Il mio blog preferito

martedì 26 febbraio 2019

Timeo uozzappos et dona ferentes


Dice che sono gatti disegnati specificamente per Whatsapp. Dice.

Mi sono sempre ritenuta una persona non dico al passo coi tempi, ma comunque decorosamente aggiornata sul piano informatico - fermo restando che le operazioni che mi interessa fare sono poche e semplici: gestire il blog, con tutto il suo corredo di link e di illustrazioncine, qualche foto alle gatte ogni tanto, un po' di chiacchiere e qualche drago su Facebook, il registro elettronico, qualche libro sul tablet, un po' di navigazione a caccia di notizie varie, un po' di videoscrittura, qualche mail... la grafica e Photoshop li lascio a persone più competenti e più interessate di me. Vanto inoltre una dimestichezza con i computer ormai trentennale, che parte con una tesi scritta su quello che ormai è un pregiato pezzo da museo che aveva ben due floppy drive e nessun disco fisso*
Quando si tratta di telefonia invece piombo di colpo nella preistoria. Quando, dopo essermi messa in salvo da un branco di dinosauri affamati, riesco infine a rifugiarmi nella mia bella caverna con acqua corrente** e mi infilo sotto le coperte di pelliccia tutto quello su cui posso fare affidamento è un telefono fisso (sissignori, ne esiste ancora qualcuno. In realtà lo trovo comodo soprattutto per la connessione a internet) e un minuscolo cellulare color nero a forma di mattoncino, progettato in prossimità della fine del millennio scorso, capace solo di spedire e ricevere modesti SMS di testo e fare telefonate. L'ho comprato undici anni fa alla Coop con una offerta speciale per soci e costava 25 euro, ma cinque te li restituivano subito sotto forma di ricarica. Lo tengo quasi sempre spento a dormire in borsa*** e me lo porto dietro solo per poterlo usare in casi di emergenza, per esempio se mi casca un albero in testa***. Il numero ce l'hanno pochi amici fidati.
E gli altri?
Chiamano sul fisso, o mi mandano due righe di mail. Non è che raggiungermi sia impossibile, solo che quando sono fuori casa (il che non avviene poi così spesso, viste le mie abitudini casalinghe) non mi va di stare a chiacchierare al telefono, soprattutto se sono in giro con altre persone e magari sto parlando con loro.
No, non ho mai trovato molto educato tenere il cellulare sulla tovaglia del ristorante e passare il tempo a telefonare o ricevere telefonate - a meno che uno non sia primario d'ospedale, ministro o cose del genere. Ma sono opinioni personali, del tutto individuali, e me le tengo per me.

Questa abitudine di vivere dietro al paravento, dettata più dalla mia natura che da una precisa scelta esistenziale, si è rivelata estremamente utile nel momento in cui nel mondo virtuale si è affacciata una nuova, diabolica creatura: Whatsapp.
Non sono di quelli avversi per principio alle novità, non ho niente contro i social e non credo che abbiano distrutto la capacità degli individui di comunicare. Ma Whatsapp mi ha sempre inquietato parecchio, probabilmente perché non ti permette di usufruire dell'utilissima possibilità di far finta di non esserci. Puoi far finta di non aver ricevuto una mail, di non aver letto un messaggio, di non aver visto una provocazione. Puoi sparire dalla rete per due o tre giorni e poi spiegare che hai avuto problemi di linea, e a quel punto la polemica di quattro giorni fa sarà morta, sepolta e dimenticata da tempo immemorabile*****.
Ma non con Whatsapp, che ti inchioda al malefico meccanismo delle spunte e sa quando sei e quando non sei connesso. Inoltre lavora soprattutto su piccoli gruppi, ed è difficile sfuggire al controllo, in particolare se l'argomento della discussione ti riguarda da vicino.
Ma mi accorgo che sto divagando e rischio da un momento all'altro di finire nei Trattati sui Massimi Sistemi. Passerò quindi a svelare qual è il vero motivo per cui Whatsapp mi inquieta.
Nella mia amata scuola abbiamo il gruppo degli insegnanti (che comprende tutti gli insegnanti tranne me che, a causa del mio telefono di antiquariato, non posso installarlo)... e il gruppo degli Insegnanti di Lettere (che comprende tutti gli insegnanti di Lettere tranne me che a causa del mio telefono ecc. ecc.).
In apparenza può non sembrare una cosa negativa, certo. A chi non insegna nella piccola scuola di un piccolo paesello, intendo. Un sacco di gente si trova benissimo con i gruppi di Whatsapp, li trova di una comodità estrema, li usa con serenità e non gliene è mai venuto niente di male - e di tutto questo io mi rallegro sinceramente. Ma la categoria degli insegnanti - come quella dei genitori, e se qualcuno che legge fa o ha fatto parte di un gruppo di classe o di catechismo o di calcio, pallavolo e simili capirà di cosa sto parlando - è molto emotiva e portata a drammatizzare. I topolini trasformati in elefanti per molti di noi sono la norma, e gli incidenti diplomatici si susseguono a una velocità incredibile****** lasciando spesso molte più scorie tossiche dei normali diverbi che avvengono a voce, e ancor più di frequente creando attriti laddove di solito non si creava alcun tipo di diverbio - sì, insomma, perché c'è una fetta di umanità che in queste faccende si crogiola senza darsi pace finché tutti, volenti o nolenti, non hanno preso una ben precisa posizione schierandosi da una parte o dall'altra. Inoltre, per qualche misteriosa ma inevitabile alchimia, chiunque cerchi di riportare pace ed equilibrio tra gli elementi più polemici riesce inevitabilmente ad acuire vieppiù il conflitto in corso e, con un po' di fortuna, a diventarne parte integrante a tutti gli effetti.

