Il mio blog preferito

venerdì 29 agosto 2014

A strati, come la collina di Troia

Appunto, questa è una foto degli scavi di Troia.

La scuola di St. Mary Mead è strana. Costruita nei primi anni '70, al suo interno accoglie tre sezioni tre, per un totale di nove classi e non più di duecento alunni, dalla notte dei tempi non è più sede di segreteria - eppure produce una incredibile quantità di detriti archeologici, stratificati nei posti più strani.
Ogni estate le due custodi stabili, dopo aver eseguito i consueti lavori di ripulitura estiva (che contemplano, accanto a lavori di routine, come il Grande Lavaggio Vetri o lo Spostamento Banchi Per le Nuove Classi, anche operazioni piuttosto complesse, come l'annuale sterminio dei nidi di vespe che ogni estate danno prova di scarso buon senso  nidificando accanto alle finestre e ogni estate vanno perciò sterminate a colpi di cianuro) dedicano gran quantità di tempo e di energie a colossali opere di Sgombero e Eliminazione di immani quantità di carte e cartacce, pezzi di macchinari ormai in disuso, banchi rotti et similia; ma nonstante tutto ciò, la scuola continua ad essere piena come un uovo di roba risalente ad ere geologiche imprecisate.
Nel mio piccolo, da qualche anno lotto anch'io insieme a loro, dedicandomi a una modesta ma costante opera di sgombero della Sala Insegnanti, dove carte e libri si accumulano con una velocità impressionante nonostante i miei coraggiosi tentativi e in barba all'immane quantità di carta che butto a scadenze regolari negli appositi contenitori gialli per il riciclaggio. In effetti quando sono arrivata lì per la prima volta, ormai otto anni fa, la Sala sembrava affogare nella carta, mentre adesso qua e là si intravedono piccoli spazietti liberi - niente comunque di nemmeno vagamente proporzionabile a quanto è stato gettato. A tal proposito mi sono costruita una teoria in base alla quale esiste una quarta dimensione spaziale dove la roba si è accumulata, e da dove sta gradualmente riemergendo. Non mi è chiaro però se questa quarta dimensione è collegata con qualche sorgente primigenia dall'inesauribile produzione.
L'anno scorso, al grido di battaglia "Riordiniamo la biblioteca dei docenti!" ho riempito 26 casse di enciclopedie e libri di didattica degli anni '70 ancora in buono stato e, dopo aver stilato un elenco del contenuto, le ho fatte rimpiattare in una stanza asciutta e pulita nel sotterraneo. Inoltre ho buttato via almeno il doppio tra enciclopedie e libri di didattica degli anni '50, '60 e '70 in pessimo stato, oltre a due buoni metri cubi di riviste di archeologia, didattica e legislazione scolastica dello stesso periodo. Dove accidenti stesse quella roba prima che sgombrassi in tal modo la Sala non so, ma garantisco che dopo cotal fatica (da tutti accolta con infinite lodi ed esclamazioni di sollievo) la stanza sembra piena più o meno come prima, e tuttora fatichiamo a trovare un posto dove tenere le prove scritte dell'anno scolastico in corso.
Comunque, alla fine dell'immane opera, avevo liberato un po' di spazio qua e là. E giusto quest'anno è arrivata un insegnante di Tecnologia che ha avuto la brillante idea di far tenere a ognuno dei ragazzi una cartellina con i suoi lavori, custodendo però le cartelline non in classe, come usa di solito, bensì in Sala Insegnanti. Così adesso abbiamo nove pile di cartelline nove, stipate in due scaffali che avevo finalmente liberato - scrivo "abbiamo" perché, scaduto il contratto annuale, la collega ci ha lasciati, ma ci ha lasciato anche le nove pile di cartelline. Del resto, portarsele a casa non avrebbe avuto molto senso (ma, magari, restituirle ai ragazzi forse sì?).
Altri piccoli spazietti sono stati prontamente invasi da due colleghe di Lettere* e riempiti con immani pile di libri. Vabbe', mi sono sobbarcata tutta quella fatica appunto perché chi lo desiderava potesse portarsi qualche libro da casa, se credeva (ed evidentemente qualcuno ha creduto). E' comunque un piacere accorgersi di non aver faticato invano.

Quest'anno ho deciso di venire a scuola qualche ora, nell'ultima settimana di Agosto, per badare un po' alla biblioteca; ho così avuto l'opportunità di assistere, seppur da lontano, a una parte della sessione di scavi archeologici.
Il Lunedì ho trovato le custodi in Presidenza**, dove da sempre troneggia un orribile mobile anni '50 di cui si sono perse le chiavi da tempo immemorabile. Forse con l'aiuto di un fabbro, forse facendosi istruire da qualche addetto ai lavori, infine erano riuscite ad aprirlo. Da un casuale colpo d'occhio, daterei l'epoca dell'ultima chiusura del mobile verso la metà degli anni '70, ma naturalmente alcuni reperti erano assai precedenti. Non sono sicura che buttare via una parte del contenuto fosse lecito senza un sopralluogo di ricognizione della Soprintendenza per i Beni Archeologici, ma mi sono ben guardata dall'intervenire.
Il Martedì  ho trovato le due custodi intente a riempire interi scatoloni di cadaveri mummificati di telefoni, casse acustiche non più funzionanti, cavi e tastiere di epoche remote e macchinari chiaramente anni '50 di cui nessuno di noi avrebbe saputo specificare la funzione. Mi hanno anche detto che presto arriverà l'ente locale per lo smaltimento di rifiuti pesanti e porterà via due fotocopiatrici che non funzionano più dalla notte dei tempi, e soprattutto la lavatrice.***
Mercoledì le ho sentite indaffararsi lontano da me. All'uscita recavano seco una cassa contenente indumenti, per lo più per bambini in età prescolare, della fine degli anni '70. Forse i residui di uno di quei mercatini di beneficenza che infestano tuttora la scuola? Ad ogni modo, di loro genio, le custodi han deciso di archiviare il tutto in uno dei cassonetti che raccolgono indumenti usati, e l'ho trovata una buona idea.
Giovedì, mentre passavo nel corridoio, una di loro mi ha consultato: "Queste carte, prof?".
Circolari dell'anno 2006.
"In Segreteria hanno senz'altro l'originale, non importa conservarle" ho stabilito con fare professionale. Il punto è che ormai non esiste più la Grande Scuola che ha emanato quelle circolari, e tanto meno la sua Segreteria.
Oggi, mentre stavo in Sala Insegnanti a pasticciare su una relazione, sono arrivate con una piccola risma di moduli in A5, stampati da una parte ma bianchi dall'altra: richieste per permessi, probabilmente dei primi anni '80. Li hanno lasciati sul tavolo grande.
"Ottimo" ho detto prendendone due "Mi serviva giusto un po' di carta per gli appunti".
E' carta buona, ci si scrive bene.

