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venerdì 25 settembre 2020

Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo - Cristoforo Armeno



Il libro che vado oggi a presentare per il Venerdì del Libro di Homemademamma non è esattamente un classico di quelli di cui tutti, ma proprio tutti, han sentito parlare almeno alla lontana.
Anche nella mia vita in effetti è entrato quasi per puro caso - il che gli si addice molto.
Le coincidenze infatti non sono tutte uguali, e ne esistono di particolarmente fortunate e curiose: quando ti avviene di trovare una cosa mentre ne cercavi un altra, per esempio, oppure quando un curioso gioco del caso avvia una strada completamente diversa da quella che intendevi percorrere e dove avrai gran successo e riconoscimenti - ed è una trama molto comune e molto amata.
Tutto ciò ha un nome strano, che a sua volta ha una storia lunga: serendipity (in italiano serendipidità).
Anni fa, nel blog dedicato ai film dello Hobbit, si addivenne appunto a parlare di serendipity - che, se vogliamo, non è proprio il primo argomento che ti viene in mente leggendo quel libro. Eppure, racconta Gandalf nelle appendici del Signore degli Anelli, lui incontrò per caso Thorin Scudodiquercia all'osteria del Puledro Impennato (o del Cavallino Inalberato, nella nuova traduzione): un incontro casuale, diciamo noi nella Terra di Mezzo - e fu così che, cercando di recuperare il tesoro di Smaug, capitò quasi per caso di ritrovare l'Unico Anello, che nessuno stava cercando perché nemmeno si sapeva che era andato perduto: un vero caso di serendipity, se mai se ne vide uno.
Insomma, non ricordo come mai si parlasse di serendipity ma qualcuna spiegò che era una parola che derivava da questo testo del Cinquecento, e raccontò di come lo avesse letto traendone gran piacere.
Rimasi un po' interdetta, perché mai e poi mai ne avevo sentito parlare, e decisi di cercarlo.

L'edizione qui raffigurata al momento è l'unica in Italia (ma una parte del testo si trova anche in rete). Non è un testo economicissimo (35 euro) ma nemmeno improponibile, così lo comprai e questa estate l'ho letto facendo una interessante serie di scoperte: per esempio che non si trattava, come credevo (non so perché), di una storia bizantina di formazione, ricca di avventure: Bisanzio non c'entra niente, di azione non ce n'è poi molta, ma si tratta invece di un classico della letteratura persiana a sfondo assai filosofico.
Anche la nascita della parola serendipity è assai curiosa. Viene da Serendippo, che è l'antico nome... dello Sri Lanka alias Ceylon. D'accordo, in quegli anni avevamo dei problemi piuttosto seri con la traslitterazione dei nomi arabi, visto che abbiamo trasformato Abū al-Walīd Muhammad ibn Ahmad Ibn Rushd in Averroè, ma partire da Ceylon per arrivare a Serendippo   mi sembra richieda comunque una bella fantasia.
Ad ogni modo, verso la metà del Cinquecento, il signor Cristoforo Armeno, di cui non sappiamo praticamente nulla, tradusse dal persiano questa storia in un periodo di gran caldo in cui non aveva evidentemente voglia di uscire, e poscia la pubblicò a Venezia per i tipi dell'editore Michele Tramezzino nel 1557.
Si tratta quindi di un testo di letteratura italiana, scritto nell'italiano dell'epoca e può darsi che qualche manuale di storia della letteratura italiana ne parli, ma dubito assai che sia citato nemmen di striscio nei manuali scolastici. Eppure dovrebbe, perché ebbe un certo successo e fu attraverso questa traduzione che giunse per la prima volta in Europa la storia de le Sette Principesse, capolavoro indiscusso del celebre (per i persianisti, si capisce) Nezami di Ganjè, poeta persiano del XII secolo; il Pellegrinaggio comunque traduce e riadatta una fonte successiva dove la storia è un po' diversa.
Lo scritto di Cristoforo Armeno, in barba ai manuali scolastici di letteratura italiana, ebbe la sua brava diffusione, tanto che nel 1719 un tal de Mailly lo tradusse in francese. Questa traduzione qualche decennio dopo finì poi nelle mani di Horace Walpole che inventò la parola serendipity - e va riconosciuto che per arrivare a questa parola partendo dallo Sri Lanka il cammino è stato lungo, tanto più che nel Pellegrinaggio di Serendippo si parla solo per dire che era il regno del protagonista, più esattamente del padre dei tre protagonisti.
Di tutto questo l'introduzione di Renzo Bergamini non dice molto, concentrandosi per lo più su complesse questioni editoriali di cui ho smesso ben presto di cercare di venire a capo. Quanto al commento, non è in alcun modo da considerarsi un aiuto alla lettura ma al più un compendio sulla grammatica del Cinquecento, in quanto spiega con grandissima dovizia di dettagli le costruzioni appunto grammaticali e sintattiche del testo - no, non nel senso che le traduce in italiano corrente, ma che dice come si chiamano in grammatichese stretto - una roba, insomma, che al lettore medio interessa men che zero, tanto più che se con l'italiano del Cinquecento ti arrangi non ti serve a nulla se non ad annoiarti in sommo grado, e  se invece l'italiano antico non lo mastichi troppo ti serve ancor meno. 
Siamo d'accordo che la Salerno editrice si rivolge agli addetti ai lavori, ma un po' di inquadramento e di analisi dei topi letterari ricorrenti potevano anche darla, in cambio di 35 euro.

