fa anche più verso la fine del libro quando mette in guardia Elizabeth dallo sposare Mr. Darcy solo perché è un uomo estremamente ricco e con una bella villa e la prega di non dargli il dispiacere di vederla sposata ad un uomo che lei non apprezza - e solo dopo una lunga serie di rassicurazioni da parte della figlia si decide infine a dare il suo consenso. Mr. Bennet, come ci spiega l'autrice senza mezzi termini, conosce tutti i difetti che può avere un matrimonio senza amore (nache se, nel suo caso, l'amore se ne è andato quando ha imparato a conoscere la sua consorte, che a suo tempo aveva liberamente scelto).
Nei romanzi di Jane Austen infatti il codice morale condiviso da tutte le protagoniste (ma anche da numerosi genitori) è molto chiaro: ci si sposa per amore e solo per amore, anche se chi ha buon senso cerca di evitare l'indigenza - e qualsiasi altro motivo è profondamente immorale; e si decide in proprio, senza farsi deviare da considerazioni mercenarie e tenendo in scarsa considerazione l'opinione della famiglia dello sposo, perché il matrimonio è per definizione un affare che va gestito in base alle inclinazioni dei due futuri coniugi. Anche la dolcissima e ragionevolissima Jane assicura la sorella che non esiterebbe un momento a sposare Charles Bingley nonostante l'ostilità delle di lui sorelle a questo matrimonio, così come Elizabeth, davanti alla minaccia di Lady de Bourgh di trovarsi ostracizzata dalla famiglia di Mr. Darcy qualora decidesse di sposarlo risponde con una variante nemmeno troppo confettata del "Ecchissenefrega": siamo lontani centinaia di miglia  dalle protagoniste di Trollope che respingono le proposte di gentiluomini che pure amano perché la madre di lui sarebbe ostile al matrimonio, o cose del genere.
Eppure proprio in Orgoglio e pregiudizio abbiamo anche l'unico caso del canone austeniano dove un matrimonio dettato dall'interesse non sembra destinato ad una triste fine.
Mr. Williams infatti, dopo il rifiuto di Elizabeth verrà garbatamente preso di mira da Charlotte Lucas - quella che sa fare le polpette (o la torta di mele, dipende dalla traduzione) e che, sfruttando con molta delicatezza la situazione, consola lui e solleva lei dalla triste sorte di avere un gattino appeso alle sottane riuscendo nel giro di pochi giorni a farsi chiedere in matrimonio a sua volta. Lo accetterà, e si rivelerà una moglie ideale per lui, non solo in virtù del suo tatto, del suo notevole buon senso e della sua preziosa capacità di non sentire all'occorrenza le scempiaggini dette dal marito, non solo per la mirabile pazienza nel sopportare Lady Catherine de Bourgh e le sue continue ingerenze, lusingandola senza la viscida e meschina lecchineria del suo consorte, ma soprattutto gestendo con grande accortezza e prudenza la canonica, il pollaio (pollaio! Altro che polpette, o torte di mele!) e tutti gli annessi e connessi, facendoli fruttare al loro meglio e tenendo una contabilità attenta e precisa, senza sprechi ma anche senza particolari ristrettezze.
In effetti il matrimonio di Charlotte viola tutti i principi che per sei romanzi le protagoniste dei suoi romanzi rispettano scrupolosamente, perché Charlotte non solo sposa Mr. Collins senza amarlo, ma senza nemmeno provare per lui stima, affetto, complicità o uno qualsiasi dei sentimenti che tengono unita una coppia. Ma se non ama suo marito, in compenso Mrs. Collins ama molto il di lui beneficio ecclesiastico con annessa canonica e la sicurezza economica che le garantisce, e la possibilità di avere una casa tutta sua da organizzare.
E' un matrimonio di convenienza  - per entrambi, in verità, perché non si osa nemmeno immaginare cosa ne sarebbe stato di Mr. Collins nelle mani di una donna sciocca, o anche solo priva di discrezione e di tatto - ma scelto con lucidità da una persona perfettamente in grado di valutarne i pro e i contro, e soprattutto priva di alternative valide (teniamo conto che ha ventinove anni e una dote piuttosto modesta; e non dando l'impressione Charlotte di essere un animale a sangue eccezionalmente caldo, si finisce per farsi l'impressione che nei tempi lunghi i pro prevarranno sui contro, specialmente quando arriveranno dei bambini.
Elizabeth critica molto la scelta di Charlotte, in cuor suo e con Jane; e quando Jane prova a convincerla che forse Charlotte nutre un certo affetto per il suo futuro sposo, se ne esce con una delle mie frasi preferite del romanzo: Se dovessi pensare che Charlotte nutre della stima per Mr. Collins avrei del suo cervello un'opinione anche peggiore di quella che ho adesso del suo cuore.
Ma sarà proprio questo bizzarro matrimonio, destinato probabilmente per la sua stessa bizzarria a rivelarsi meno azzardato del previsto a mettere in moto una delle parti più importanti dell'intreccio - il quale intreccio è così ben impostato ed equilibrato, con gli avvenimenti che zampillano gli uni dagli altri in perfetta naturalezza, da essere universalmente riconosciuto come uno dei migliori della storia della letteratura.

Consigliato a tutti e soprattutto a tutte; perché, se è vero che chiunque passi da qui quasi certamente l'ha letto e probabilmente anche riletto, tuttavia può sempre rileggerlo ancora, perché ogni scusa è buona per leggere e rileggere Orgoglio e pregiudizio e trovarci ogni volta qualche nuovo motivo di apprezzamento e ammirazione.

Il cantante, canadese, si chiama Chris De Bourgh e la canzone High On Emotion racconta un colpo di fulmine. 
Jane Austen non si fida molto dei colpi di fulmine anche se spesso le sue coppie provano una forte attrazione sin dai primi incontri - pur se non in Orgoglio e Pregiudizio. Ad ogni modo la canzone mi piace molto, e l'ho sempre associata a questo romanzo a causa del cognome del cantante; e siccome ho sempre sentito gli inglesissimi vj di Videomusic pronunciare il nome del cantante Chris De Bérg ho sempre pronunciato De Bérg anche Lady Catherine, non so se a torto o a ragione.