*gli insegnanti di Lettere hanno una capacità di espansione da far invidia a qualsiasi gas. Del resto io non porto quasi mai libri da casa, ma quando sto al tavolo della Sala Insegnanti riesco ad occupare fino a cinque postazioni in un batter d'occhio, cosa che nessun docente di altre materie si sognerebbe mai di fare. Per fortuna il tavolo, per quanto ingombro di carte, è davvero molto grande.
**ebbene sì, abbiamo una stanza per la Presidenza, anche se il Dirigente Scolastico di turno ci staziona massino tre-quattro volte all'anno. Viene usata quasi esclusivamente quando c'è l'esame, perché la usa la Presidente di Commissione.
***nel caso che qualcuno si stia chiedendo cosa ci fa una lavatrice in una scuola, non saprei davvero cosa rispondergli. So soltanto che quella lavatrice era già lì in infermeria quando sono arrivata la prima volta, otto anni fa, già allora non funzionava e, ad occhio, dovrebbe risalire alla prima metà degli anni '70.

venerdì 22 agosto 2014

Il seggio vacante - J. K. Rowling


Finalmente, a due anni dalla sua uscita, il libro è rimasto libero quanto bastava perché riuscissi a prenderlo in biblioteca. Mi sono accinta dunque alla lettura piena di buona volontà, spirito di comprensione e pazienza, perché dalle descrizioni non sembrava il mio genere e soprattutto perché, dopo un successo come quello di Harry Potter, che ha inciso profondamente sull'immaginario collettivo e sulla storia dell'editoria (e non solo su quella per giovani adulti) sbagliare almeno un po' e almeno un libro mi sembrava del tutto inevitabile. Insomma, ero decisamente ricolma di pregiudizi. Invece mi è piaciuto molto e forse non è nemmeno vero che non è il mio genere.

Cominciamo dalla storia, che è quella di una trasmigrazione alchemica (non è del tutto una mia mattana, ne accenna proprio l'autrice, verso i tre quarti del romanzo).
Siamo a Pagford, una graziosa e piccola cittadina molto old England, ricca di nobili tradizioni e pregevoli edifici storici.
Ahimé, nemmeno per Pagford sono tutte rose e fiori, perché proprio attaccato al paese c'è... ci sono... insomma loro, gli indegni: un quartiere di case popolari abitato sì in parte anche da persone rispettabili, ma pieno di persone disagiate: poveri, scalcinati, disoccupati di professione, gente con una vita per nulla rispettabile, addirittura anche drogati. Per loro hanno perfino messo un centro di disintossicazione dentro Pagford. Ma non c'è dubbio che tutto il pacchetto degli sfigati dei Fields appartenga in realtà alla vicina città di Yarvil, che dovrebbe riprenderselo al più presto.

In tutti quegli anni però i Fields si erano ostinati a far parte della circoscrizione territoriale di Pagford, nonostante i ripetuti tentativi di Pagford di scrollarseli di dosso. Non solo: dai Fields erano anche arrivati occasionali consiglieri di circoscrizione, compreso Fairbrother , che in qualche modo era riuscito ad operare una sorta di saldatura tra le due anime della cittadina, quella rispettabile e quella sciamannata.
Anche il Consiglio comunale quindi ha due anime, che all'apparenza Fairbrother riesce a tenere insieme. Ma già alla terza pagina Fairbrother muore, nel più improvviso dei modi, di aneurisma. 
Sembrerebbe dunque arrivato il momento della riscossa per la fazione dei Rispettabili, senonché proprio la morte di Fairbrother mette in modo una serie di piccoli sommovimenti interni che con l'andare delle pagine diventano sempre meno piccoli e sempre più ramificati, intrecciandosi e moltiplicandosi tra loro. Per tutti i protagonisti (una buona ventina) si aprono dunque nuove strade, nuove possibilità, nuovi trabocchetti e per tutti loro la vita cambierà, all'inizio in modo impercettibile e poi sempre più evidente, fin quando, di nuovo, si opera una parziale saldatura tra le due anime della cittadina e il Consiglio si ritroverà con la stessa composizione numerica che aveva prima dell'inizio del romanzo. Se però i numeri sono rimasti gli stessi, dietro ai numeri ci sono delle esistenze che sono profondamente cambiate - e alcune, ahimé, che si sono spezzate. La trasmigrazione alchemica ha operato per tutti, ma in modo diverso per ognuno: qualcuno si è decisamente avviato verso la raffinazione, altri si sono ritrovati nell'inatteso ruolo di materia inerte (scorie, in pratica). Qualcuno è morto, qualcuno è uscito dall'impasse che gli impediva di vivere davvero e qualcun altro è ancora in mezzo al guado.

La trama è molto ricca e ben costruita, con tante piccole tessere che si rincorrono e si tampinano tra loro cercando il loro posto nel mosaico. Ogni evento o gruppo di eventi simili  contribuisce, influenzando gli altri eventi e personaggi in modo a volte impercettibile, e tutto ciò è molto raffinato, anche se in qualche caso vien da pensare che l'autrice poteva dare una sforbiciatina qua e là - diciamo che con un 10-15 per cento di testo in meno, il romanzo avrebbe brillato di più.

Molte sono le sfide che l'autrice si è autoimposta. La prima è stata quella di far morire il personaggio principale alle prime pagine, trasformandolo in un fantasma che verrà ricostruito (ma solo in parte) dai ricordi di tutti gli altri protagonisti. La seconda è stata fare un romanzo corale, anche se dopo sette libri visti quasi tutti attraverso gli occhi di un solo protagonista, più che una sfida dev'essere stata una liberazione. La terza è stata il linguaggio, più crudo e a tratti sgradevole. Oh perdincibaccolina, tutti quei ragazzi che non fanno che dire "cazzo di qua" e "cazzo di là"... e perfino gli adulti parlano e financo pensano in modo davvero sconveniente! E tutto ciò ha abbastanza scioccato i lettori, e appunto quello voleva fare. Infine, c'è il rapporto tra genitori e figli, che non è solo questione di qualche scontro generazionale: oltre a una vasta gamma di sentimenti ambivalenti c'è anche molto, autentico odio, e non sempre si placa con la fine del romanzo. La saga di Harry Potter è un lungo inno all'amore filiale e genitoriale (tranne, sì, la famiglia di Voldemort, dove non se ne salva uno che sia uno); qui, senza dubbio, viene mostrato l'altra faccia della medaglia.