Fatta questa micidiale introduzione storicoculturalstoricobocciofila, passo a raccontare la storia, o meglio le storie.
Infatti si tratta di un racconto a cornice; i tre figli del re di Serendippo hanno la loro storia, nel corso della quale gli viene raccontata una seconda storia che a sua volta contiene sette racconti. La storia della seconda cornice, quella che copre la maggior parte del testo, ruota  intorno a un re malmesso in salute che, su consiglio dei tre saggi figliuoli del re di Serendippo, decide di curarsi con la cromoterapia: ogni giorno in un palazzo di un colore diverso, appositamente fatto costruire per l'occasione, e tutti i servi, il re stesso, la sua famiglia, la bella vergine incaricata di intrattenerlo per quel giorno in lieti conversari e il saggio incaricato di raccontare una storia, (questi ultimi diversi ogni giorno) tutti quanti insomma, vestono nel colore del palazzo, che naturalmente non è scelto a caso ma richiama un metallo, un pianeta, un giorno della settimana... insomma, lo sappiamo tutti come sono costruite queste cornici, ma quand'anche non lo sapessimo questo racconto è lì a spiegarcelo.
Alla fine della cura il re è di nuovo in perfetta forma, rimedia a un errore del passato e i tre giovani serendippini tornano a casa dove li aspettano belle spose (una guadagnata nel corso della vicenda), un padre affettuoso e ricche prospettive per il futuro.
Le sette storie incastonate nella seconda cornice sono belle e assai varie. Per giunta in appendice abbiamo anche l'originale delle Sette Principesse - tradotto in italiano corrente, e quindi molto più facile da leggere, così possiamo studiare le differenze. Già che ci sono, ne anticipo una: nella versione di Cristoforo Armeno, che era cristiano, i re e principi e protagonisti vari sono tutti rigorosamente monogami, nel racconto persiano un po' meno.
Ad ogni modo è divertente sia leggere le storie originali che quelle alterate, perché entrambe hanno tra l'altro il piacevole gusto della novità: al massimo troviamo qualche vago elemento fiabesco di nostra conoscenza, ma si tratta di sette storie decisamente nuove ad occhi occidentali, e anche molto diverse tra loro.
La serendipità si annida comunque nella cornice iniziale, quando si racconta dei tre bravi e virtuosi figli di del re di Serendippo. Il padre li aveva presi da parte, uno per uno, dicendogli che aveva deciso di lasciargli il regno per ritirarsi a vita privata ché era stanco. Il primo risponde virtuosamente "Padre mio che dite, siete ancora assai prestante e baldo, di succedervi se ne parlerò quando morirete ma non c'è nessun motivo di affrettarvi a farlo, tanto più che io sono ancora giovane, inesperto e assai bisognevole di imparare e non saprei certo gestire un regno", mentre il secondo e il terzo oltre a dargli la stessa risposta aggiungono che il trono spetta al fratello maggiore, che tra l'altro è molto più saggio e adatto a regnare di loro.
Molto compiaciuto della saggezza, modestia e virtù dei suoi tre figliuoli, il re di Serendippo si mostra invece assai adirato e li caccia via dal regno. 
Così i tre si avviano, e dopo qualche giorno incappano in un signore che aveva perso il suo cammello. Assai premurosi, i tre giovinetti gli descrivono molto dettagliatamente il suddetto cammello, il suo carico, cosa aveva fatto e dove il signore avrebbe potuto trovarlo: ma siccome la descrizione del cammello e del carico risulta esatta al millimetro ma il cammello non si trova, i tre vengono arrestati per furto.
La storia andrebbe a finire male se non fosse che il cammello, andandosene per i fatti suoi, viene preso, riconosciuto e restituito al suo legittimo proprietario. I tre giovani, una volta liberati, vengono richiesti di come mai avessero potuto indovinare tante cose su quel cammello che non avevano mai visto e passano a spiegare le loro deduzioni - che al lettore occidentale del XXI secolo risuonano talvolta decisamente strane, ma che gli ascoltatori dell'epoca trovano invece assai sennate. Così i tre finiscono a fare i consiglieri del sultano o visir o quel che è del luogo e continuano a fare deduzioni, sempre più strampalate e sempre più confermate dai fatti. Come da una serie di deduzioni basate sulla logica e le credenze del tempo (ma che ricordano molto le tecniche deduttive di Sherlock Holmes, e anche la prima scena del Nome della Rosa, dove Guglielmo da Baskerville descrive mirabilmente un cavallo che non ha mai visto appunto sulla base della cultura dell'epoca - e immagino che Umberto Eco il Pellegrinaggio l'avesse letto) si sia arrivati al concetto di serendipidà proprio non saprei dire, ma insomma è andata così.
Comunque si tratta di una lettura piacevole, insolita e assai acculturata e perciò la consiglio a chiunque per avventura passasse da queste parti.

venerdì 18 settembre 2020

Manuale del Perfetto Insegnante - I Veri Problemi della Scuola

Dice che è pieno di gente che apprezza Cicerone - io comunque non ne conosco nessuno 

In occasione della presente pandemia in tanti avvertono l'inderogabile e assoluta necessità di far luce, una volta per tutte, sui Veri Problemi della Scuola, e su questo scrivono ogni giorno lunghissimi articoli e fan grande sfoggio di eloquenza per radio, in televisione e sui social.
Si tratta però quasi sempre di gente che la scuola la conosce solo per sentito dire e si diverte a friggere e rifriggere la solita lista di luoghi comuni e frasi fatte, dove purtuttavia, in mezzo a strabilianti quantità di ciarpame, frugando e rimestando con cura si riesce a trovare qualche barlume, qualche accenno, qualche seme di un pur minimo valore.
Ma io, che nella scuola ci lavoro da tanti anni, e che dunque la conosco bene, sì, proprio io, passerò ora ad elencare i veri problemi della scuola. Chi meglio di me può conoscerli?
E dunque eccomi pronta ad elencare una picciola lista che contenga i Veri e Reali Problemi della Scuola, primo tra tutti quello di essere composta e frequentata e assediata per ogni dove da una immane quantità di idioti scervellati e del tutto incapaci - non soltanto di capire i Veri Problemi della Scuola, ma incapaci punto e basta.
Mapperpiacere, è talmente chiaro! Se non ci arrivate siete davvero tonti.
Ma per vostra fortuna ci sono qua io, pronta a illuminarvi.

E andiamo ordunque a cominciare dalla desolante condizione degli edifici scolastici.

Edifici vetusti e cadenti, che disonorano un paese dove tutto, al di fuori delle scuole, è pulito, perfetto e scintillante.
Ciarpame, tutto ciarpame da radere al suolo e ricostruire con criteri ben più validi. Ampie vetrate, grandi saloni, parchi fronzuti e dilettevoli giardini dove gli studenti possano intrattenersi in lieti conversari durante gli intervalli; non più mense spartane ma eleganti sale di ristorazione dove gli alunni possano gustare i migliori prodotti della nostra produzione locale, con eleganti menu a base di cibo biologico cucinati con quel tocco creativo che è tipico dei grandi chef. Laboratori aggiornati (tanti, tanti laboratori. I laboratori sono essenziali per ogni materia) dove attrezzature e utensili di nuovissima concezione possano consentir loro di dedicarsi alla ricerca, alla sperimentazione e alla creatività. 

Ma insomma, è mai possibile che laddove tanti studenti nei paesi più poveri si ritengono fortunati ad avere carta e penna e qualche libriccino, i nostri alunni e insegnanti passino il loro tempo a lamentarsi perché non hanno il computer più aggiornato, lo smartphone di ultima generazione, le attrezzature più innovative? Ragazzi abituati ad avere sempre tutto, insegnanti che senza dispositivi informatizzati non san più lavorare perché non hanno più la capacità di parlare ai ragazzi e sanno solo nascondersi dietro a gadget e giochini. 
Cosa vorrebbero, le lezioni pronte e impacchettate? Comoda, quest'idea di accendere un qualsivoglia dispositivo digitale e lasciar fare a quello tutto il lavoro. Il Vero Insegnante sa incantare i suoi alunni anche con un fuscello per scrivere sulla sabbia! Socrate aveva forse i tablet? E verreste forse a dirmi che siccome non li aveva non era un vero insegnante? 
E poi, tutta quell'informatica deforma i cervelli dei ragazzi, che disimparano a pensare. Niente più ragionamento autonomo, solo tanti piccoli zombie abbrancati ai loro dispositivi elettronici, schiavi dei videogiochi, incapaci di lavorare altro che col copia&incolla. Poveri giovani disadattati, ed è tutta colpa nostra.
Davvero, come si può pensare di gestire una scuola senza tablet?
Davvero, come si può concepire una scuola in balìa dei tablet e di tutte quelle diavolerie digitali?