In conclusione: al momento continuo a trattare con la massima considerazione il mio amato cellulare nero d'antiquariato e a tenerlo il più possibile spento da quando sono tornata a casa; e, casomai dovessi comprarmi un Telefono Elegante, mi guarderei bene dal portarlo a scuola o dal farne parola con i colleghi.
Nel frattempo, visto che ho ancora un sacco di tempo libero (che passo per lo più a cucinare e a mangiare a otto palmenti), medito sulla stranezza del fenomeno che trasforma un gruppo di persone dall'apparenza equilibrata in una manica di piantagrane.
*sissignori, i primi HD arrivarono appena un po' più tardi, e bastava qualche foto per riempirli - insomma, oggi farebbero più pena che altro.
**Sì, nel senso che corre giù dalla volta di roccia. Perfetta per farsi la doccia nelle mattine d'estate o per tenere in fresco la birra nelle sere d'inverno - peccato che la birra non l'abbiano ancora inventata
***Se non sono all'ospedale, si capisce.
**** Come faccio a telefonare se mi è cascato un albero in testa? Non lo so, non mi ci sono ancora trovata. Se mi capita e dovessi sopravvivere vi farò sapere.
*****In rete il tempo è ancor più strano che nella cosiddetta Real Life. Accade così che quattro giorni bastino e avanzino per datare un diverbio, anche molto animato, a svariate migliaia di anni fa facendogli così perdere completamente di valore.
******Come faccio a saperlo se non ho Whatsapp? Ma che domande, me lo raccontano, spesso facendomi anche leggere i messaggi incriminati. Perché il problema di quel che è scritto è che, essendo appunto scritto, rimane in memoria e si può anche far leggere a chi per sua buona sorte era rimasto del tutto estraneo allo scazzo, magari chiedendogli un parere - che assai facilmente non sarà tale da rendere onore al senno di chi l'ha pronunciato proprio perché la questione di partenza è spesso di una sorprendente minimalità.