A dire il vero però non l'ho trovato così completamente  diverso da Harry Potter; anzi, non sono nemmeno sicura che per certi versi non sia contemporaneo ad Harry Potter : tra il Calice di Fuoco e l'Ordine della Fenice ci fu una pausa di tre anni dovuta appunto al fatto che l'Ordine della Fenice non riusciva a quagliare. In un intervista concessa tempo dopo J.K. Rowling raccontò che una parte di quei tre anni l'aveva dedicata a scrivere altre cose, per adulti - si era insomma un po' disintossicata. Sospetto che in queste "altre cose" ci fosse almeno una prima stesura del presente romanzo, o di qualcosa che ha poi portato qui, al Seggio Vacante.
La saga di Harry Potter in realtà non è una storia molto soft: i primi due libri finiscono bene, il terzo abbastanza bene, ma quello che segue non è un idillio fiorito. Certo, il protagonista sopravvive sempre - siamo seri, non puoi fare una saga di sette volumi dedicata ad Harry Potter e ammazzare Harry Potter verso la metà. I morti però non mancano, e muoiono sempre e accuratamente di morti strazianti - e probabilmente la più straziante fra tutte è quella di Sirius Black, che ha fatto quasi sempre una vita d'inferno e muore giusto un attimo prima di quella che potrebbe essere per lui una svolta decisamente positiva. Harry sopravvive per sette volumi (e dopo avrà una vita serena e piacevole, che mi sembra molto giusto) ma da quando il suo nome viene estratto dal calice di fuoco i suoi momenti felici, o anche solo decenti, si contano sulle tradizionali dita della mano di un monco, e anche chi gli sta intorno passa momenti decisamente critici in gran quantità. Quanto ai personaggi sgradevoli (per non dire abominevoli, di quelli che si fanno odiare senza redenzione) oltre al nonno paterno di Voldie possiamo segnalare senz'altro la giornalista Rita Skeeter, l'ineffabile Umbridge e l'apparentemente solo debole Caramell (ma ci potremmo infilare anche Scrimgeur, entrambi politici a tutto tondo): tutta gente per cui qualsiasi insulto del modesto vocabolario di cui dispongo sembra del tutto inadeguato e, tutti, autentiche iatture per chi ha la sventura di ritrovarseli tra i piedi, sempre e comunque -  tutti, però, tragicamente realistici. O forse dobbiamo dire reali?
Ma c'è anche un personaggio che è saltato fuori dalle pagine di Harry Potter per approdare a Pagford pari pari com'era, solo un po' cresciuto: Ron. Sì, il caro Ronald Weasley, che io in verità ho sempre trovato un po' esasperante, anche se non si può volergli davvero male, reincarnatosi per l'occasione in Gavin, con l'aggravante di qualche anno di più, e tanti sinceri auguri di buona fortuna alle donne che hanno l'infelice idea di prenderlo in simpatia, e soprattutto di prenderlo sul serio - una tipologia di brava persona in cui davvero parecchie di noi sono inciampate almeno una volta, in vita loro...

Infine, il funerale alchemico, dove il dolore o qualcosa che va perfino al di là del dolore salda un gruppo di componenti eterogenee, almeno sul momento. J.K. Rowling ha una vera simpatia per questo tipo di scena conclusiva. Ben due dei romanzi di Harry Potter si chiudono con un solenne funerale  e ne troviamo uno in chiusura del Seggio Vacante. Da  quello che mi è parso di capire, non molti lettori ne hanno apprezzato la valenza consolatoria, ma ammetto che a me è piaciuto molto e ne ho tratto un certo conforto.

E, naturalmente, mai più riuscirò ad ascoltare Umbrella di Rihanna con indifferenza!

Il libro è stato recensito più volte nel Venerdì del Libro: sicuramente dalla povna, da Paola, nostra eccellente ospite, e da Malanotteno - spero di non avere dimenticato nessuno, ma temo di sì. Io arrivo per ultima, ma credo di essere quella cui è piaciuto di più perché ci ho fatto quasi nottata.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro a tutti un felice fine settimana.

giovedì 21 agosto 2014

La censura per bambini come forma di rassicurazione rivolta agli adulti (storia di anime maltrattati)

Lamù, aliena della stella Uru: cornetti da demone, capelli verdi, bikini e stivaletti tigrati. 
(Voi in classe non volate in bikini e stivaletti tigrati?)

I cartoni animati giapponesi* arrivarono in Italia nel 1978 con Heidi senza suscitare polemica alcuna: una storia di bambini e per bambini, tratta da un romanzo svizzero, con un bel tratto rotondo rassicurante  ad opera del grandissimo Miyazaki.
Si dà il caso però che in Giappone i cartoni animati (e pure i fumetti) siano per tutte le età, rigorosamente divisi a seconda dell'utenza. Così in contemporanea arrivarono, sulla scorta di un adattamento francese, Goldrake e Capitan Harlock, che erano serie a base di battaglie spaziali con alieni assai aggressivi che volevano conquistare la Terra e destinati a un pubblico di adolescenti. Li trasmetteva la RAI, prima del telegiornale. 
Piacquero moltissimo, così anche le televisioni locali si diedero da fare e arrivarono Jeeg Robot, Lupin III e Candy Candy. Da allora e per diversi anni i cartoni animati piovvero, diluviarono e dilagarono ovunque.
Gli adattamenti erano fatti in modo un po' approssimativo perché non sempre venivano consultati gran copia di esperti di cultura nipponica. Di censure nemmeno l'ombra, ma qualche problemino con i dialoghi non sempre tradotti bene sì. Gli ideogrammi imperversavano (soprattutto al momento delle sigle),  e quando la storia era giapponese i protagonisti si chiamavano Hiroshi, Tadashi, Goemon, Fujiko, Miwa. 
Io bambini ne andavano matti, i ragazzi pure. Io me li guardavo dall'alba al tramonto e dal tramonto all'alba, con grande sconcerto dei miei genitori che non capivano proprio che diavolo ci trovassi. Ero fuori target di tre anni buoni, ma non ero l'unica della mia età cui piacevano - comunque i miei compagni di liceo sapevano sempre benissimo dio cosa stavo parlando, quando ne parlavo.