Classi piccole, finalmente! Basta con le classi di 37, 30, 25, 20, 18, 16, 15 allievi. Ecché, le nostre scuole non devono essere batterie per polli d'allevamento! Classi piccole, piccole, piccole. Massimo massimo dodici, meglio dieci alunni, ma forse meglio ancora sarebbero otto. Se avessimo avuto solo classi di otto alunni, il coronavirus non ci avrebbe obbligato a chiudere le scuole nemmeno per mezza giornata!

La scuola è troppo costosa. Troppo personale, prima di tutto. Prima che intervenisse la saggia riforma Gelmini-Tremonti, il rapporto docenti alunni in Italia era tra i più alti del mondo, finalmente adesso è ritornato nella norma, anche se gli insegnanti, ahimé, sono quello che sono e soprattutto fanno ben poco e quel poco lo fan davvero male, schiavi come sono della mentalità tipica degli statali che li spinge a lavorare il meno possibile e attaccarsi al sia pur minimo pretesto medico per restare a casa per settimane e mesi, e pronti ad andare in pensione il prima possibile.
Per la scuola spendiamo davvero troppo poco, abbiamo pochissimi insegnanti e quei pochi sono ignoranti, malformati e incapaci. Dobbiamo avviare un grandioso e rutilante programma di formazione pedagogica, psicologica, informatica e soprattutto dargli una formazione aggiornata nelle materie che insegnano. Basta sanatorie, graduatorie a scorrimento, abilitazioni ancora valide dopo vent'anni!
Sempre sui costi della scuola, abbiamo davvero troppi bidelli. Dopotutto, a cosa servono i bidelli? Chi mai ha sentito la necessità di un bidello, o ha mai visto un bidello fare alcunché di valido per la scuola? Appaltiamo le pulizie a ditte esterne, almeno risparmiamo!

Non ci sono più bidelli, i nostri bambini non sono sorvegliati e di conseguenza finiscono per essere costretti a fare l'intervallo in classe, in barba alla più elementare decenza didattica, ormai ci manca solo di legarli al banco. I bidelli  sono figure importanti per la crescita psicologica dei bambini, ma soprattutto sono utilissimi all'interno della scuola e fanno una vera infinità di cose senza le quali tutto diventa complicato. E poi, 'ste ditte di pulizia con gli appalti risicati all'osso, pieni di lavoratori sottopagati, sfruttati e vessati - e alla fine le scuole sono più sporche di un tempo. Rivogliamo i bidelli!

La scuola non trasmette più i valori. Gli insegnanti, barricati dietro i loro complementi predicativi del soggetto e la loro tavola periodica, abdicano al loro ruolo di Educatori e dimenticano di essere modelli ed esempi per i loro alunni, ignorando che han davanti dei ragazzi vivi, in cerca di una guida che li aiuti ad orizzontarsi in una società in continuo cambiamento e irrimediabilmente immersa in un rozzo materialismo dove l'unica cosa che conta sono i soldi e nessuno pensa più ai sentimenti e al rispetto degli altri. Non è questa l'Italia che i nostri nonni ci han lasciato, quando sono saliti sui monti a fare la Resistenza!

La scuola non trasmette più il Sapere. Gli insegnanti si gingillano con i principi cardine della costituzione, perdon tempo a fare l'educazione all'affettività, trascurano il programma per imbastire continui laboratori sulla tolleranza, il rispetto della diversità, l'apertura all'Altro, la gestione delle emozioni. E alla fine i ragazzi escono da scuola e non sanno niente, han passato gli anni a baloccarsi e a fare giochi di ruolo e si son fatti due palle così con questa lagna della Resistenza, che insomma ormai son passati settantacinque anni, è tutta roba morta e sepolta. E sono sempre a giro, agli Uffizi, all'acquedotto, al laboratorio geologico, al congresso di archeologia, a Malta, al Parlamento, a Bruxelles, in Botswana a fare il gemellaggio, in giro per le strade coi ragazzi del gemellaggio con il Botswana, ma quand'è che studiano? Niente di strano che quando escano dal liceo non sappiano nulla!

Perché sono ignoranti, ammettiamolo. Si vedono cose incredibili, gente che esce dal liceo scientifico e non ha mai manovrato un acceleratore di particelle, gente con diploma di Geometra che è incapace di progettare una centrale termonucleare, gente che esce dall'Informatico e non sa nemmeno fare una rete in 5G. E ogni anno diventano più ignoranti.

Gli insegnanti sono assolutamente inadeguati. Antiquati, polverosi, vecchi decrepiti e incartapecoriti, lavoratori fragili e pronti a cadere al primo stormir di fronda. Tra le loro peggiori colpe c'è il rifiuto di aggiornarsi e il loro disperante deficit digitale, è già un miracolo se rinunciano alla lastra di pietra e allo scalpello e si adattano a usare e far usare carta e penna. 
Insegnanti nemici della tecnologia, che vedono in ogni cellulare un nemico, in ogni computer un demonio e che se gli parti di bluetooth immagino che sia un treno azzurro che fa il segnale.
Insegnanti attaccati come ostriche a regole antiquate. Insegnanti che sciorinano contenuti che erano già superati al tempo dei dinosauri. 
Insegnanti che non fanno più i riassunti, le espressioni, le tabelline. Insegnanti che fanno solo i riassunti, le espressioni, le tabelline. Insegnanti che spiegano troppo o troppo poco, insegnanti che non interrogano mai e insegnanti che non fanno altro che interrogare, insegnanti che vanno troppo veloci, troppo lenti, a velocità troppo costante, a ritmo troppo irregolare. Insegnanti troppo noiosi, insegnanti troppo allegri, insegnanti troppo innovativi, insegnanti troppo materni. Insegnanti troppo giovani, anche. Insegnanti che, in ogni caso, non fanno mai niente se non danni.

Il latino, poi. Ma insomma, è possibile abbandonare così il nostro retaggio e le nostre radici? Si sa, il vero problema di base, la radice di ogni male, è stato abbandonare lo studio del latino alle medie, da allora è stato tutto un decadere. 

Che ne sarò di noi se dimentichiamo le radici del pensiero occidentale? O forse qualcuno pensa sul serio che si possa affrontare il mondo armati solo di un po' di modeste cognizioni su come si configura un cellulare?

La matematica poi è un disastro. Ma è mai possibile una cultura ancora così disperatamente avvinghiata solo e soltanto al mondo delle lettere? Le materie scientifiche sono neglette e trascurate, per forza i nostri ragazzi sono così indietro nelle classifiche internazionali. E come possono trovare un lavoro e farsi una carriera armati solo di un po' di latino?

I nostri ragazzi non sanno più fare un tema. Sissignori, un semplice tema. Fanno analisi del testo, descrizioni oggettive e soggettive, improvvisano testi narrativi ma gli manca la Base dello scrivere: il Tema.

