Il mio blog preferito

venerdì 28 agosto 2015

Il paese delle nevi - Yasunari Kawabata



Scritto nel 1934 e completato nel 1947, questo romanzo fruttò al suo autore il Premio Nobel nel 1968. Quando Einaudi lo pubblicò, nel 1959, preferì tradurre la traduzione inglese piuttosto che rifarsi all'originale giapponese - una pratica che oggi appare piuttosto balorda ma che all'epoca non era insolita. Sembra che la traduzione fatta più di recente dal giapponese per i Meridiani sia molto migliore. Questa edizione però ha una copertina assolutamente perfetta.
Ne hanno anche tratto a suo tempo un film, mai arrivato da noi a quel che mi risulta. Ma posso postarne una foto grazie a Eva, che per le foto sembra una miniera inesauribile:



E' un romanzo estremamente giapponese, con raffinatissime descrizioni di paesaggi, intense riflessioni sui colori e una storia che all'apparenza non va da nessuna parte. C'è chi ci si è annoiato a morte, chi è rimasto stordito dalla bellezza delle immagini, chi non è sicuro di averci capito granché, chi lo adora.
Personalmente non rientro in nessuna delle quattro categorie: non ci sono impazzita ma mi è piaciuto parecchio. E l'ho trovato crudele, di una crudeltà sottile e molto raffinata ma non compiaciuta.

Il romanzo si apre con un pezzo di bravura: Shimamura, il protagonista, è in viaggio in treno verso il paese delle nevi. Davanti a lui, nello scompartimento, una ragazza assiste amorevolmente un uomo  molto malato (sapremo poi che è il suo fidanzato). Shimamura segue la scena con attenzione ma la guarda attraverso il riflesso del vetro del finestrino. Per non compromettersi, certo. Per non sembrare indiscreto. Per non farsi coinvolgere e non attaccare discorso con quei due. E soprattutto perché, tra un riflesso e l'evento reale, Shimamura sceglierà sempre il riflesso. Il lettore è avvisato - in modo assai raffinato, va detto.

Al paese delle nevi Shimamura va per ritrovare Komoko, la geisha con cui ha... non proprio allacciato una relazione, piuttosto avviato un rapporto preferenziale e non dei più chiari. Diciamo che, nella sua prima visita, i due sono rimasti a mezzo.

Il paese delle nevi è un paese del nord, ai piedi delle montagne e in mezzo ai boschi. Fa freddo, d'inverno c'è molta neve e in tutte le stagioni vanta dei bellissimi paesaggi, nonché delle sorgenti termali. E' provincia allo stato puro ma, come tutti i paesi della zona, è molto frequentato da turisti che vengono per le terme, per sciare (quando c'è la neve), per ammirare gli aceri rossi (in autunno)* eccetera eccetera; insomma, un paese ricco di alberghi, impianti sportivi e servizi per i turisti - geishe, per esempio, per intrattenerli la sera.

Le geishe di un paesello del nord naturalmente non sono scafate e regolamentate come quelle delle grandi città: hanno un rapporto diverso con la comunità, che in un certo senso le adotta, e godono di maggiore libertà - per esempio è la geisha che decide se restare anche la notte, e se la casa cui appartiene l'ha autorizzata le eventuali conseguenze (gravidanza o malattie) ricadono sulla casa, se la casa non l'ha autorizzata le conseguenze ricadono su di lei - ma, casa o non casa, se la geisha non vuol restare non resta.
Ne consegue che la geisha può anche allacciare un rapporto preferenziale, se e quando crede, per suo esclusivo capriccio; così Komoko avvia una relazione con Shimamura, di sua libera volontà ma senza alcun tipo di protezione o garanzia. E' una scelta dettata dal cuore - come perfino Shimamura capisce; quello che non capisce è che per Komoko una decisione del genere non sarà comunque senza conseguenze sulla sua vita professionale: tutto il paese sa che stanno insieme, come tutto il paese sa che a volte Komoko  abbandona le feste per andare a trovare il suo amico forestiero. Dopo l'ultima partenza di Shimamura la ragazza dovrà ricostruirsi una credibilità professionale o lasciare il paese per ricominciare altrove, come è stata costretta a fare un altra geisha, che intravediamo soltanto al momento della partenza e che ha prestato troppo ascolto alle lusinghe dell'amore finendo per ritrovarsi in una situazione insostenibile.
Komoko non è nuova a questo tipo di scelte: anche se nega con Shimamura, a suo tempo si legò con un contratto da geisha (prima era solo una danzatrice e musicista) per pagare le cure al figlio della sua maestra di musica - ovvero l'uomo che Shimamura ha incontrato in treno e che è tornato nel suo paese per morire. L'uomo però si era fidanzato con un altra, ovvero la ragazza che lo assisteva in treno, e che è geisha anche lei.
Shimamura vede e sente tutte queste storie e le trova anche interessanti, ma non gli presta mai molta attenzione. Per lui Komoko è un piacevole e affascinante enigma che non si sforza troppo di decifrare, e non riesce a capire perché la ragazza si offende a morte quando lui la definisce "buona".
Già, chissà perché?

Shimamura è il protagonista, e seguiamo la storia attraverso le sue sensazioni - non parlerò di sentimenti perché non sembra averne di molto appariscenti, a parte una notevole sensibilità cromatica e un generico senso di compassione per il mondo intorno a lui. E' un ricco cittadino che vive di rendita, col denaro che ha ereditato, e ha una cultura profonda e assai raffinata - è probabilmente quest'ultimo tratto ad attrarre Komoko (che è una ragazza di grande sensibilità anche se in parte limitata dall'educazione un po' rustica che ha ricevuto) oltre all'aura esotica e cittadina  che quel visitatore occasionale si porta dietro e il piacere di un romance fine a sé stesso che colori la sua faticosa vita di geisha, costellata di lunghe ore di esercizi musicali e ancor più lunghe ore di preparativi per il lavoro.