Verso la metà degli anni '80 la febbre mi era quasi del tutto passata: avevo altre cose da fare, passavo molto meno tempo in casa, i robot e le invasioni spaziali erano ormai in netto declino e poi c'era... non so... qualcosa. Insomma, i cartoni animati giapponesi mi piacevano molto meno, anche se ogni tanto su una televisione locale beccavo qualche puntata di Lamù** e qualcosina delle serie storiche. Ma si sa che tutte le mattane passano, prima o poi.

Cos'era successo davvero lo capii soltanto anni dopo: erano cambiati i criteri di adattamento. Stavano nascendo le reti Fininvest, e a dirigere il settore per ragazzi era arrivata Alessandra Valeri Manera - persona probabilmente rispettabile sul piano personale, ma figlia del suo tempo, nonché naturalmente tenuta a seguire le regole dell'azienda per cui lavorava.

Cambiarono i titoli, e improvvisamente fu tutto un fiorire di Kiss me, Licia, E' quasi magia Johnny, Evelyn e la magia di un sogno d'amore, laddove in originale i titoli erano decisamente meno zuccherini. Cambiarono le sigle, che in verità non erano mai state capolavori (nemmeno quelle originali giapponesi, in verità) ma che avevano conosciuto decisamente momenti migliori - chi si è trovato ad ascoltare a tradimento la sigla di Kiss me, Licia cantata da Cristina D'Avena e non è schiantato sul colpo per diabete fulminante sa cosa intendo. Cambiarono i nomi dei protagonisti (in E' quasi magia Johnny non solo Kyosuke diventò Johnny, ma Madoka e Hikaru diventarono Sabrina e Tinetta) e tutto cominciò ad appiattirsi assai: i dialoghi dei personaggi erano spesso molto insulsi ma i vari monologhi con cui i personaggi in questione analizzavano i propri sentimenti (con profondità di analisi degna di una pozzanghera di città) erano anche peggio e c'erano spesso lunghi, lunghissimi momenti in cui l'immagine era ferma. Ogni tanto facevo qualche tentativo se proprio non avevo altro da fare (per esempio se ero a casa con il raffreddore; 
con molte serie ricordo di aver fatto almeno un onorevole tentativo, ma di non aver mai retto una puntata dall'inizio alla fine. Semplicemente, mi annoiavo a morte).
Cambiarono i criteri di scelta dei titoli e molte opere assai rinomate nei circuiti degli appassionati non arrivarono affatto in televisione. In qualche caso addirittura Mediaset comprò i diritti di serie come Ranma, per poi lasciarle nel cassetto - col risultato che Ranma in versione animata è circolato pochissimo, solo molti anni dopo e in circuiti minori (ed era invero una serie impossibile da domare, perfino peggio di Lamù).

Nel contempo ci si accorse che i cartoni giapponesi erano violenti*** e con scene di sesso troppo esplicite****. Ma soprattutto ci si accorse che i cartoni animati giapponesi spesso erano ambientati in Giappone - che era un grosso limite, in verità.

Nel 1993 la rivista Mangazine, giunta ormai al numero 30, pubblicò un interessantissima intervista proprio ad Alessandra Valeri Manera. La lessi e la rilessi, domandandomi prima chi aveva bevuto e quanto, e poi se davvero i miei principi in merito a censure ed educazione dei fanciulli erano così fuori del mondo come sembrava (e sì, ormai lo erano).
Visto che in rete l'intervista purtroppo non c'è, o almeno io non sono stata buona a trovarla, ne citerò qualche passo per esteso.

"In Italia i cartoni animati hanno a disposizione una fascia oraria seguita soprattutto dai più piccini, perciò il nostro intento primario è quello di tranquillizzare i genitori sul fatto che ciò che i loro figli vedranno in TV rispetti certi canoni: il bambino deve essere tranquillo e sereno mentre guarda la televisione, non deve porsi domande strane sul significato di quanto ha visto e non deve essere turbato da situazioni imbarazzanti o violente. La sera è la famiglia a decidere cosa guardare in TV, ma il pomeriggio i bambini si trovano spesso soli a scegliere i loro programmi ed è necessario che noi programmatori siamo coscienti delle nostre responsabilità. E' un po' come se avessimo una delega precisa da parte degli adulti, che si fidano del nostro modo di lavorare e di ciò che proponiamo sulle nostre reti. Non possiamo accettare che un bambino si ritrovi turbato per ciò che vede nelle trasmissioni per ragazzi e quindi è ovvio che spesso dobbiamo esercitare delle scelte che possono risultare sgradite  ai cultori di cartoni giapponesi, che hanno un minimo di 16/18 anni. Vorrei che questi ultimi capissero che in Italia il cartone animato è considerato solo come un intrattenimento per bambini e che con queste premesse pensare ad un prodotto per un pubblico adulto è assolutamente prematuro, in quanto sono pochissimi coloro che lo seguono con attenzione. E' impensabile presentare un programma di animazione per adulti, perché in Italia non c'è la cultura per farlo e neppure l'interesse".

Quando i cartoni animati arrivarono trovarono senza problemi un pubblico decisamente vasto di bambini e ragazzi che, senza particolari crisi interiori, ingoiarono tutto e ne chiesero ancora. Quindici anni dopo non c'era la cultura né l'interesse per guardare quei cartoni animati se non tra i bambini più piccoli.
Se così era (può essere, si sono viste anche cose più strane) non bastava limitarsi a pescare nel vasto repertorio di cartoni animati prodotti per bambini? O forse c'era una fascia più vasta che voleva anche qualcosa di diverso?
Soprattutto: questa descrizione dei genitori che danno una specie di delega in bianco alla Fininvest purché il bambino stia buono e non si faccia domande strane, non suona inquietante? Perché lo spetattore non deve farsi domande, specie nell'età della crescita? 

"Le trasmissioni all'interno delle quali gli anime vengono mandati in onda sono destinate a un pubblico da 6 ai 14 anni, e tutte le nostre scelte, sia in termini di tipo d'acquisto da operare che per quanto può riguardare eventuali tagli o cambiamenti di nome, sono fatte in funzione di questo pubblico specifico. I nostri tagli e adattamenti non sono mai casuali, anche perché visionare una serie , invitare degli specialisti in psicoterapia infantile a esprimere i loro giudizi, reinventare i nomi dei personaggi ecc., richiede sforzi, anche e soprattutto di carattere economico, non indifferenti: ci costerebbe molto meno acquistare una serie, doppiarla e mandarla in onda così com'è. Noi però non possiamo dimenticare il ruolo che le famiglie ci delegano nell'educazione dei minori e perciò questi nostri sforzi, che ai cultori possono sembrare addirittura controproducenti, sono un servizio suppletivo rivolto al pubblico dei minori. In secondo luogo i cosiddetti 'tagli' sono molto meno consistenti di quanto certi fan affermino, e riguardano perlopiù scene che non compromettono il senso della serie: per esempio, se sostituiamo con un fotogramma fisso la scena in cui un personaggio legge una lettera scritta in giapponese, lo facciamo perché sarebbe insensato per la maggior parte del nostro pubblico trovarsi sul teleschermo un nugolo di ideogrammi indecifrabili."