Oh, il Tema: la maledizione della scuola italiana. La disperazione di vederli ancora fare i temi, sul foglio protocollo a colonne, a scrivere paginate su un argomento astratto di cui non gli importa un accidente. Ma è mai possibile, giunti ormai al terzo millennio, perdere ancora tempo col tema?

La verità è che la nostra scuola non è più selettiva ed esigente. Gli alunni escono dal loro lungo (troppo lungo: a cosa serve il quinto anno delle scuole superiori, qualcuno è in grado di spiegarmelo?) percorso di studio senza conoscere altro che minime nozioni. Ahimé, non studiano. E perché mai dovrebbero studiare? Tanto sanno benissimo che, comunque vada, saranno promossi. Com'è noto, è tutta colpa del '68 e del sei politico. I danni sono andati crescendo e ormai stiamo toccando il fondo dell'abisso e siamo circondati per ogni dove da ragazzi impreparatissimi, e per di più assolutamente presuntuosi e convinti di sapere tutto.

La scuola italiana ha un tasso di dispersione scolastica abominevole. Il meccanismo freddo e spietato della selezione lascia troppi ragazzi indietro. Non c'è inclusione se non a parole, e i più deboli vengono abbandonati al loro gramo destino con assoluto menefreghismo. Troppi, troppissimi ragazzi non arrivano nemmeno a prendere il diploma e le nostre percentuali di laureati sono ridicole. L'ascensore sociale è bloccato. La scuola serve ormai solo ai figli di papà.

La colpa, naturalmente, è soprattutto dei genitori. Genitori troppo protettivi, sempre pronti a insorgere in difesa dei loro pargoletti al primo arrivo di una insufficienza, del tutto intolleranti verso qualsiasi anche minima pretesa di vederli collaborare con la scuola, e assolutamente refrattari verso la disciplina. Del resto è noto che anche una semplice nota sul diario o un compito a casa un pelino più impegnativo ormai creano sommosse e tumulti. E purtroppo i presidi li appoggiano sempre, questi genitori sconsiderati che ormai da tempo hanno abdicato al loro ruolo educativo e non sanno imporre il benché minimo paletto, ma anzi si atteggiano a fare gli "amici" dei figli, dimenticando che la funzione dei genitori è tutt'altra.

Genitori freddi, intolleranti, preoccupati solo del voto e di confrontarlo con quello del compagno di banco. Genitori che non vengono nemmeno sfiorati dal pensiero che i loro figli non sono delle macchine per voti, genitori interessati solo allo svolgimento del programma, qualsiasi cosa succeda, sempre pronti a lamentarsi che l'insegnante perde tempo ed è troppo tollerante con gli alunni in presunta difficoltà e non sa invece valorizzare le eccellenze che ha davanti. Genitori schiavi della macchina del successo, dei falsi valori dei nostri tempi, che si interessano solo al voto senza cercare di capire i problemi e le difficoltà della creatura in crescita che hanno in famiglia. Genitori insensibili, egoisti, mai contenti, interessati solo ad avere macchine lussuose, andare dal parrucchiere, stare dietro al lavoro.

E dunque, una volta elencati i problemi - quelli veri, quelli reali - la soluzione si presenta spontaneamente agli occhi di chiunque e non vi è chi non la veda.
Dopotutto, è molto semplice.

lunedì 14 settembre 2020

La preoccupevole e istericissima tregenda della riapertura delle scuole - 4 - Hic Rhodus, hic salta

 



Prima di andare a letto ieri sera, verso le undici, in uno scrupolo in cui albergava una buona parte di nevrosi, sono andata a guardarmi la posta della piattaforma, in questi giorni assai frequentata da mail che dicevano tutto e il contrario di tutto per poi essere rimpiazzate da nuove mail che dicevano tutto e il contrario di tutto su entrate, uscite e intervalli.
Senza grande stupore ho trovato una nuova mail: la prof. Lamponi aveva preparato una presentazione in slide del nuovo regolamento di entrate e uscite e la referente di plesso ci pregava ove ciò fosse possibile, di presentarla ai ragazzi nella prima ora.
"Uff, facciamo che la scarico domani" ho detto in un insolito attacco di buon senso, ricolma comunque di ammirazione per lo zelo della prof. Lamponi nonché per la mirabile dedizione della referente di plesso che alle dieci di Domenica sera era ancora a inviare mail.
Stamani alle sette e tre minuti eccomi lì pronta a scaricare la presentazione prima di uscire.
Sorpresa! Durante la notte la prof. Lamponi aveva corretto alcuni errori e alle sette e due minuti la referente ci aveva mandato la nuova copia corretta.
Sempre più ricolma di ammirazione per la mirabile dedizione delle mie colleghe ho scaricato la nuova versione riveduta e corretta per poi sfrecciare sul mio scooter verso la scuola.

La scuola si presenta abbastanza caotica - non scordiamo che, oltretutto, ci abbiamo pure i lavori di ristrutturazione ancora in corso. Entro dall'ingresso principale, stavolta affollato da alunni mascherati e tutt'altro che distanziati che mi salutano allegramente.
Vengo accolta da custodi mascherati e a me sconosciuti si presentano con bel garbo. In Sala Insegnanti il palletico regna sovrano. 
Dopo attente ricerche ritrovo la mia Borsa da Classe e ci infilo quel che devo infilarci (ad esempio una bacchetta nuova: maio iniziare l'anno scolastico senza una nuova bacchetta).
La Preside è passata a salutarci e ci spiega che quest'anno si sente molto più agitata dell'anno scorso, che pure era il suo primo anno lì. Non possiamo che comprenderla: anche noi ci sentiamo molto più agitati dell'anno scorso e del nostro primo anno e financo del giorno della nostra prima supplenza.
Con assai scarsa sorpresa prendo atto che le mascherine per noi non sono ancora arrivate. Immagino che sia già da considerarsi un miracolo che qualcuno abbia comunque raccattato una piccola fornitura per il folto personale di custodia. Ma, ci assicura Arcuri "le mascherine arriveranno". Aspetto con ansia quel giorno, perché sono sicura che avverrà ad epidemia ormai conclusa.

Raggiungo la mia amata non più Seconda ma Terza Brillante. Saluti, un po' di chiacchiere. Nel complesso sembrano buoni e bravi e rassegnati.
A questo punto ci sarebbe la presentazione da caricare sulla LIM ma...
Accendo il computer. Mi chiede la password, gli do la password... me la risputa dietro.
Dopo attente ricerche scopro un piccolo adesivo che indica 1) la nuova password e 2) che devo entrare come "ospite" e non più come "docente".
Perché ci hanno mandato molte mail, durante queste due settimane, ma sospetto che ancor più siano quelle che non ci hanno mandate. 
Collego la LIM. Cerco il telecomando per accendere la LIM. Non lo trovo. Non lo trovo da nessuna parte. Accendo la LIM manualmente...
Dopo svariati minuti di combattimento all'arma bianca, assistita da incoraggiamenti e consigli da parte dei ragazzi che non possono venire da me per aiutarmi, la LIM parte e dopo numerose insistenze del computer per farmi abbonare, registrare, inizializzare e non so che altro ad uno stupido programma per il quale non nutro alcun interesse, la presentazione parte e viene mostrata, illustrata e commentata.
Siccome è la Terza Brillante, alla fine riesco anche a fare un pochino di riepilogo e di programmazione per i prossimi giorni, e il tutto si chiude con l'intervallo, che quest'anno ha una scansione piuttosto bizantina, di quelle che ti porta inevitabilmente a concludere che c'è una congiura ai tuoi danni per rifilarti il maggior numero di intervalli possibili, chiunque tu sia.