A pagina 75 di un romanzo di 145 pagine veniamo a conoscenza del fatto che Shimamura ha una moglie (che al momento della partenza lo ha avvisato di non tenere i vestiti fuori perché è la stagione delle tarme, ed è l'unica comparsa che quella signora fa nella storia). Venti pagine dopo siamo informati anche dell'esistenza di due figli. No, niente nomi, né per la moglie né per i figli.
Shimamura è un appassionato di danza, quella classica, sulle punte. La danza classica occidentale, insomma. Vive questa passione attraverso molti filtri e paraventi, perché non va né a teatro a vedere gli spettacoli di danza occidentale fatti dai giapponesi (non sarebbe filologico!) né in Europa a vedere gli originali. In pratica, conosce il nostro balletto classico attraverso qualche foto e qualche articolo. Sta preparando una monografia sulla danza classica occidentale, che pubblicherà in edizione di lusso a sue spese giusto per gratificarsi un po'. Sappiamo anche che ha una grande passione per la tela Chijimi, un delicatissimo e freschissimo tessuto di lino che veniva prodotto nel XIX secolo proprio in quella  zona, nella cui lavorazione la neve aveva una gran parte e che richiedeva un lunghissimo e pazientissimo lavoro delle ragazze del luogo, tanto lungo e paziente che, nonostante la richiesta, la lavorazione era stata infine abbandonata in quanto troppo dispendiosa perché qualcuno potesse permettersi di assumere delle lavoranti.
La neve, il bianco, la purezza della neve, dell'aria fredda, della luce che illumina quelle valli, del suono dello shamisen nell'aria fredda e luminosa che precede la stagione delle nevi in quelle valli, sembrano colpire Shimamura molto più degli esseri viventi che lo circondano, geishe o tarme che siano. Intorno a lui le creature vivono, amano, soffrono, si riproducono e muoiono. Lui coltiva la sua raffinata e delicata sensibilità, senza mai negare una fuggevole compassione a nessuno, Komoko compresa, ma senza nemmeno farsi coinvolgere più di tanto.
Il romanzo si chiude su un evento che lui non capisce (e quando mai Shimamaru ha capito qualcosa di chi gli stava intorno?); ma c'è la Via Lattea, che in quella fredda notte d'inverno è tanto bella, e presto lui tornerà a casa...

Come tutti i romanzi giapponesi è molto denso di particolari che si innestano nella trama in modo assai complesso, e non conviene leggerlo tutto di seguito perché richiede una certa concentrazione. Se davvero valga la pena leggerlo è domanda a cui solo il singolo lettore può rispondere. Certamente non lo sconsiglio, ma non mi sembra che sia per tutti. A me comunque è piaciuto molto.


Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro buone letture (non necessariamente raffinatissime) a tutti.


*i giapponesi amano questo tipo di pellegrinaggi vegetali. In un altro post ho raccontato di come fanno viaggi, per esempio, anche all'epoca della fioritura dei ciliegi.

lunedì 24 agosto 2015

I miei insegnanti - La prof. Picchia



La prof. Picchia arrivò in seconda liceo, ovvero quando la prof. Della Gherardesca ci venne tolta per colpa di una riduzione delle cattedre. Prese il nome da una pettinatura col ciuffo decisamente insolita che la rendeva assai simile allo struzzo noto in Italia come BeepBeep - e sono perfettamente consapevole che uno struzzo non è un picchio, né ricordo i vari e demenziali passaggi per cui arrivammo a partorire sì balordo soprannome, comunque per noi fu sempre la prof. Picchia.
Venne con incarico annuale, e l'anno prima aveva insegnato al liceo della Querce, leggendaria e carissima scuola privata di gran prestigio, assai frequentata da quel particolare strato sociale del Vorrei-Tanto-Essere-la-Firenze-Bene;  e si racconta che in quella scuola gli insegnanti venissero pagati più che alla scuola statale. Posso solo aggiungere come commento che alle scuole private gli insegnanti se li sceglievano (a quei tempi senza nemmeno l'obbligo dell'abilitazione) mentre alla pubblica venivano scelti in base al punteggio da una graduatoria e sulla scelta la scuola non poteva intervenire. Insomma da noi arrivò per colpa della nostra ria sorte, mentre alla leggendaria scuola privata se l'erano scelta. Mah?

Il giorno che arrivò io non c'ero, e dovetti contentarmi dei racconti delle compagne.
"E' una zittella" sintetizzò Sary.
"Ma che c'entra, anche la Della Gherardesca non è sposata!" insorsi io.
"La Della Gherardesca non è sposata, lei è una zittella".
Aveva ragione. In tutta la mia vita non ho mai visto alcuna essera umana che cercasse con tanta cura e tanto successo di uniformarsi sin nei minimi particolari al cliché della zittella inacidita. Da notare che era poco sopra la trentina.
Vestiva in modo bigio e assai punitivo, si truccava poco ma certo non in modo da valorizzarsi e sembrava arrivata da un altro pianeta (l'altro soprannome infatti era "Atlas Ufo Robot"). Ed era la persona più priva di senso dell'umorismo o di capacità dialettica in cui abbia mai avuto il piacere di imbattermi.

Il suo metodo di insegnamento era decisamente curioso.
Spiegava. Una, due, tre ore - insomma, il tempo richiesto dall'argomento. Più esattamente dettava appunti che sembravano mandati a memoria. Stava in piedi a spiegare e si aveva l'impressione di vederle uscire dalla bocca un nastro perforato con le parole.
Non potevamo interrompere per fare domande o considerazioni o paragoni. Chi ci provò venne richiesto con garbo di aspettare dopo la fine della spiegazione. Così ci astenemmo da ogni pur minimo tentativo di intervenire nella lezione e prendemmo tanti, tanti appunti.
Ma se c'era qualcosa che non avevamo capito, come li prendevamo gli appunti? Qualcuno in seguito si lamentò che alla fine delle spiegazioni si ritrovava degli appunti che sembravano un groviera*, e che riempire i buchi non era poi così semplice.
Io non avevo particolari buchi negli appunti e tenevo abbastanza bene il ritmo, ma mi annoiavo: erano delle spiegazioni di una noia micidiale. A tutt'oggi mi domando se Cicerone e Orazio (che non ho mai minimamente apprezzato) mi sarebbero sembrati così disperatamente vuoti se me li avesse spiegati qualcun altro.
La Picchia spiegava gli autori: la vita, il pensiero, il meccanismo con cui scrivevano, le loro teorie. Non c'era l'ombra di una interpretazione critica, adesso che ci ripenso. Mai un dubbio, un incertezza, una zona d'ombra, una questione discussa, qualcosa che ammettesse più di una interpretazione, uno straccio di evoluzione nel pensiero - e ripensandoci, la situazione doveva essere davvero di una piattezza mortale se perfino io sentivo la mancanza di un po' di interpretazione critica.
Che poi in un anno quella donna non può certo essersi limitata a fare Cicerone, Orazio ed Epicuro; Io però ricordo solo questi tre e delle spiegazioni interminabili e soporifere.