I cambiamenti in realtà erano piuttosto invasivi, soprattutto per le storie ambientate in Giappone. I momenti con l'immagine ferma spesso sostituivano intere scene, i monologhi di analisi interiore erano completamente inventati, i dialoghi alterati e tutto veniva coperto con spessi strati di melassa o annegati in grandi vasche di acqua calda. Per quel che ho potuto verificare, il prodotto di base non ne usciva affatto migliorato.

"Ci sono anche rari casi di interi episodi eliminati, ma, ripeto, sono casi estremi o comunque ben motivati, per esempio, quando tutto l'episodio raffigura scene e situazioni legate a riti religiosi diversi dai nostri, che creerebbero unicamente ansia e confusione nei bambini, oppure incentrati su usi e costumi incomprensibili per i bambini italiani. "

Siamo nel 1993. I giovani spettatori sanno che esiste un arcipelago chiamato Giappone dove si scrive con gli ideogrammi. Perché la vista di un foglio pieno di ideogrammi dovrebbe sconvolgerli? Perché dovrebbero restare traumatizzati davanti a gente che mangia con le bacchette, che paga in yen e che ha nomi giapponesi?
Perché dovrebbe andare in confusione davanti a "riti religiosi diversi dai nostri"?
Ma, se proprio: perché allora non utilizzare la famosa delega in bianco dei genitori per allargargli un po' orizzonti e conoscenze? 

"Riguardo alla questione dei nomi cambiati, ribadisco che questo non è un problema delle sole serie giapponesi, ma anche di qualsiasi altro prodotto in cui i personaggi abbiano dei nomi difficili da pronunciare o da capire per i bambini: per esempio, Yu, la protagonista di Creamy, ha un nome semplice e l'abbiamo mantenuto inalterato, ma altri personaggi, anche in serie americane o francesi, hanno dei nomi tanto complicati che non abbiamo potuto far altro che cambiarli."

Certo, i nomi dei protagonisti di un cartone animato giapponese spesso sono giapponesi, ma non ne ricordo di talmente complicati da non venirne a capo. Se poi sostituisci Hikaru con Tinetta (nome un tantino strampalato, direi) hai davvero migliorato di molto la situazione? E perché Johnny dovrebbe risultare tanto più italiano di Kyosuke?
Soprattutto, se Kimagure Orange Road***** era così complicato e costoso da adattare, non si faceva prima a prendere qualcosa che già in partenza fosse più adatto a un pubblico italiano di bambini mentecatti invece di trasformare tutto, con gran spesa e fatica, in E' quasi magia Johnny?
Perché tutti, genitori e adattatori, sembravano trovare così normale dare prodotti pesantemente adulterati alle giovani generazioni?
O anche: perché improvvisamente Valeri Manera esponeva questi criteri di adattamento, insistendo tanto su fantomatiche deleghe in bianco rilasciate da genitori tanto assenti quanto maniacalmente ansiosi?

Per quest'ultima dopmanda, la risposta è nel calendario. Il numero 30 di Mangazine uscì del Dicembre 1993, quindi era stato preparato due/tre mesi prima. Il 26 Gennaio il proprietario di Mediaset fece la sua famosa discesa in campo in politica. L'elettorato a cui si rivolgeva era un elettorato conservatore ma un po' pigro, spaventato da tutto quello che usciva dalle sue piccole esperienze quotidiano, ansioso (e le sue ansie vennero amorevolmente curate fino a renderlo sempre più ansioso e a tratti isterico verso tutto cià che era "nuovo" e veniva "da fuori"). E un buon bambino, naturalmente, è un bambino che non si fa "strane domande" e che "non era mai confuso".
Per la costruzione di questo elettorato, il circuito Mediaset lavorava già da qualche tempo.

Alterare e annacquare qualche cartone animato di provenienza straniera potrà sembrare ai più un peccato minore e apportatore di minime conseguenze negative; tuttavia, come filologa e come insegnante (ma prima di tutto come essere umano e come potenziale spettatrice) io l'ho sempre trovato una colpa assai grave.
Mi rendo conto però (stante che alla Mediaset non importava granché dei cartoni animati giapponesi se non come mezzo per attirare spettatori) che nessuno avrebbe mai avviato l'opera di ripulitura se tale opera non fosse stata richiesta e gradita da genitori improvvisamente terrorizzati all'idea che i figli scoprissero che, là fuori, c'era il mondo.

Da allora sono passati vent'anni; il mondo è cambiato (non necessariamente in meglio) e la Grande Rete ha strappato molti giovani all'abbraccio televisivo. Ufficialmente siamo diventati una cultura multietnica, mangiamo più sushi e per le televisioni passano molti meno cartoni animati giapponesi. Nei negozi e in rete si trovano in vendita anime adattate con puntiglio maniacale, talvolta così maniacale da lasciare perplessi anche i fan più agguerriti.
Sul tasso di isterismo dei genitori non so pronunciarmi, ma mi sembra in lieve calo. 
La maggior parte di loro, al momento, si preoccupa soprattutto per la crisi economica.