In Prima invece non c'è il computer, e dunque niente presentazione. In compenso prima avevano avuto per due ore l'autrice della presentazione, quindi erano comunque informatissimi. 
I poverini sembrano un po' provati: il primo giorno delle medie è sempre traumatico, ma quest'anno è davvero una esperienza formativa.Così ho ripiegato su un po' di conversazione informale e l'ora è passata piuttosto bene - aiutata naturalmente da un lungo intervallo. 

Concluso dunque il mio insegnantesco dovere riapprodo in Sala Insegnanti dove sistemo un po' di carabattole e cerco invano i due libri di testo delle prime. Mentre sono impegnata nell'infruttuosa ricerca intrasento una conversazione tra la Custode Decana e una collega.
"Via, prof, cerchiamo di essere positivi..."
Inorridisco "No, no, NO! Non dobbiamo cercare di essere positivi, anzi dobbiamo cercare con tutte le nostre forze di essere negativi al massimo!" insorgo.
Finiscono per darmi ragione "Ma possiamo almeno cercare di essere costruttivi?".
"Certamente" concedo "Anzi, ritengo che sia nostro dovere esserlo. Ma sempre da negativi!".
Su questa nota demenziale si chiude per me il primo giorno di scuola.
Voglio essere negativa, sempre negativa, fortissimamente negativa

L'anno scolastico è iniziato, evviva l'anno scolastico.

sabato 12 settembre 2020

La preoccupevole e istericissima tregenda della riapertura della scuola - 3 - Chi schivare non può la propria noja, l'accetti di buon grado

Questa canzone l'hanno cantata proprio tutti, non solo in inglese

ma io da bambina la conoscevo in versione italiana

Un mese fa, dopo abbondanti libagioni e soverchia espositura al caldo sole agostano, qualcuno al governo stabilì che gli insegnanti e personale scolastico vario, prima di rientrare a scuola, avrebbero fatto un test.
Di per sé non sembrava in effetti una pensata così fuor di luogo, e nelle intenzioni avrebbe dovuto contribuire a tranquillizzare chiunque per avventura si ritrovasse a lavorare nella scuola nonché gli alunni e le famiglie dei medesimi. 
MA venne anche stabilito che tale test sarebbe stato volontario - cioè chi voleva lo faceva, chi non voleva non lo faceva. E così già pochi giorni dopo partirono ampie scandalizzatissime crociate contro gli insegnanti che non lo facevano.
Ora, sorvolando sul fatto che fare il test non era poi così facile, che il test suddetto era organizzato su base regionale, che c'erano grandi liste di attesa e che, insomma, testare 835.000 insegnanti più un bel quantitativo di custodi nel giro di poche settimane era un lavoro piuttosto vasto e non certo rapidissimo, in ispecie in un paese che spesso è stato lodato per il suo clima, la bellezza e il fascino dei suoi abitanti, la sua squisita cucina e le sue infinite attrattive turistiche ma ben raramente per la sua organizzazione - resta comunque da dire che un test facoltativo su base volontaria include automaticamente la possibilità che qualcuno non senta alcuna volontà di farlo e perciò si avvalga della facoltà di non farlo.
Insomma, se proprio ci tieni che tutti facciano il test, mettilo obbligatorio e pazienza se i risultati definitivi arriveranno a Novembre, a scuola ampiamente iniziata e nel frattempo avran perso gran parte della loro utilità perché anche chi sarà risultato negativo che più negativo non si può nel frattempo avrà avuto centinaia di occasioni per infettarsi alla grande.
In realtà testare un campionario così vasto della popolazione raccolto in modo assolutamente casuale in una fascia di età dove il virus non era troppo dannoso ma risultava comunque piuttosto presente aveva senz'altro un suo perché e poteva fornire preziosi dati sugli Asintomatici, misteriosa categoria difficile da quantificare perché, non avendo appunto sintomi, se ne sta buona nel suo cantuccio e... contagia? Non contagia? In che misura contagia? La questione è ancora assai misteriosa e quindi meritevole di studio.
Anche spinta da questo motivo, ben consapevole di non avere mai avuto l'ombra di uno dei sintomi del coronavirus dall'inizio dell'anno in poi, sono stata ben lieta di fare un test e curiosa dei risultati.
Al momento, secondo le più recenti notizie, circa mezzo milione di solerti lavoratori della scuola sono andati a farsi cavare sangue e 13.000 di loro hanno così scoperto di essere positivi - e scrivo scoperto perché immagino che se già lo avessero saputo si sarebbero prontamente messi in malattia.
Dunque abbiamo un campionamento casuale che presenta un tasso di 2,6% di asintomatici e gli esperti analizzeranno il tutto come credono meglio, ma ai miei occhi sembra un dato piuttosto confortante: esiste sì l'incognita del bravo cittadino che senza saperlo va in giro infettando, ma sembra una incognita abbastanza contenuta. A occhio, non sembra di doverne dedurre che all'apertura delle scuole andremo tutti al macello come tanti capretti inconsapevoli, insomma - senza contare che partiamo con 13.000 di queste incognite già segnalate e temporaneamente tolte dal mazzo, che mi sembra davvero una bella cosa.
Fino a una settimana fa alle tre del pomeriggio, dunque, anch'io ero innocua per chiunque mi frequentasse. Che lo sia ancora adesso è possibile e anche auspicabile, ma non certo. Ma, dopotutto, cosa c'è di certo in questo mondo così mutevole e ingannevole?