Faceva le interrogazioni programmate - estremamente programmate, pianificate con almeno un mese di anticipo e accuratamente segnate sul registro di classe. Poniamo, Murasaki  sarebbe stata interrogata il 23 Febbraio su Cicerone e Cesare e Sary il 2 Marzo  sulla prima e seconda ode del primo libro di Orazio. In quel territorio piccolo e ben delimitato ci si aspettava che Murasaki sapesse tutto quel che le era stato detto, fino all'ultima virgola, ma in compenso Murasaki era sicura che mai e poi mai le sarebbe stata rivolta una domanda su altri argomenti. Per contro non erano graditi ampliamenti, considerazioni, riferimenti ad altri testi non fatti in classe eccetera. Insomma, era come andare a nuotare nella piscina per bambini con la ciambella e i braccioli: non c'erano rischi e l'unico modo per non prendere un voto almeno decoroso era non aprire il libro o il quaderno degli appunti.
Studiammo il resto del programma, quello che non era compreso nelle nostre singole interrogazioni programmate? 
Assolutamente no (salvo forse il gruppetto dei bravissimi): c'erano tanti altri modi più interessanti per passare il tempo - al limite, anche studiare le altre materie.
Ovviamente per quelle interrogazioni studiavamo tutti con molta cura e mandavamo a memoria quanto ci era richiesto, annoiandoci con dignità. Si instaurò anzi la tradizione di fare forca il giorno prima dell'interrogazione programmata onde andare alla Biblioteca Marucelliana vicino al liceo per ripassare con gran cura. 
Fu così che riuscii perfino a prendersi 7/8 a un interrogazione di greco (!) il che mi convinse definitivamente che quel metodo era del tutto balordo perché il mio greco era del tutto inferiore al sette (arrancando a vista, nei momenti migliori, nella zona intorno al sei) e quanto all'otto non era nemmeno da prendere in considerazione riferendosi a me.
Certo, in quel modo si evitavano polemiche e reclami. Ma, per quanto ricordo, in tanti negli anni precedenti avevamo incassato i nostri bravi quattro e cinque (e qualcuno aveva visto anche dei meritatissimi tre) senza reclami né da parte nostra né dalle famiglie.  
Forse alla Querce le cose andavano diversamente? Sinceramente non lo so.
Anche i compiti scritti andavano in modo abbastanza curioso - per me, sempre in greco, arrivò anzi un misteriosissimo sette e mezzo. No, non avevo copiato. Assolutamente. Non so cos'era successo. Escludo però di avere fatto una traduzione da sette e mezzo: non ne ero materialmente capace. In latino sarebbe magari stato possibile, ma in greco no (in latino però i voti rimasero misteriosamente appiattiti intorno al sei e mezzo).
In quelle versioni erano segnati stranissimi errori, per esempio non si doveva scrivere che i romani combattevano con i Cartaginesi, bensì contro i Cartaginesi, casomai qualcuno pensasse che i Romani, improvvisamente impazziti, si fossero alleati contro i loro tradizionali nemici per combattere contro il nulla. 
Forse il mio italiano impeccabile mi fu di aiuto? Oppure per qualche strano motivo agli occhi della Picchia facevo parte d'ufficio del gruppo dei piùchesufficienti? Mi colpì però il fatto che la fanciulla del banco davanti al mio prendesse sempre cinque/cinque e mezzo, laddove in precedenza aveva un range non brillantissimo, ma che oscillava tra il cinque e mezzo e il sei e mezzo.
Il fatto che io prendessi sette e mezzo a greco scritto non era l'unica stranezza di quei voti, alquanto frazionati. Rimasero famosi il sette meno meno meno, l'otto meno ma qualcosa di più e il leggendario tra il sette/otto e l'otto meno. Farne la media doveva essere un esperienza affascinante sul piano aritmetico.
Ecco, l'unico lato positivo di quella donna come insegnante era la quantità di aneddoti che ci fornì, uno più strampalato dell'altro. Il rapporto umano, certo, era inconsistente (difficile avere un rapporto emotivamente caldo con chi ti considera più o meno alla stregua di un juke-box dove metti la monetina ed esce la canzone che hai scelto) ma per farne caricature, imitazioni e prese di giro varie era eccellente, e nessuno di noi ne aveva paura.
Come ho già detto, era a incarico annuale e a Giugno sparì. 
Nessuno la rimpianse.

*in realtà il groviera non ha buchi, ma in italiano l'uso comune è di considerarlo, appunto, un formaggio con i buchi. 

lunedì 17 agosto 2015

17 Agosto 2015 - Giornata della Valorizzazione del Gatto Nero (con tre guest star)


Tutti i gatti hanno qualcosa di speciale, ma da sempre il gatto nero ha qualcosa di più speciale degli altri e viene spesso collegato a quella magia che tutti, assolutamente tutti i gatti si portano dentro.
Chi capisce qualcosa della vita associa il gatto nero alla notte, alla libertà, all'indipendenza e anche a un certo spirito rivoluzionario.
Chi capisce qualcosa dei gatti lo associa alla meditazione, alla luna, a un certo affascinante mistero e agli sfondi azzurri.

Di certo è quello che viene meglio nei disegni in bianco e nero e nei cartoni animati: quando si muove è una sagoma con gli occhi, quando è in riposo è una ciambella nera con gli occhi, quando dorme spesso è solo un cerchio nero che fa le fusa  e si fatica a riconoscere dove finisce la zampa e comincia la coda: perché il gatto nero ha la singolare dote di confondersi e mescolarsi con sé stesso e con le ombre che lo circondano.