venerdì 22 febbraio 2019

Nel Giappone delle donne - Antonietta Pastore


Una volta tanto ho deciso di presentare al Venerdì del libro di Homemademamma un saggio, e più precisamente un saggio dedicato alla condizione femminile in Giappone pubblicato nel 2004. L'autrice, Antonietta Pastore, è una traduttrice dal giapponese molto blasonata, ma soprattutto ha sposato un giapponese e ha vissuto in Giappone dal 1977 al 1993; si presenta dunque perfettamente qualificata ad illustrare al nostro italico sguardo le convenzioni e i modelli su cui si basa l'esistenza femminile in quell'affascinante e misterioso paese i cui abitanti fanno tutto a modo loro, maschi o femmine che siano, e sempre secondo una infinità di regole non scritte ma fortissimamente interiorizzate, al punto che  non è nemmeno necessario citarle perché sono assolutamente implicite. 
L'indubbia competenza sull'argomento, unita ad una scrittura molto scorrevole e ad un notevole spirito di osservazione fanno di questo libro una lettura assai avvincente per chiunque sia interessato all'argomento, in particolar modo per una lettrice amante di manga e che negli anni della sua radiosa giovinezza si ritrovava a riflettere e sentir discutere di condizione (e oppressione) femminile a colazione, pranzo e cena e che, ritrovandosi negli anni della maturità davanti a quella folta schiera di personagge sempre incredibilmente ordinate e ben regolate, misurate nei movimenti quanto nelle parole e perfettamente padrone di sé nelle più strampalate circostanze, sempre capaci di sorridere impeccabilmente pur quando erano immerse nel caos più assoluto*, finiva inevitabilmente per domandarsi se cotali creature erano esclusivo frutto di convenzioni letterarie o se in realtà avevano qualche, sia pur tenue, collegamento con la realtà.
"Le donne giapponesi ci sono o ci fanno?" è domanda che il lettore, e soprattutto la lettrice di manga e di letteratura giapponese finisce per porsi all'incirca un paio di volte per ogni tavola illustrata o pagina che gli capiti sotto gli occhi.
Finito di leggere questo libro, la risposta che si affaccia alla mente è "Entrambe": il modello culturale proposto non tanto per la Donna Ideale, quanto proprio per la Donna Normale - quella che incrociamo alla cassa del supermercato o all'uscita di scuola dove siamo andate a prendere i nostri figli, la vicina di casa, la giornalaia dove acquistiamo le riviste o la commessa che ci guida alla ricerca di un pullover azzurro-cenere, è talmente interiorizzato che finisce per aderire come una seconda pelle alla bambina, ragazza, adulta e anziana giapponese - un pensiero sconcertante per una femmina italiana, che certamente non è in alcun modo libera da condizionamenti culturali legati al suo sesso ma che di sicuro non è intralciata dal divieto non scritto di palesare le sue più profonde emozioni, anzi si sente quasi obbligata ad esternarle con gran fracasso (occorre però considerare come il codice culturale giapponese prevede non solo l'imperativo categorico di non far pesare le proprie emozioni sugli altri, ma anche e soprattutto l'abitudine alla disciplina e al rispetto incondizionato delle regole - due caratteristiche che non sono particolarmente dominanti qui da noi).
Scopriamo allora che esistono regole specifiche per i maschi e altre per le femmine; e sono regole che a volte complicano non poco la vita dei traduttori perché, tanto per fare un esempio, maschi e femmine fin da piccoli usano parole differenti (quelle riservate alle femmine sono, naturalmente, più aggraziate e spesso e volentieri leziose, nello stile da compagnucci della parrocchietta); ovvio che quello che vale per la scelta delle parole vale anche per la scelta dei colori nell'abbigliamento, per i gesti eccetera eccetera, fino ad arrivare alla divisione dei lavori di casa, che è in realtà molto semplice: il padre di famiglia non deve impicciarsene. Allo stesso modo non deve impicciarsi della gestione delle spese, che spetta interamente alla moglie (mentre su di lui ricadono l'onere e l'onore di guadagnare i soldi per le spese in questione per poi consegnare l'intero stipendio nelle mani della moglie che provvederà ad assegnargli una specie di paghetta per le spese minute); e dunque sarà la padrona di casa a saldare i conti per i regali che il marito compra per l'eventuale amante - di cui peraltro non è tenuto a rendere conto alla moglie in alcun modo.