Imperversano poi grandi polemiche sulla misurazione della temperatura - quella interiore degli alunni, in particolare.
La questione è stata aggirata imponendo che ognuno misuri la sua, la mattina: alunni, insegnanti e custodi, ogni mattina alle sette accomunati da questo rito collettivo col loro termometrino sotto braccio in ansiosa attesa del responso.
Anche qui, l'idea non manca di un suo fondo di buon senso: placchi il potenziale ammalato già all'inizio della giornata, lo tieni in casa sua al calduccio e chiami il medico invece di mandarlo in giro ad infettare un gente.
Ci sono tuttavia, come per tutte le cose, i pro, i contro e la gente che non è mai contenta.
Certo, misurare la temperatura all'arrivo a scuola con il termoscanner - oggetto un tempo sconosciutissimo ai più, di cui da qualche mese tutti parliamo con grande dimestichezza e con cui talvolta ci rapportiamo pure - sembrava la cosa più razionale, ma la scuola è, per antiche tradizioni, un posto dove si entra tutti insieme, e un conto è sorvegliare che l'ingresso sia il meno possibile simile alla bolgia appiccicaticcia che è sempre stata e si spera presto possa tornare ad essere, altro conto è fermarli uno per uno per rilevare la temperatura. Se non ti procuri una buona Giratempo, la procedura rischia di rivelarsi piuttosto lunga. Alla media di paese di St. Mary Mead potremmo magari farlo, ma nelle scuole con migliaia di alunni il procedimento potrebbe forse presentare qualche criticità.
Dunque sembra più logico affidarsi all'organizzazione familiare, che in Italia funziona decisamente meglio di quella pubblica - fermo restando che ogni famiglia ci ha il suo termometro e prendere la temperatura in modo esatto è meno facile di quel che si crede; quanto al Termometro Attendibile, due anni di assidua frequentazione degli ospedali mi hanno insegnato che, come l'araba fenice, che ci sia ciascun lo dice ma dove stia non è dato sapere. Il termoscanner, per lo meno, sarebbe stato lo stesso per tutti (forse), ma è certo che misurerebbe la temperatura di chi già da tempo va in giro a piedi, in auto o in pullmino, eventualmente impestando chi gli sta intorno.

Infine, i genitori, una categoria che in questi giorni è senz'altro accomunata da un gran mal di testa ma che comprende al suo interno tante microcategorie - per esempio quella dei genitori convinti che il Covid sia tutta una montatura dei Poteri Forti, nella fattispecie anche del Potere Forte degli insegnanti che preferiscono fare la Didattica a Distanza; ma anche la categoria dei Genitori che non si fidano degli altri genitori perché "sappiamo tutti che i bambini vengono mandati a scuola anche quando stanno male".
È vero, lo sappiamo tutti - io stessa sono stata mandata un paio di volte a scuola anche se non mi sentivo granché. In circostanze normali non è una condotta del tutto irragionevole perché spesso i ragazzi si autocurano, e si dà spesso il caso di creaturine arrivate a scuola male in arnese che alla terza ora scavallano alla grande, come si dà il caso di creature arrivate a scuola in ottima forma che a metà della prima ora vomitano anche l'anima o alla seconda ora chiedono di andare a misurarsi la febbre e hanno 39. Ma è possibile che quest'anno i genitori saranno meno sportivi e più prudenti (in tanti, in questi mesi, abbiamo imparato ad essere  più prudenti) e che i ragazzi si sforzeranno di essere un po' più ipocondriaci.

Nel frattempo il mio spirito polemico verso la ministra Azzolina si è smorzato. È vero che avrebbe dovuto ridurre il numero minimo degli alunni in classe e curare molto di più le procedure di immissione in ruolo, magari cominciando a darsi da fare in tal senso almeno da Aprile invece di inventarsi strani esperimenti di reclutamento quinquennale; e non c'è dubbio che non si tratta di un fulmine di guerra, anche se va pur detto che nel presente governo i fulmini di guerra scarseggiano. Ma va riconosciuto che possiede una certa qual resilienza gommosa che le ha permesso di non perdere troppo le staffe mentre tutti intorno si affollavano dandole la colpa financo dell'effetto serra, e mi sembra assurdo che il suo dicastero si prenda la colpa di quello che è forse un esperimento un po' azzardato, ma abbastanza necessario - e dopotutto va ben considerato che i milioni di alunni che tra due giorni si riverseranno a un rispettoso distanziamento sociale di due metri da noi non escono da sotto una campana di vetro e ormai da quattro mesi vanno in giro per il mondo, forse contagiando, forse venendo contagiati.

L'anno scolastico sta per cominciare.
Armiamoci di Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, e che sia ciò che deve essere.

venerdì 11 settembre 2020

Il regalo del Mandrogno - Pierluigi e Ettore Erizzo


Da bambina vedevo spesso questo libro in libreria. In qualche modo mi incuriosiva, ma non abbastanza da prenderlo in mano per leggere i risvolti di copertina. Anche se lo avessi fatto comunque non ci avrei capito molto.
Tanti e tanti anni dopo lo incrociai in rete, dove i pochissimi che l'avevano letto ne dicevano un gran bene. Che capolavoro ingiustamente conosciuto, che bella lettura, che splendido romanzo storico!
Incuriosita da tante sviolinate l'ho preso in biblioteca, e l'ho letto con gran piacere. Così mi aggiungo al piccolo coretto e anch'io dico che è un gran bel romanzo storico e che è un peccato che sia così sconosciuto.

Che sia proprio sconosciuto non è vero - nella zona di Alessandria, dove è in buona parte ambientato, è piuttosto conosciuto e molto amato. Fuori di lì purtroppo rimane abbastanza ignoto ai più.
Gli autori sono, o meglio erano, due fratelli avvocati di Genova  che gestivano insieme uno studio legale ereditato dal padre. Durante la seconda guerra mondiale si ritrovarono più tempo libero del previsto e decisero di scrivere una saga familiare: Storia indiscreta di una famiglia è il sottotitolo del frontespizio ma non viene mai riportato in copertina. 
Il romanzo uscì nel 1947 con grandi apprezzamenti della critica, ma lo lessero in quattro gatti. Venne però ripubblicato nel 1962, e per qualche anno circolò in libreria, in svariate edizioni rilegate. Non un successo travolgente, ma comunque un successo. Poi le acque della storia si richiusero su di lui, alla fine degli anni Settanta. 
Nel 2002 le edizioni Arabafenice lo ripubblicarono e con un po' di buona volontà non è impossibile comprarlo, anche in versione liquida. E poi ci sono le biblioteche,  e chi volesse provare a leggerlo non si troverebbe costretto ad attese interminabili perché è il classico libro che viene richiesto una volta ogni qualche anno.