Per questo privilegio estetico ha talvolta pagato e talvolta paga ancora, persino con la vita, in base a motivazioni e pretesti talmente campati in aria che, più che di superstizione, si potrebbe tranquillamente parlare di invidia.
In questa felice giornata è giusto omaggiare e valorizzare i gatti neri - belli, affascinanti e affettuosi come solo i gatti sanno essere. Ma è anche giusto ricordarsi che la scintilla magica che questi lussuosi felini si portano dentro è la stessa di ogni creatura vivente. Chi maltratta o disprezza un gatto nero (o un gatto soriano, o un geco o qualsiasi altra creatura) maltratta prima di tutto sé stesso, e in modo assai duro.



E questi sono i meravigliosi gatti di Eva: Fred e Nebbia, in alto, e sotto lo splendido Sam.

sabato 15 agosto 2015

Un terno per Ferragosto (post commemorativo)

La prof. Murasaki Shikibu durante un Consiglio di Classe

L'idea è venuta allo stimabile Romolo, poi è rimbalzata fino a LGO e alla 'povna: in onore del Ferragosto, il bloggaro, o bloggatore, o tenutario del blog presenta tre post a suo insindacabile giudizio significativi del suo blog.
Insomma una specie di presentazione, o di autocelebrazione.
Nel mio caso si va decisamente sull'autocelebrazione perché giusto in questi giorni ricorre il settimo compleanno del qui presente blog e, come ci spiega giustamente Silente (o almeno, io l'ho imparato da lui) sette è un numero dall'alto potere magico.
Per sette anni in questo blog dedicato alla scuola ho parlato, appunto, di scuola (cambiando anche opinione su diverse cose, perché anche le pietre cambiano, in sette anni) ma anche di Tolkien, di politica, di musica, di letteratura, di gatti e perfino di qualche occasionale film.
Scrivere qui mi è servito ad essere più chiara nell'esposizione e a riflettere su tante questioni - perché da sempre il modo migliore di chiarirmi le idee su qualcosa per me è prendere una penna o una tastiera e cercare di metterlo per iscritto in forma comprensibile. 
Scrivere questo blog mi è quindi stato di grande aiuto per capire meglio le cose e cercare di indagare il misterioso, multiforme e affascinante mondo della scuola, ma anche per dedicarmi all'autobiografia - che mi hanno di recente spiegato essere la cura per tutti i mali - riflettendo su come quel che ho letto, visto e vissuto abbia contribuito a fare di me quella che sono.
Ancora di più però mi sono stati di aiuto i commenti e le discussioni che rimbalzavano tra un blog e l'altro per correggere, modificare o rafforzare le mie opinioni su tanti e tanti argomenti. A tutti sono molto riconoscente, tranne a chi per anni si è intestardito a cercare di vendermi creme per aumentare le dimensioni del mio pene (cosa, tra l'altro, del tutto impossibile) e che finalmente hanno smesso di tormentarmi con le loro inopportune sollecitazioni grazie all'efficiente servizio antispam che Blogspot ha adottato due anni fa.

(torta virtuale da festeggiamenti)

Per la mia presentazione ho scelto tre post sulla scuola del primo anno di vita del blog:

Buon Ferragosto a tutti!

venerdì 14 agosto 2015

Storie di giovani fantasmi - (a cura di) Isaac Asimov

Seconda antologia curata nel 1985 da Isaac Asimov (e da Martin H. Greenberg e Charles C. Waugh, del tutto ingiustamente relegati in una riga del copyright): dopo i giovani maghi arrivano i giovani fantasmi. L'impareggiabile 'povna nel frattempo mi ha anche informato che esitono  pure le Storie di giovani mostri e le Storie di giovani alieni, che al momento però sono fuori stampa - e mi auguro che la sciattissima Mondadori si dia al più presto una mossa in tal senso, perché se le due che holetto sono così carine, suppongo che anche le altre due saranno almeno discrete. 
Anche questa raccolta è un potenziale ottimo libro di narrativa per le scuole medie, più adatto a una seconda che a una prima (del resto le storie di fantasmi di solito si fanno appunto in seconda). Stavolta il titolo è stato tradotto alla lettera, o quasi: Young Ghosts.
Anche qui, il contributo di Asimov si limita all'introduzione, stavolta incentrata sulla teoria  che non è necessario credere ai fantasmi per gustarsi una buona storia di fantasmi - cosa su cui è difficile non concordare.
Il racconto di fantasmi è un genere molto più antico e rispettabile del racconto fantasy . anzi i veri e propri racconti fantasy sono piuttosto rari, mentre la storia di fantasmi nasce per la dimensione-racconto e per giunta ha più di un secolo e mezzo di tradizione alle spalle. Molto presto inoltre si è creata il sottogenere "storia di fantasmi per bambini e ragazzi" che vanta nelle sue file diversi nomi illustri. La scelta per i curatori era quindi contemporaneamente più vasta e più ristretta.
Ai miei occhi poi questa antologia presenta anche il vantaggio di avere un solo racconto in comune con quella curata da Roald Dahl . Inoltre è più breve e presenta solo racconti per giovani stomaci, mentre Dahl ne aveva scelti anche alcuni abbastanza complessi.

Si comincia con uno dei più famosi racconti di Montague Rhode James, Cuori perduti - che rappresenta un interessante ribaltamento della bislacca leggenda secondo cui gli zingari rubano i bambini; abbiamo poi fantasmi che viaggiano nel tempo, fantasmi convinti di essere ancora vivi, fantasmi in trappola, fantasmi-bambini buoni, gentili e operosi, trattenuti a terra non dal peso di vecchie colpe ma dalla forza dell'affetto che ancora nutrono per i vivi, fantasmi che chiedono giustizia, fantasmi giustamente vendicativi, fantasmi di persone non ancora morte, fantasmi che tornano indietro per breve tempo, per aiutare un vivo cui devono riconoscenza e fantasmi enigmatici quanto strampalati. 