Una volta passata la vernice esteriore dell'apparenza e della formalità, la condizione femminile in Giappone non sembra poi così diversa da quella, poniamo, italiana - dove, tanto per fare un esempio, parecchi mariti tengono una o più amanti e parecchie mogli sopportano più o meno in silenzio; ma solo un uomo con un notevolissimo pelo sullo stomaco, da noi, accetterebbe di girare alla moglie i conti dei regali fatti all'amica del cuore perché lei provveda a saldarli. 
Allo stesso modo, anche da noi è implicito che la cura dei genitori anziani del marito ricada in gran parte sulle spalle della moglie, oppure che una volta arrivati i figli è la moglie che deve sospendere il lavoro fuori casa per occuparsene, per poi riprendere a lavorare solo molto più avanti, a figli cresciuti, di solito con attività part-time che le permettano di continuare ad occuparsi della famiglia. In Giappone però questo passaggio è quasi codificato anche a livello sindacale: esistono infatti due tipi di contratto con cui una donna può essere assunta dopo l'università, e quello usato in prevalenza prevede che la donna non abbia avanzamenti di carriera, proprio in previsione del suo futuro matrimonio: l'iter più tipico infatti prevede che, dopo due-tre anni di matrimonio (e l'arrivo del primo figlio, o al massimo del secondo) la signora lasci il lavoro**.
Dunque i ruoli dei sessi sono regolati molto rigidamente, e vengono rispettati. Quanto esattamente la donna giapponese morda il freno e trovi tutto ciò ingiusto non è dato sapere, e l'impressione che si ricava dal libro è che le stesse giapponesi siano consapevoli solo in parte di una loro eventuale disponibilità alla ribellione. Sta di fatto che, al momento in cui il libro è stato consegnato alle stampe, se qualche singola giapponese delle fasce culturalmente più avanzate era disponibile a dichiararsi "femminista" e a chiedere (ma quasi mai al proprio consorte) una equa divisione dei lavori domestici, un vero e proprio movimento di rivendicazione femminile non risultava, né  risulta aver iniziato a prendere piede.
D'altra parte occorre anche considerare la differenza culturale di base, secondo la quale in Giappone l'atto di rivendicare i propri diritti parlando con i superiori da pari a pari è visto come qualcosa di estremamente scortese, se non addirittura in contrasto con le leggi umane e divine - e questo indipendentemente dal fatto di essere maschi o femmine.

Nel complesso una lettura molto interessante, che mi sento di raccomandare a tutti e che affronta questioni molto serie sotto una veste gradevole e all'apparenza leggera. Volendo, un buon modo per iniziare la primavera che è la parte più impegnativa e creativa dell'anno.

*in realtà avrei voluto scrivere "nel casino più completo", ma sono convinta che qualsiasi signora giapponese avrebbe fortemente disapprovato un modo di esprimersi così dozzinale e privo della pur minima traccia di raffinatezza.
**Un contratto di questo tipo da noi non sarebbe legalmente possibile; d'altra parte da noi il datore di lavoro tende a risolvere il problema alla radice, ad esempio non assumendo manodopera femminile, evitando di affidare loro ruoli di una qualche responsabilità o addirittura facendosi rilasciare lettere del tutto illegali di dimissioni senza data da esibire per rescindere il contratto di lavoro qualora l'operaia o l'impiegata decida di riprodursi, o anche semplicemente di sposarsi. 

mercoledì 20 febbraio 2019

Passata è la tempesta?


Dopo una ennesima e interminabile sessione di analisi, ricerche, osservazioni e scansioni di tutti i generi, tipi, forme e qualità, nonché svariati scazzi reciproci e discussioni, il sempre più vasto team di medici* che si occupava del mio complesso caso è alfine addivenuto ad una diagnosi senza punti interrogativi: scartata la possibilità di un malassorbimento del cibo, il problema risultava meccanico - in breve, un tratto della mia interiorità risultava danneggiato, e andava rimosso con un nuovo intervento.
Da lì la strada è stata in discesa: l'intervento è stato eseguito senza problemi né complicanze, il decorso è stato ottimale e, dopo esser stata tenuta a parcheggio a mesi interi  per i vari ospedali del distretto fiorentino, sono infine stata rispedita nel giro di una decina di giorni a casa dove, invece di strisciare come un lombrico anemico, ho finalmente avviato una ripresa in piena regola costellata di abbondanti pasti che digerisco senza apparenti problemi e a una velocità spaventosa, tanto che ho l'impressione di passare le mie giornate a cucinare, chiedere sempre più spesso immani quantità di derrate alimentari agli sventurati amici che si erano offerti di farmi "un po' di spesa" e mangiare senza soluzione di continuità tra un pasto e l'altro.

Naturalmente è ancora presto per bandire ogni dubbio e sciogliere ogni riserva, tuttavia alcuni indizi mi fanno seriamente sospettare di essere infine entrata per davvero in convalescenza - ad esempio, dopo avere tanto scalpitato per tornare a scuola adesso di tornare a scuola me ne frego, com'è giusto e normale che sia, e l'unica attività che mi interessa davvero è stare in ammirata contemplazione della mia convalescenza e bearmi dei miglioramenti che osservo - oltre, naturalmente, a godermi la compagnia delle gatte di casa che hanno accolto con molto favore il mio ritorno.
Vedremo gli sviluppi successivi...

*non scherzo e non esagero: ogni giorno ero visitata da un medico diverso, ma sempre informatissimo sul mio caso.