La struttura è abbastanza insolita. C'è una cornice contemporanea (contemporanea o quasi del tempo in cui fu scritto, certo). Diciamo che la cornice si svolge tra 1930 e 1931 ma il libro, scritto una quindicina di anni dopo, offre anche qualche scorcio di quel che succede dopo. Erano gli anni del ventennio, ma al fascismo o al governo fascista non si accenna se non con lievissimi richiami legati all'italianizzazione dei nomi.
Trama della cornice: i due fratelli protagonisti, professionisti abbastanza affermati ma della cui vita non sappiamo quasi niente - diciamo due narratori trasparenti ma informati di una parte dei fatti, e sono narratori simpatici, garbatamente ironici ma che all'occorrenza sanno tirarsi da parte - si ritrovano esecutori testamentari di un prozio che muore all'inizio del romanzo lasciando un patrimonio, piccolo ma di una sua consistenza.
Al contrario dei narratori lo zio era una vera palla d'uomo: di lui vien detto che non aveva sperperato le sue forze, per poi correggere il tiro: rinchiuso nel suo sacro egoismo non aveva mai fatto nulla nella sua lunghissima esistenza. Non solo nel senso che non aveva concluso nulla, ma anche che si era sempre rigorosamente astenuto da qualsiasi attività grande o piccola.
Naturalmente, per quanto uno possa non far niente, il tempo è d'uopo passarlo in qualche modo, ed evidentemente nel suo molto tempo libero costui si era dedicato ai documenti di famiglia finendo per trarne una serie di conclusioni.
Così un bel giorno, molto tempo prima di morire, aveva fatto testamento; ed era un testamento decisamente strano dove, a parte la legittima per i quattro figli, il piccolo patrimonio era diviso tra quattro diverse persone, tre delle quali in apparenza non c'entravano niente con la sua famiglia, sostenendo il testatore di aver agito a favore di quanti conservino in sé, sia pure per vie ascose, la miglior linfa della imporrita pianta della famiglia - insomma, par di capire, lasciando quel che poteva a discendenti illegittimi.
Peccato che i quattro destinatari non abbiano alcuna possibilità di essere figli illegittimi del pigrissimo testatore (che del resto non sembrava essere mai stato uomo granché propenso alle avventure né a passioni di alcun tipo, clandestine o meno che fossero).
Piuttosto incuriositi i due esecutori testamentari cominciano a indagare anche loro tra le carte di famiglia e scoprono un bel po' di cose. Ne vengono fuori tre romanzi molto diversi tra loro e rinchiusi all'interno della cornice.
Il primo, Il romanzo di Rosina, descrive l'arrivo di un ufficiale francese ferito (e proprio lui viene presentato senza infingimenti come il regalo del Mandrogno) durante la battaglia di Marengo, combattuta non troppo lontano dalla villa padronale della non troppo illustre ma assai benestante famiglia dei Montecucco. L'ufficiale, che nella battaglia avrebbe in realtà svolto un ruolo importante, per quanto misconosciuto, verrà amorevolmente (è il caso di dirlo) curato dalla signora della villa, seguendo la corrente di storiografia sotterranea che vuole che i francesi, col loro arrivo in Italia, abbiano importato nuove idee, nuovi fermenti e... diciamo nuova linfa che ha risvegliato l'italico popolo che se ne stava un po' sonnacchioso (cfr. l'inizio della Certosa di Parma, ma se ne parla anche nella letteratura italiana dell'epoca).
Il secondo è Il romanzo del Canonico, diviso in due parti, che racconta la storia di uno dei discendenti della famiglia Montecucco: nella prima parte un ragazzo vivace e pieno di vita, carbonaro nell'anima e di carattere assai passionale; nella seconda un Canonico di grande intelligenza e successo mondano e culturale, ma di carattere più spento e intristito, per quanto assai virtuoso ed edificante. 
Ma la vita va avanti e, alla fine dell'Ottocento, arriva Il romanzo di Paoletta, una storia che solo degli avvocati avrebbero potuto descrivere così bene, che va avanti a colpi di sentenze, giudizi, cavilli legali sul tema di un matrimonio non consumato che tuttavia ha prodotto un figlio. Scopriamo così un sacco di cose sul diritto di famiglia dell'Italia postunitaria e diamo ragione a Paoletta quando dice che la sua è una storia figlia dell'Ottocento, e già una decina di anni dopo si sarebbe probabilmente svolta in modo assai diversa perché non tanto le leggi, quanto la mentalità nel frattempo era assai cambiata.
(Il figlio del matrimonio fantasma comunque muore senza lasciare discendenti... legittimi. Ma è morto a 36 anni e aveva un carattere piuttosto vivace, quindi riesce difficile non immaginare che un piccolo Montecucco in incognito, o anche più di uno, viva da qualche parte anche se gli autori non ne fanno cenno. E invero ci sono diverse cose cui gli autori non fanno cenno e altre cui fan cenno limitandosi a rilevare alcune specifiche caratteristiche di alcuni dei protagonisti, prima fra tutte un particolare colore di capelli).
E veniamo al titolo: cosa sarebbe questo regalo del Mandrogno? E, prima ancora: chi diamine è il Mandrogno?
No, non è un nome proprio, come Adalberto. "Il regalo di Adalberto", e ci immaginiamo Adalberto che arriva con un pacchetto e lo dà in mano a qualcuno dicendo "Cento di questi giorni" o frase analoga.
Mandrogno non è un nome proprio. È una attribuzione geografica, come dire "il regalo del Fiorentino".
E deriva da un paesello vicino ad Alessandria, Mandrogne, i cui abitanti rappresentano una specie di isola genetica: alti e belli, capelli bruni e naso aquilino, vagamente... tzigani, baschi, saraceni?
Ma secondo uno dei protagonisti della storia, l'avvocato Cadeo, la storia è diversa:
Non credo che i Mandrogni derivino da una penetrazione straniera: io sono convinto che essi rappresentano un avanzo purissimo della razza primogenita dei Liguri preromani che occupavano l'alta Italia, dal mare sino alle pendici delle Alpi (...). Questi, nel loro attuale dialetto, conservano intatta la caratteristica parola dei loro padri, così come ne conservano intatti i caratteri somatici: il colorito bruno, i capelli neri, il viso angoloso, il corpo esile e asciutto; tratti che l'Issel attribuisce agli antichi Liguri (...). E quando essi passano al trotto (...) in piedi a gambe larghe sulle loro carrette, mostrano, pur a traverso la loro attuale povertà, le non distrutte tracce di una nobiltà atavica: è la incorrotta fierezza dei Padani preistorici, che si chiamano Marici perché discendenti da quel Mares, che la leggenda afferma essere stato il primo abitatore d'Italia, mezzo uomo e mezzo cavallo...
Un popolo magico, dunque, che si è conservato una piccola enclave nel mondo moderno. I Mandrogni del romanzo vivono di piccolo commercio e trattano affari non sempre limpidissimi, padroni di un piccolo territorio in cui dettano le regole e dove la Legge e l'Ordine sono tenuti a debita distanza. Poveri? Mah, certo non particolarmente ricchi, ma in pratica fan quel che vogliono, che a ben guardare è una forma di ricchezza. 
Il capostipite della famiglia Montecucco, uomo di un certo genio e soprattutto capace di trarre fuori opportunità anche nelle circostanze più strampalate, aveva avuto molto a che fare con loro e i Mandrogni avevano preso a benvolere la sua famiglia, tanto che uno di loro offrì appunto alla famiglia un regalo, sotto forma di  ufficiale francese ferito.
Nel corso della storia i Mandrogni interverranno più volte, per esempio offrendo rifugio agli innamorati clandestini, oppure aiutando certi personaggi a districarsi da situazioni complicate o a giocare scherzi alle autorità costituite. Di sicuro, in quasi 600 pagine di fitta scrittura (ma a seconda dell'edizione possono essere più di 800) nessun Mandrogno appare solo per fare scena: intervengono sempre con una funzione precisa di cui sono perfettamente consapevoli e orientando sempre la storia in favore del ramo, diciamo bastardo, della famiglia.
Abbiamo dunque un romanzo storico costruito con finissima cura, e che all'occorrenza si occupa anche di riempire qualche vuoto delle cronache. Anzi i narratori arrivano a sostenere la tesi che proprio l'assenza di menzioni del loro trisavolo francese negli annali della battaglia di Marengo dimostri l'importanza del ruolo da lui avuto nello svolgimento di detta battaglia, trovando così la soluzione al mistero della battaglia di Marengo, che sarebbe stata una sconfitta per Napoleone se all'ultimo momento utile non fossero arrivati dei rinforzi casualmente appunto chiamati in causa dallo sconosciutissimo ufficiale francese: ci sembra proprio di non dover avere eccessivi rimorsi se ci permettiamo di pensare che il suo nome  non sia passato alla storia soltanto perché rimasto sepolto centotrentun anno nella soffitta del Cucco proclamano alla fine di una serrata disamina dove comparano tutte le varie spiegazioni proposte dagli storici sull'arrivo degli imprevisti rinforzi.
C'è poi una avvincente saga familiare, con una pregevolissima galleria di personaggi di tutti i tipi che si snoda su tre generazioni ed è ricostruita dalla quarta (l'albero genealogico presentato prima dell'inizio del libro è davvero utile, oltre che assai affascinante per quel che dice e soprattutto per tutto quello che non dice) più un interessante studio genetico, di quelli che andavano tanto di moda ai tempi della letteratura naturalista.
Abbiamo poi un esercizio letterario piuttosto interessante: la cornice è narrata con una distaccata ironia, molto tipica di quando descriviamo la nostra amatissima e a volte assolutamente insopportabile famiglia, mentre i tre romanzi sono scritti con tre stili diversi (anzi quattro, perché il romanzo del Canonico è diviso in due parti con un intermezzo) e tipici anche per trama dell'epoca in cui si svolgono; in omaggio col pacchetto, anche un tocco magico-determinista che ci sta d'incanto. Il tutto con uno stile e una costruzione che non ha nulla a che vedere con la letteratura contemporanea dell'epoca in cui fu scritto (ai miei occhi è un grandissimo pregio, perché quasi tutta la letteratura italiana del Novecento mi fa venire l'orticaria; e ne ho letta poca ma spelluzzicata parecchia).