La copertina non ha assolutamente nulla a che vedere con il contenuto anche se è piuttosto bella (chissà se esistono racconti su fantasmi di draghi? Scriverne uno potrebbe essere un esperimento interessante).
Non è una lettura lunga: due serate o un pomeriggio di medie dimensioni bastano e avanzano. Oppure può durare dieci giorni, se ci si attiene con saggia misura al criterio di una storia al giorno - che nel caso dei racconti di fantasmi è sempre consigliabile. 
Anche se è stata concepita per giovani stomaci, l'antologia è più che apprezzabile anche per un adulto amante del genere.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro a tutti un felice Ferragosto - e se vi porterete dietro un buon libro, l'eventuale Perfido Temporale Ferragostano non vi impedirà di passare un eccellente fine settimana.

giovedì 13 agosto 2015

La Contea vive nel Settecento

Consuetudine e pigrizia vogliono che alla Terra di Mezzo venga attribuita un ambientazione "medievale". In realtà si tratta di un affascinante calderone basato in parte su leggende medievali nordiche  dove vivono tra l'altro un popolo di uomini medievali (la gente di Rohan) e una razza che deve parecchio all'epica norrena (i nani), più un drago uscito pari pari dal Beowulf.
Quando poi arriviamo nella Contea, di medioevo non c'è traccia: questo simpatico paese di cui nessuno nella Terra di Mezzo sa niente, a parte Gandalf e qualche Ramingo da lui istruito perché lo sorvegli, non ha assolutamente nulla di medievale.
Non che gli abitanti brillino per meccanismi particolarmente sofisticati, perché sono apertamente disinteressati a qualsiasi cosa più complessa di soffietto da fabbro, mulino ad acqua e telaio manuale; l'economia ruota intorno al settore primario, e l'organizzazione dello stato è ridotta al più minimo dei termini, con qualche guardia al confine, un sindaco che si occupa soprattutto di organizzare feste e un conte che si fa chiamare conte per diritto di discendenza Took con tanto di numero accanto al nome ma che non comanda alcunché.
Qua e là però compaiono dei tratti che non hanno niente di medievale e che finiscono per trasmettere l'idea di un piccolo staterello del Settecento o inizio Ottocento - preindustriale, e con abitanti di mentalità niente affatto medievale.
La sera gli hobbit vanno al pub a bere birra scambiandosi pettegolezzi. Hanno il bagno caldo con la caldaia. Usano stoviglie in porcellana. Hanno un regolare servizio postale, con tanto di postini. Fumano la pipa. Mangiano fish and chips. E soprattutto prendono il té: il classico tè inglese alle cinque contornato dalle più varie vivande. La mattina invece fanno colazione con uova strapazzate e pancetta fritta. Hanno lo zucchero per fare i dolci. Zucchero di canna o di barbabietola? Non lo sappiamo, ma certo con il miele il pandispagna non lo fai (mentre sappiamo che Bilbo faceva ottimi pandispagna).

Naturalmente niente di tutto questo è in contrasto con il medioevo: basta immaginarsi un medioevo dove c'erano tè, tabacco e patate (e canna da zucchero). Sarebbe interessante però capire come facevano nella Contea a coltivare il tè (per tacere della canna da zucchero) in un clima non tropicale, come si procuravano il burro per le tartine e il latte e la panna per i dolci se non allevavano mucche (Tolkien ci dice che allevavano pollame, maiali e pecore, e del resto per allevare mucche non sarebbe stato facile per loro, viste le dimensioni) o come facevano a estrarre lo zucchero dalla barbabietola, che richiede una procedura piuttosto complessa, da farsi a livello industriale. Certamente nelle regioni del sud della Terra di Mezzo era facile coltivare canna di zucchero e tè, ma il problema era farli arrivare fino alla Contea. Un cospicuo flusso di mercanti che portavano tè e zucchero non è conciliabile con un paese di cui nessuno conosce l'esistenza, senza contare che gli hobbit commerciavano solo con i nani, che al sud non andavano. Quanto a latte e burro, non sono materie facili da trasportare per lunghi tratti di strada, e la zona intorno alla Contea è deserta per un lungo tratto. Forse dalla Gente Alta della Terra di Brea? Certo che per un lattaio senza frigoriferi non è facile rifornire clienti che stanno come minimo a un giorno di distanza, e produrre latte e burro per tutta la Contea, magari lasciandosi anche qualche panetto per sé avrebbe richiesto ai Breani o Breatini o come cavolo si chiamavano allevamenti di mucche assai vasti (ma forse gli hobbit allevavano capre?).
Resta il fatto che, nel nostro immaginario culturale, il giro di birra la sera al pub e il tè alle cinque con dolci e focacce e la colazione con uova e pancetta e la pipa con il tabacco e il fish and chips e il bagno con la caldaia e la posta non si associano al medioevo ma all'Inghilterra del Settecento e Ottocento. E infatti gli hobbit sono inglesi in miniatura, ma non certo inglesi medievali, né il loro comportamento, una volta varcati i confini della Contea, denota alcunché di medievale: nei loro viaggi gli hobbit incontrano re e regine, elfi di altissimo lignaggio, mutapelle e draghi. A tutti si rivolgono con estrema cortesia, perché sono un popolo assai cortese, ma non mostrano di avvertire alcun senso di inferiorità sociale (tranne Sam, che si sente socialmente inferiore per principio, ma in un modo tutto inglese). I cinque hobbit viaggiatori affrontano chiunque da pari a pari con la calma consapevolezza di sé di chi ha letto il Contratto sociale e i pensieri di Voltaire e vive in una comunità che non conosce più la schiavitù dalla notte dei tempi. Non sono nostri contemporanei, ma certo vengono da un epoca piuttosto vicina alla nostra e si sentono liberi cittadini in grado di rapportarsi con qualsiasi principe elfico (o drago).