*da chiamarsi "anime" con fare spocchioso, se sei nel girone degli appassionati.
**titolo originale Uruseiyatsura, ovvero (all'incirca) "Gente chiassosa dalla stella Uru", storia di una bellissima aliena che si innamora di un terrestre che proprio non ne vuol sapere - non una roba molto seria, insomma. Del resto l'autrice era Rumiko Takahashi.
***Il tasso di tolleranza per le situazioni violente nei prodotti destinati ai bambini subì un netto calo in quegli anni, insieme ad un proporzionale aumento del tasso di ipocrisia generale - ricordo che venne dibattuto se fosse lecito far vedere nei telegiornali i bombardamenti nella ex-Jugoslavia, a rischio di traumatizzare i fanciulli. Sarebbe stato interessante sentire, a tal proposito, l'opinione dei fanciulli ex-Jugoslavi cui ogni giorno cascavano le bombe in testa.
****Cioè, esplicite... c'erano delle scene d'amore e ogni tanto qualcuno faceva la doccia o restava in abiti succinti, e assai raramente questo qualcuno aveva ottant'anni. Tutto ciò c'era anche prima, solo che nessuno ci faceva gran caso, alla fine degli anni '70 (o, se pure ci faceva caso, veniva rapidamente messo a tacere).
*****Che si basava principalmente su un triangolo mai del tutto risolto nel corso della serie

domenica 17 agosto 2014

17 Agosto 2014 - Giornata della valorizzazione del Gatto Nero


Se il mondo andasse come dovrebbe non ci sarebbe alcuna necessità di una giornata specifica per la  valorizzazione del gatto nero ed egli verrebbe valorizzato ogni singolo giorno dell'anno, com'è giusto e come molti di noi già fanno. 
E tuttavia le statistiche raccontano che negli USA il gatto nero è meno adottato e più facilmente soppresso degli altri gatti, mentre qui circolano storie inquietanti su gatti neri usati per le messe nere - e si spera che siano solo leggende metropolitane, ma è chiaro che se c'è gente talmente idiota da evocare gli spiriti maligni, come se intorno a noi ve ne fosse carenza, allora questa gente può essere anche abbastanza idiota da coinvolgere dei poveri micetti tanto innocenti quanto belli e dolci.
Dunque un augurio a tutti i gatti neri
(ma anche agli altri gatti, loro pure spesso vittime della stupidità umana). E apprezziamoli perché sono belli e cari e, come ogni gatto, portano gioia e vibrazioni armoniche in ogni casa così fortunata da accoglierne uno o più di uno.

martedì 12 agosto 2014

Manuale del Perfetto Insegnante - Perché gli insegnanti lavorano così poco

Un insegnante, qui ritratto mentre scavalca l'ennesima insidia della lezione

Il contratto di lavoro dei docenti prevede un orario in classe piuttosto contenuto: 18 ore per chi insegna alle medie e alle superiori, 22 alle elementari, 25 alle materne. 
Ci sono poi altre ore aggiuntive legate alla programmazione, agli organi collegiali, ai colloqui con i genitori eccetera - rigorosamente in assenza di alunni. 

Di recente è invalso l'uso di guardare con aria corrucciata gli insegnanti chiedendo "Ohibò, perché lavorate così poco?". Tal domanda è fatta di solito da persone che non lavorano nella scuola.

E' invalso anche l'uso da parte degli insegnanti di giustificarsi spiegando che le 18 (o 22, o 25) ore sono "la punta dell'iceberg" e che molte altre preziose ore se ne vanno per preparare le lezioni e correggere le prove scritte, scrivere relazioni eccetera. 
Tutto ciò è vero, ma solo in parte: talvolta le lezioni sono lunghe e complesse da preparare, talvolta possono essere tranquillamente improvvisate, magari sulla scorta di una preparazione precedente elaborata negli anni o sulla base di conoscenze che non richiedono alcun ripasso, o al massimo un ripasso minimale. Non tutte le materie richiedono le stesse ore di preparazione, non tutte le classi richiedono lo stesso lavoro preventivo, non tutte le prove scritte sono lunghe da correggere - senza contare che il numero delle prove scritte necessarie presenta spesso un certo margine di discrezionalità. 
Le 18 ore (o 22, o 25) da passare in classe non hanno invece alcun margine di discrezionalità. C'è un orario, distribuito su "non meno di cinque giorni" (e c'è il suo motivo, se non può essere compattato più di tanto) e l'unico modo di scansarlo è mettersi in malattia.

Il motivo per cui sono solo 18, o 22, o 25 è che anche così sono tante. E faticose. E richiedono un grosso lavoro di improvvisazione, sempre.
E improvvisare stanca, e logora.

Ogni insegnante, nel corso di ogni singola ora di lezione, deve prendere una grande quantità di decisioni, spesso del tutto impreviste. Ogni insegnante interagisce con un numero di alunni che va all'incirca tra i 15 e i 30. Ognuno di questi alunni ha meccaniche sue personali. Ognuno di loro può combinare un disastro epocale in pochi secondi, o gettare di punto in bianco il docente di turno in un mare di incertezze e nel panico più totale; ognuno di loro può sentirsi male, scivolare, rompersi l'osso del collo, picchiare o insultare quasi all'improvviso un compagno, causare o subire un incidente anche grave, sia fisico che diplomatico. Non importa essere in una classe di quelle dette "di frontiera", dove droga e coltelli possono entrare in scena da un momento all'altro (anche se droga e coltelli possono apparire all'improvviso pure in classi che "di frontiera" non hanno proprio un bel nulla). Per mandare tutto nel casino più totale bastano una ventina scarsa di bravi bambini mediamente educati e di buon umore.
Non è necessario tagliarsi fino all'osso o avere una crisi epilettica, per lasciare morti e feriti sul campo di battaglia. 
Lavorare con i ragazzi è rischioso. E' rischioso stando in classe, ed è rischioso portandoli fuori: in giardino a giocare, in palestra a correre, al Museo di Matematica per un rispettabile  corso sul teorema di Pitagora, il rischio è sempre in agguato. Senza averne nessuna intenzione i ragazzi si possono ferire, pestare, danneggiare oggetti di valore incalcolabile, fare gran danno o subirne.

Anche fare lezione è pericoloso. Anche solo cercare di farla. Le crisi emotive sono sempre in agguato, i rapporti possono deteriorarsi gravemente nel giro di pochi minuti. Se l'insegnante ha una buona ispirazione può risolvere la crisi in altrettanti cinque minuti e dopo il sole splende più di prima. Se l'insegnante ha un ispirazione sbagliata, se non capisce cosa c'è in gioco (ed è difficile che lo capisca, anche se a volte misteriosamente il lampo di genio arriva) può combinare un disastro epocale. A volte una semplice risposta sbagliata basta e avanza a deteriorare l'ambiente di lavoro, rovinare il rapporto con i singoli e col gruppo, trasformare un piccolo screzio in un rancore che durerà. A volte, per rimediare la risposta sbagliata, occorrono mesi di paziente lavoro. A volte non c'è lavoro che tenga, e per molto tempo (o per sempre, cioè finché durerà la classe) i rapporti sono compromessi. Spesso l'insegnante ferisce, spesso viene ferito. A volte viene preso di mira e sistematicamente perseguitato, a volte deve cercare di intervenire perché non sia preso di mira qualcuno degli alunni - ed è sempre un momento molto critico, dove il disastro, più che incombere, ride apertamente pregustando lo spettacolo a venire (che quasi sempre sarà all'altezza delle più pessimistiche aspettative).