Lettura adatta a tutte le stagioni. Nonostante la mole il romanzo è molto scorrevole, ma non è il tipo di libro che si presta a una lettura di poche pagine al giorno perché tiene assai avvinti ed è quel tipo di libro che si è felici di ritrovare la sera e per il quale si rinuncia agli impegni mondani spiegando che abbiamo il mal di testa. Anche se ci sono molti avvenimenti drammatici lascia un buon retrogusto e una particolare vitalità, e dispiace quando finisce.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma, che dopo la pausa estiva continua a latitare, e auguro buone letture a chiunque passi da queste parti.

martedì 8 settembre 2020

Diario dell'entropia - La grandissima tragedia delle (mie) mascherine

 

I preparativi fervono ma la situazione è decisamente confusa: ogni sera andiamo a letto convinti di avere una determinata tabella di impegni, per poi svegliarci la mattina dopo, aprire la posta e scoprire che tutti gli orari sono cambiati. Al momento dispero di riuscire a compilare il mio modello 730 ma sono pur sempre riuscita a fare il test e ad adempiere a un paio di impegni personali piuttosto importanti. Basta arrangiarsi, e sgusciare tra le caselle degli inviti su Google Meet e i relativi annullamenti.
In mezzo a tutto ciò è spuntato dal nulla l'invito a un corso sulla sicurezza di lì a poche ore, e tutti siamo accorsi con premura, affamati di rassicurazioni e di certezze.
Quanto a me, ne ho ricavato soprattutto una tragica certezza: le mie amate mascherine a gatti, comperate già a Giugno con la segreta speranza di non doverle usare perché la situazione ci avrebbe consentito un sereno vis-a-vis con i nostri amati allievi, non sono autorizzate.
O meglio: i ragazzi potranno indossare qualsiasi cosa si avvicini anche vagamente ad una mascherina nel più totale rispetto delle leggi di dio e degli uomini, ma gli insegnanti sono vincolati alle mascherine chirurgiche.
Ma se indosso le mascherine di stoffa sopra quelle chirurgiche sono a posto, vero? ho chiesto fiduciosa.
No, le mascherine di stoffa potevano risultare veicolo di infezione e quindi dovevamo indossare solo e soltanto quelle chirurgiche.

E va bene, mi piegherò alla dura legge: mai e poi mai vorrei rischiare di infettare i miei amati alunni. 
Però soffro.
Soffro molto.

Unica, pallida consolazione: le mascherine chirurgiche sono celesti-azzurre. E dunque si intonano a quasi tutto il mio guardaroba. Potrò sfoggiarle tutto l'anno in raffinati accostamenti di colori.

mercoledì 2 settembre 2020

Vegliate, perché non sapete né il giorno né l'ora (e nemmeno se dovreste esserci)

 

(questo è un gatto di Schrödinger in versione letterata, quindi adatto a me)

È noto urbi et orbi che questo avvio di anno scolastico sarà complicato. Per la scuola media di St. Mary Mead sarà vieppiù complicato perché i lavori per il leggendario cappotto antisismico sono tuttora in corso e corre voce che l'edificio sia pieno di impalcature e di strani tipi che fanno strane cose.
Tuttavia sul piano della sicurezza sanitaria non siamo messi male: abbiamo adeguato numero di aule per tenere gli alunni ad adeguata distanza e un regolamento piuttosto chiaro su tutto quel che si deve fare, quando e come, nonché l'aula Covid e il referente Covid.
MA abbiamo anche un certo numero di incognite. Non tanto per i professori - sì, qualcuno manca, ma sono gli stessi che mancano sempre a ogni inizio dell'anno perché nessuno si degna di mettere a ruolo le cattedre. Arriveranno, si spera in tempi brevi.
Tuttavia, anche se nel collegio docenti c'era la voce "Assegnazione delle classi" le cattedre di Lettere non sono ancora state formate. Di conseguenza non sono stati formati i Consigli di Classe, che per ulteriore conseguenza non sono ancora stati convocati se non con generico "I Consigli di Classe sono convocati per il 3 o per il 7 Settembre" (ma per il 3 la vedo dura, visto che viene chiesto di pubblicare il calendario non prima del pomeriggio del 3). Per tutto il resto c'è una gran serie di punti interrogativi.
Viviamo dunque come tra color che son sospesi, impossibilitati però a fissarci una gitarella di due giorni in settimana. 
Oggi però sono sicuramente libera, e dunque invece di lavorare duramente per guadagnarmi lo stipendio che lo Stato mi versa puntualmente ogni mese, dedicherò questa giornata ad attività puramente ludiche e ricreative, prima tra tutte un gustoso pranzetto giapponese.


Buona giornata a tutti, e qualora abbiate avuto in sorte un dirigente che sappia ben organizzare, ricordatevi di onorarlo degnamente.