Curiosamente, si sono però dimenticati di inventare la stampa (che pure non è un procedimento molto complicato). Almeno sembrerebbe, anche se Bilbo e Frodo hanno molti libri. Ma, dopotutto, anche la biblioteca di Alessandria aveva molti libri, e per avere molti libri in assenza di stampa basta armarsi di carta e penna o comprare quelli trascritti pazientemente da altri. In questo, magari, i contatti commerciali con i nani potevano essere molto utili.

domenica 9 agosto 2015

L'epica questione dell'uscita, ovvero su come i giovinetti oggi siano forse eccessivamente protetti

Terminate le lezioni di scuola, le scolaresche di St. Mary Mead affrontano il periglioso cammino che li porterà a casa

Capita spesso di sentire lamentare il fatto che le giovani generazioni vengano tenute eccessivamente nella bambagia e siano protetti con troppa cura dalle insidie e i traumi della vita, col rischio di crescere senza sviluppare alcuna autonomia. Tale preoccupazione non è a mio avviso del tutto ingiustificata e anche la scuola sta contribuendo in tal senso, come passerò a illustrare con una breve novelletta che narra fatti realmente avvenuti.

L'uscita di cui andrò a parlare non è quella didattica, dove si portano gli alunni a vedere musei e monumenti o a partecipare ai Giochi della Vallata, bensì l'inevitabile uscita dalla scuola che ogni alunno è pur costretto a fare alla fine delle lezioni, sempreché non voglia passare la notte nell'edificio scolastico con grande incomodo suo, della famiglia e di tutto il personale docente e non docente.

Ordunque, nei miei primi anni di insegnamento funzionava che, al suono della campanella, i ragazzi uscivano. A volte il regolamento delle scuole ci chiedeva di accompagnarli fino al portone o financo al cancello, a volte bastava un "Buona giornata, ragazzi" e restavi in classe a rimettere a posto i libri nella borsa. Nulla di che.
Anche il primo anno in cui ho insegnato a St. Mary Mead vigeva questa sana e rispettabile consuetudine.
Il secondo anno, al termine del primo Collegio Docenti, il Vecchio Preside chiacchierò del più e del meno per un paio d'ore MA proprio alla fine dell'incontro fece scivolare con noncagance che a partire da quell'anno gli alunni andavano consegnati ai genitori "come si fa alle elementari".
Il Collegio, ormai in piena fase di cazzeggio-da-fine-lavori si fece di colpo attentissimo e insorse come una sola tigre. E quando mai, e perché, e che diavolo stava succedendo, e assolutamente no!
Il VecchioPreside ci congedò in fretta e furia e scappò. Molti capannelli di rivolta si riunirono, poi la palla fu lasciata allo stuolo di vicepresidi di cui la scuola all'epoca era dotata e tutti tornammo a casa, ribollendo sommessamente.

Il Vecchio Preside fu assediato, tampinato, perseguitato e tormentato in tutti i modi, ma non voleva sentir ragioni. Alla fine però, dopo che anche i genitori, convocati in apposita riunione, avevano apertamente dichiarato il loro scontento, ripiegò sull'inizialmente respinta proposta della liberatoria
Cotal liberatoria è un foglietto di carta dove il genitore scrive che autorizza la sua prole a tornarsene a casa da sola. Inizialmente il Vecchio Preside ci aveva spiegato che quel tipo di foglietti (di cui molte scuole medie si dotano all'inizio dell'anno) erano perfettamente inutili. Ciò risultò essere vero: lunghe analisi e spogli legislativi, una riunione appositamente convocata con i sindacati e consulti con avvocati vari ci trasformarono tutti in esperti legulei sull'argomento. Scoprimmo così che le tanto rinomate "liberatorie" non liberavano in realtà alcuno da veruna responsabilità, e che un genitore che si ritrovasse il figlio danneggiato durante il ritorno a casa dalla scuola poteva far causa (e, sembra, perfino vincerla) per quante liberatorie avesse firmato. Scoprimmo che la legge in realtà non era chiara (la legge non è mai chiara, quando si tratta di scuola). Scoprimmo infine che il discrimine erano i quattordici anni: gli ante-quattordicenni  infatti andavano badati come rose di serra, mentre i post quattordicenni potevano girare in motorino, avere rapporti sessuali e tornare a casa da soli da scuola (l'accostamento di queste tre cose lasciò tutti un po' perplessi, ricordo; anche perché tutti noi, alle medie, tornavamo a casa senza accompagnatore ma all'epoca non guidavamo motorini né, a parte casi non troppo frequenti, ci intrattenevamo in rapporti sessuali - e del resto, secondo la legge, non avendo compiuto i quattordici anni non avevamo diritto di fare né l'una né l'altra cosa). 
Quel che non riuscimmo invece a capire, per quanto ci provassimo, fu che tarantola avesse morso il nostro Vecchio Preside, che fino a quel momento si era distinto per un certo rude e pragmatico buon senso: si vociferava di un incidente in un qualche comune dei dintorni nel quale un ragazzo che era stato investito da un pullman della scuola sul piazzale della scuola e per la sua morte erano stati condannati autista, preside e insegnante - ma erano voci talmente vaghe che non sembrava fosse da farci più affidamento che sulla storia dei coccodrilli che escono fuori dallo scarico della doccia. Il Vecchio Preside si rifiutò di dare spiegazioni, disse che la legge era così e basta.
A dire il vero la legge non era proprio così: perché c'era da considerare che l'orario dei docenti era vincolato e nessuno di noi era tenuto a regalare allo Stato quei minuti in più di babysitteraggio. A quei tempi a St. Mary Mead la scuola era sempre aperta fino alle 18.00 e a volte fino alle 22.00 e gli insegnanti vivevano e si accampavano a scuola per preparare le più strane e varie attività, ma nessuno di noi sentiva in sé la benché minima disponibilità ad aspettare due minuti i genitori all'uscita: per chi stava lontano c'erano i pulmini, per chi stava vicino c'erano i piedi e da sempre i ragazzi andavano a scuola e tornavano da scuola in gruppetti più o meno chiassosi. Se poi qualcuno voleva venire di persona a prendere la prole, padronissimo, ma la scuola che c'entrava?
"Certo, un tempo c'erano meno pericoli" mormorava qualcuno "Per esempio i pedofili...".
Ma in verità a St. Mary Mead, per quel che si sapeva, i pedofili scarseggiavano e il traffico era assai contenuto, certo più contenuto di quello che a suo tempo io e miei compagni affrontavamo nelle vie fiorentine per ritornare alla nostra magione, senza avere mai subito danno alcuno (in compenso qualche pedofilo c'era anche allorta, e infatti i nostri genitori ci raccomandavano sempre di non accettare caramelle da sconosciuti).
Tornando ancora più indietro nel tempo, quando i grembiulini erano bianchi e i fanciulli non erano ancora stati rovinati dall'educazione permissiva, i primi alunni di mia madre, quando insegnava alle elementari in campagna, agli inizi degli anni '50, si facevano a volte anche un paio di chilometri a piedi tra i boschi, in totale assenza di pulmini - e mia madre ammise più volte che trovava la cosa piuttosto rischiosa. D'altra parte, cos'altro potevano fare le famiglie a quei tempi se non mandarli da soli e sperare che non succedesse niente (e di solito, in effetti, non succedeva niente)?