Insegnare è faticoso. Per tutti, in tutte le materie. Anche quando l'insegnante tira al risparmio e stabilisce che chi lo segue, bene, e chi non lo segue son cazzi suoi.

A volte l'argomento, la materia, l'anno scolastico, vengono affrontati male e ci vogliono mesi per rimediare - se si riesce a rimediare. La classe si dispera, i genitori si disperano, gli esercizi continuano ostinatamente a non tornare e non importa con quanta cura sono stati spiegati e rispiegati. Quel che per anni ha funzionato con tutte le seconde (o le terze, o le quinte) improvvisamente non funziona più.

A volte gli alunni fanno delle domande. Niente di strano che facciano delle domande, in teoria sono lì per quello. A volte l'insegnante non sa rispondere, ma quello è il meno - si può sempre cercare di informarsi e riprendere l'argomento più avanti.
Ma quando le domande riguardano questioni come il Bene e il Male, la Vita e la Morte, Dio, l'Etica, per tacere della politica e della cronaca e di come nascono i bambini... ecco, quelli possono essere davvero momenti interessanti per chi sta in cattedra. Prima ancora di sapere che risposta dare, c'è da decidere se rispondere o no. Non c'è tempo per riflettere. Si deve improvvisare, ma le conseguenze dell'improvvisazione rischiano di trascinarsi per tutto l'anno, o per tutto il ciclo.

E non ci si può fermare perché, comunque sia, lo show deve andare avanti.

Le 18 ore (o 22, o 25) non sono la punta dell'iceberg. Sono i nove decimi dell'iceberg e il Titanic rischia regolarmente di schiantarcisi contro. Una buona mattinata di scuola può ridurre l'insegnante come un panno appena centrifugato. Un panno piuttosto stressato, tra l'altro. 
Quando le cose non funzionano, quando il voltaggio delle classi è troppo alto e non si riesce a tenerlo a bada, allora arriva il famoso (per gli insegnanti) burnout. Che sta in agguato proprio lì, in quelle 18 (o 22, o 25) ore, e assai più raramente nelle ore in cui, tranquillo, al calduccio, con una buona musica in sottofondo, l'insegnante prepara la lezione sugli oceani o sul DNA.

Tutto il mondo è un palcoscenico, e la scuola fa la sua parte.


Manuale del Perfetto Insegnante - Di come sia invero assai complesso valutare quali siano gli Insegnanti Più Meritevoli e ricompensarli per la loro meritevolezza


Le montagne erano ancora giovani sotto la luna e già si parlava delle pingui ricompense da assegnare agli Insegnanti Più Meritevoli. 
Da allora non sono stati fatti grandi progressi in proposito, e le promesse sono rimaste promesse. Ciò  non è da attribuirsi soltanto ai consueti motivi di cui va tenuto conto in cotal questioni - ovvero che promettere ricompense è senz'altro più facile ed economico che erogarle, oppure che talvolta una promessa, per quanto scarsamente credibile, aiuta almeno all'inizio a far digerire tagli e decurtazioni dei più vari tipi; perché per il caso degli  incentivi da attribuirsi ai docenti meritevoli sussistono anche altre difficoltà oggettive, che si possono in sintesi rubricare tutte sotto la voce "E come diamine si fa a riconoscere gli insegnanti effettivamente meritevoli?".

All'apparenza sembra un falso problema: perché a (quasi) tutti sembra facile riconoscere di primo acchito gli Insegnanti Meritevoli. Che problema c'è? Sono quelli bravi, giusto? Quelli che si sa che sono bravi. 

E tuttavia, al momento di individuare questi Insegnanti Meritevoli, si avverte la necessità di un parametro un tantino più trasparente del "si sa che sono bravi" - qualcosa, insomma, che sia possibile verificare con i cosiddetti criteri oggettivi, giusto per essere ragionevolmente sicuri che il docente X non sia classificato come Meritevole solo in quanto strettamente apparentato con l'onorevole Y. 

Iniziamo con la preparazione, che all'apparenza sembra relativamente facile da indagare. Dopotutto, si finisce in cattedra perché si è presa una laurea o apposito diploma in una determinata disciplina o in una determinata scuola e poi si è superato un concorso. 
E già lì cominciano i problemi, perché, se tutti i canali di abilitazione sono considerati concorsi, si sa che, almeno in Italia, ognuno può essere concorsato in almeno cinque modi diversi, a seconda della legge sull'arruolamento che vigeva al momento i cui il docente è diventato tale. Accanto al focolare, la sera, sbucciando castagne, si raccontano casi di gente finita a insegnare greco al liceo classico dopo avere fatto una tesi su Pippi Calzelunghe sgusciando abilmente tra le maglie della legislatura. Chissà se è vero, ma comunque si racconta; e una volta che lo Stato ti ha abilitato all'insegnamento perché così gli girava, non può venirti a dire sette anni dopo che il tuo corso di studi fa di te un docente Non Meritevole - senza contare che una tesi su Pippi Calzelunghe non impedisce di studiare il greco fino a saperlo in modo meraviglioso. 
Si può, certo, verificare l'eventuale curriculum fatto dopo il corso di studi di base. Se hai fatto un dottorato sull'accelerazione delle particelle si suppone che tu sia al corrente dei principali fatti della fisica, se hai al tuo attivo tre pubblicazioni sull'epigrafia latina si dà per scontato che tu abbia una certa dimestichezza con il latino eccetera. 

Tuttavia, il fatto che X sappia decifrare nel migliore dei modi le epigrafi romane non accerta in alcun modo che sappia insegnare il latino. Ma siccome l'Insegnante Meritevole prende uno stipendio per - appunto - insegnare sarebbe forse il caso di insistere su quel tasto, perché è cosa nota che sapere qualcosa e saperla insegnare sono due cose assai distinte. 