Nel gran tumulto della Sala Insegnanti la prof. Marzapane sintetizzò più volte la questione con la formula Se continuiamo a badarli in questo modo questi ragazzi ci diventano scemi! e la trovai una sintesi tanto efficace quanto sensata.
Alla fine comunque il Vecchio Preside per sopravvivere dovette ripiegare sulla liberatoria e così ogni classe raccolse il suo bel mazzetto di liberatorie, che conservò nell'apposito raccoglitore delle autorizzazioni, caso mai un giorno ci fosse servita un po' di carta per fare il branzino in cartoccio. Ogni classe si vide anche recapitare una circolare che conteneva una spassosa raccolta di consigli su come tornare a casa in sicurezza, con richiesta ai coordinatori di leggerla ad alta voce con opportuni commenti.
Beh, quanto ai commenti, io e la classe dei Baronetti Inglesi non ci facemmo mancare nulla; del resto, accorati inviti a rispettare i semafori e a tenersi lontani dai pozzi in un paesello dove non c'era un semaforo che fosse uno, e di pozzi men che meno, quale altra accoglienza potevano avere?
(Da notare che il Vecchio Preside era nato e cresciuto a St. Mary Mead e veniva regolarmente a trovare i suoi genitori che ivi abitavano, e dunque era perfettamente a conoscenza della totale assenza di semafori e pozzi nel paese. La circolare comunque valeva anche per gli altri plessi - dove magari c'erano semafori, anche se probabilmente i pozzi incustoditi non dovevano essere poi molto numerosi).

L'anno seguente arrivò il Nuovo Preside, che nel corso dell'anno non si distinse né per buon senso né per alcuna attitudine dirigenziale, ma che sulla questione delle uscite dopo le lezioni diede senz'altro il peggio di sé (e aveva molto da dare).
Esordì anche lui spiegando che i ragazzi andavano consegnati ai genitori, che le liberatorie non le voleva perché non avevano valore legale eccetera. Il problema fu che persistette in cotal deplorevole atteggiamento ben dopo tutte le doverose levate di scudi di insegnanti e genitori; e in effetti una cosa andava riconosciuta, a quell'uomo: non era di quei dirigenti che se ne fregava di quel che dicevano gli insegnanti ma si appiattiva a pelle d'orso davanti ai genitori; nossignori, lui, con grande equanimità, se ne sbatteva alla grande delle richieste dei genitori esattamente quanto di quelle dei docenti. Restava il fatto che per i genitori si trattava di una questione di sopravvivenza, e assai compattamente questi signori dimostrarono che, se lui se ne fregava di loro, loro dal conto proprio erano in grado di fregarsene altrettanto di quel che diceva lui.
Vennero coinvolti uno stuolo di avvocati e consulenti legali e non so che altro. Alla fine il Nuovo Preside sembrò cedere e accettare, in cambio della firma e sottoscrizione di una complicatissima liberatoria, il sospirato ritorno a casa dei ragazzi. Così pareva, così aveva capito il VicePreside.
Così però non risultò ai primi Consigli di Classe, dove il Nuovo Preside si rimangiò tutto e fece una grandissima piazzata sia ai genitori che al VicePreside. Gli sventurati insegnanti che erano presenti assicurano essersi trattato di scena mirabile, nel senso di "degna di essere vista". Cosa invece pensassero i genitori invece non lo so né voglio saperlo, ma sospetto che non fosse nulla di lusinghiero verso le istituzioni scolastiche.
Nel frattempo, di settimana in settimana il momento in cui tutti noi avremmo dovuto consegnare ad uno ad uno i picoli e implumi (e offesissimi: "Cosa crede il Preside che non siam buoni a tornare a casa da soli?!?") boccioli ai genitori veniva posticipato, presumibilmente in attesa di un accordo (perché serviva un accordo, se lui aveva sempre dichiarato che non era questione di trovare un accordo, bensì era così e basta? Non lo so, star dietro ai ragionamenti di quello strano essere era davvero difficile e l'unico che ci riusciva, ma solo talvolta, era il VicePreside, che tra l'altro si stava stufando di prendersi scenate sia da lui che da noi che dai genitori).

Infine il Nuovo Preside ebbe una pensata che gli sembrò assai astuta, e fece consegnare ai vari VicePreside una lettera scritta a mano e non protocollata, da fotocopiare e mettere nel registro di classe, dov'era scritto:

Ai signori Docenti si raccomanderà il "buon senso" nel disporre le uscite dalla scuola per ragazzi che abitano nelle immediate vicinanze e che percorrono un tratto di strada "sicuro".

seguiva firma.
Quando la lessi risi pazzamente, anche se in verità c'erano tutti gli elementi per piangere per lo sconforto, considerando che quell'uomo riceveva regolare stipendio per fare stronzate del genere.
In pratica, aveva deciso di passare la palla a noi, ed era convinto con quello di essersi tolto da ogni responsabilità, sicuro com'era che in caso di incidente la responsabilità sarebbe ricaduta su di noi.
In realtà, se ci fosse stato un incidente e quel documento fosse saltato fuori gli avrebbe portato problemi piuttosto seri, perché nessun docente aveva alcun  tipo di qualifica o competenza per stabilire se un percorso era "sicuro" o meno, e soprattutto se lo era tutti i giorni e in tutti i momenti in cui gli alunni lo avrebbero percorso; quanto al "buon senso", che è quella cosa che è stata distribuita con grande equanimità perché tutti sono convinti di averne in misura abbondante, non era e non poteva essere un criterio legale. Il sindacalista cui venne portato a leggere si divertì molto non solo all'idea del buon senso, ma ancor di più del buon senso tra virgolette, nuova categoria giuridica in base alla quale valutare la pericolosità o meno di un itinerario.

Ad ogni modo, per quanto la situazione di per sé fosse divertente, io non volevo grane.
Così feci una fotocopia per ogni alunno della classe che coordinavo, con l'incarico di consegnarla alla famiglia, e dettai la seguente nota sul diario:
Il Consiglio di Classe della Terza X non ha competenze adeguate ad esprimere una valutazione sugli itinerari percorsi dagli alunni. Nutre tuttavia la massima fiducia nel buon senso degli alunni e dei genitori e si rimette in tutto e per tutto alle loro decisioni
da riportare il giorno dopo firmata.
Non era un tentativo di scaricarci dalle responsabilità mediante un ennesima liberatoria, ma solo un modo per metterli al corrente della situazione - quanto a capire in che mani eravamo, l'avevano capito tutti già da tempo.

Il giorno dopo tutti avevano la loro nota firmata. Uno dei rappresentanti di classe però alla firma aggiunse Vi ringraziamo per la comprensione, cosa che mi piacque molto e che non mancai di riferire ai colleghi.

Da notare che, in base all'ineffabile legge, la scuola è responsabile degli eventuali incidenti durante il ritorno a casa da scuola ma non lo è per eventuali incidenti che avvengano andando a scuola, né si riesce a capire perché, se durante il tragitto di andata la responsabilità è della famiglia, non possa esserlo altrettanto quando i ragazzi percorrono lo stesso tratto di strada nella direzione inversa, da scuola verso casa.
Resta il fatto che le scuole continuano a far firmare liberatorie sempre più elaborate ma tutte parimenti inutili nella vana speranza di tutelarsi, e gli stessi undicenni che sono ufficialmente in grado di venire a scuola a piedi dovrebbero in teoria essere consegnati a un adulto della famiglia per affrontare il ritorno, né a nessuno viene in mente di rimediare il problema alla base, intervenendo sulla legge, e lo spettro della Terribile Richiesta di Indennizzo per Danni incombe ormai fissa sulle scuole, né vi è modo di liberarsene.
E tutto ciò è singolarmente stupido, oltre che lesivo verso gli interessi dei ragazzi, per i quali il Diritto al Ritorno a Casa Autonomo da Scuola andrebbe sancito come diritto primario nelle  varie carte internazionali a tutela dei fanciulli.

lunedì 3 agosto 2015

Dolcetti informatici (detti anche cookies)

Questi dolcetti sono assai elaborati, tanto che quasi dispiace mangiarli... (CHOMP!)

Da qualche giorno anche questo rispettabile blog è stato infestato dall'avviso sui cookie.
Cotale avviso però specifica che i cookies li tiene e li gestisce Google.
Sappiate, o miei nobili lettori, regolari od occasionali che voi siate, che per me i cookies sono e restano esclusivamente dolcetti, talvolta di pasta frolla, talvolta di marzapane, talvolta di altri impasti, e che l'unica cosa che sono capace di fare avendo a disposizione un cookie, per quanto informatico possa essere, è mangiarlo senza lasciarne nemmeno una briciolina.
Tengo questo blog al solo e unico scopo di scriverci quello che mi pare e lasciare a chi passa di qua il piacere di scrivere quel che gli pare o di non scrivere affatto e nel mio petto non albergano curiosità illecite.
Miei cari lettori, regolari o occasionali, non so niente di voi se non nel caso che decidiate di raccontarmi i fatti vostri - ma anche in quel caso, potete raccontarmi quel che vi pare, perché io non ho alcuna possibilità (e volontà) di controllare quel che mi dite. Non so chi siete, né da dove venite, né quante volte all'anno, al mese, al giorno o all'ora passate di qua. 
Da qualche anno Google mi fornisce un servizio di statistiche che consulto con molta moderazione e che mi dice qualcosa solo per categorie molto generiche.
Così ho le statistiche dei browser dei sistemi operativi che usate (mi dicono che Chrome va per la maggiore, e che i più usano Windows) e poco fa ho scoperto che una parte dell'utenza approda fin qui dalla Russia, da Taiwan e financo dall'India - non so come, non so perché e spero solo per loro che non sia un disgraziato disguido. I più vengono dall'Italia, e in effetti la cosa ha un senso, ma non so da che città - ma quand'anche potessi saperlo, dubito molto che mi interesserei della questione.
Google mi fornisce anche qualche indicazione sulle parole chiave della ricerca con cui approdate fin qui, e devo dire che se facessero un premio per il blog con le chiavi di ricerca più banali il mio avrebbe buone possibilità di vincere: tutti i blogger vantano stringhe assai fantasiose, io no; pare che qui da me arrivi al massimo gente che cerca notizie sulla scuola o sulle varie feste del gatto, oltre a qualcuno che si interessa di Tolkien, mentre chi vuole intortarsi un armadillo,  farsi la cugina sul tavolo di cucina o dar fuoco al capufficio giustamente va da altre parti, dove mi auguro possa trovare maggior costrutto.
In effetti l'unica sezione che consulto regolarmente è quella dei commenti: da quando l'ho scoperta posso sempre rispondere anche a chi commenta un post di sette anni fa - succede, di rado ma succede, e mi fa sempre piacere.
Insomma, la tenutaria del blog NON pecca di indiscrezione e non avrebbe la possibilità di farlo neanche volendo. Quanto a cosa faccia Google di tutti quei dati sul browser e sui visitatori indiani, non lo so né desidero saperlo.

Mi auguro dunque che chi passa di qui, per errore, per caso o per abitudine, continui a sentirsi avvolto nel manto della più assoluta e totale riservatezza. Non posso garantire per Google, ma per me sì.
E un saluto particolarmente affettuoso ai lurker, se ce ne sono.