Certo, la preparazione si potrebbe verificare con gran cura prima  di mandare qualcuno in cattedra - davvero, sarebbe una buona idea. Si può anche continuare a verificare, a scadenze regolari, dopo che il docente X ha cominciato ad insegnare. Ma al momento nella scuola italiana non si fa, e dunque non è su questa base che si può attribuire la qualifica di Insegnante Meritevole - anche perché interessa che l'insegnante, meritevole o meno, abbia una preparazione adeguata a ciò che insegna, e a quel punto occorrerebbe stabilire se conoscere le iscrizioni latine ne fa un insegnante migliore o peggiore di chi delle epigrafi latine si è interessato con grande moderazione ma magari si è dedicato soprattutto a trovare tecniche e modi di insegnamento che rendessero digeribili ai suoi alunni le cinque declinazioni, le quattro coniugazioni,  la perifrastica attiva e passiva e tutti gli annessi e connessi del caso.

Quando si arriva agli altri criteri di valutazione, ci si ritrova in un pantano al cui confronto i  criteri di valutazione della preparazione curriculare sono un praticello verde di velluto dove ognuno riesce a muoversi con grande disinvoltura.

Che dire ad esempio della capacità di insegnare? O della scelta del programma (che va pure a cozzare contro l'irrinunciabile libertà di insegnamento, in base alla quale il docente (che è l'unico a conoscere la classe per quel che riguarda la sua materia) stabilisce programma e argomenti? O dei risultati delle classi che sono legati prima di tutto alla variabile dell'impegno che i singoli studenti sono disposti a dedicare allo studio ma anche a questioni non secondarie di apprendimenti precedenti e di livello sociale e culturale? E' noto che lo stesso insegnante può sortire risultati assai diversi a seconda della classe e della scuola, e definirlo Meritevole in base a una quota a percentuale (destinata a variare a seconda degli anni) non sembra un sistema eccezionalmente valido.

Tanto meno sembra valido, come criterio, la disponibilità a fare ore supplementari o ad impegnarsi in attività extracurricolari, essendo la prima talvolta legata a questioni assai strettamente economiche  e la seconda non necessariamente collegata alle capacità didattiche: perché un buon organizzatore non è necessariamente un docente più meritevole di chi non sa o non vuole trovare il tempo da dedicare ad attività che magari intralciano il lavoro in classe.

Infine, resta il grandissimo dilemma di chi sarebbe qualificato a separare gli Insegnanti Meritevoli dai Meno Meritevoli. Il Dirigente Scolastico, la cui stima verso un docente è spesso ancorata all'unico parametro della quantità di genitori che eventualmente il docente può irritare? I genitori, che solitamente di quanto avviene a scuola sanno solo quel che gli  viene raccontato dai figli? I colleghi, in palese conflitto di interessi? Gli alunni, che oltre a un conflitto di interessi ancor più vistoso sull'argomento sono spesso mossi, più o meno consapevolmente, da un insieme di sentimenti non sempre razionalissimi che per loro sono strettamente collegati alla questione "scuola"? Una rappresentanza scelta di tutte queste categorie*, magari integrata da un altrettanto scelta rappresentanza di coniugi, amanti occasionali, amici d'infanzia, parenti e negozianti del quartiere di residenza?

Laddove sembra questione molto complessa quella di una divisione tra Insegnanti Più Meritevoli e Meno Meritevoli, sembrerebbe invece relativamente facile individuare quei pochi insegnanti Apertamente Immeritevoli che si rendono colpevoli di comportamenti del tutto inadeguati, e che raramente subiscono sanzioni ma che vengono convinti (o che, più spesso, si cerca di convincere, non sempre con grandi risultati) a cambiare scuola**,  magari aiutandosi, invece che con Grandiose Promesse mai mantenute di Futuri Severissimi Regolamenti Sanzionatori, con l'impiego di un piccolo contingente di personale esterno alla scuola ma qualificato a eseguire periodiche ispezioni. Ciò senz'altro non basterebbe a garantire ad ogni scuola una fornitura completa di insegnanti adorni di ogni pregio, ma potrebbe sortire spesso l'avvio di circuiti virtuosi e sollevare molte scolaresche innocenti da situazioni invero assai disagevoli. 
Per quanto apparentemente semplice, tuttavia, questa banale soluzione non sembra essere mai stata presa in considerazione, almeno negli ultimi decenni***. 

*per quanto sembri davvero incredibile a dirlo, per qualche settimana qualche anno fa corse effettivamente la voce, mai davvero confermata, che la scelta sarebbe stata appunto compiuta da tutte queste componenti. Si narra (ma forse è solo una leggenda) che in quell'occasione perfino i sindacati rimasero senza parole. 
**e che non di rado vengono appunto rimpallati da una scuola all'altra fino al tempo della pensione, a scarsissimo vantaggio dell'utenza.
***si racconta (ma chissà se è vero) che un tempo costoro esistessero. Stando a questa leggenda, erano chiamati Ispettori. Non disponiamo però di prove concrete, nemmeno archeologiche.

martedì 5 agosto 2014

E la legge salterà con te (Boing! Boing! Boing!)

Talvolta le leggi prendono il nome dai loro autori o dall'argomento che trattano, talvolta da altri elementi

Si sa, è cosa davvero nota a tutti, che l'Italia ha grandissima necessità di  riforme costituzionali che ammodernino le istituzioni del paese. Ciò avviene da più di vent'anni, tanto che all'orale della mia prima abilitazione (1991) una domanda riguardò proprio il modo migliore, a parer mio, di discutere su questi argomenti con i ragazzi. Sgusciai via come meglio mi riuscì con una vaga dichiarazione sull'importanza di essere chiari e precisi. In realtà in cuor mio ero decisissima a non tormentare mai le eventuali scolaresche con cui mi fossi ritrovata ad avere a che fare con quella robaccia: conservavo un ricordo davvero soporifero delle poche lezioni sulla Costituzione che mi avevano inflitto alle medie, e ricordavo benissimo il sublime disinteresse con cui (non) le avevamo seguite. Alle medie, si sa, i ragazzi non si interessano di queste cose, né di politica in generale. E' troppo presto. Per la politica, ci sono le superiori.

Parecchi anni dopo, al secondo giorno della mia prima supplenza, mi ritrovai senza preavviso a spiegare non so cosa sui problemi che può avere un governo a maggioranza ridotta e sulle difficoltà di far passare le leggi in un bicameralismo perfetto (che a malapena sapevo cosa fosse). Scrivo che mi ci ritrovai perché il discorso non era certo partito da me. Il silenzio assorto con cui mi ascoltarono e la tempesta di domande che seguì mi rimasero impressi. Forse, mi dissi, i tempi cambiavano e magari una terza media particolarmente sveglia poteva nutrire qualche curiosità in merito. Chissà?

Gli anni passarono. Venne avviata, in un profluvio di polemiche, una Grandiosa Riforma Giudiziaria (che non andò mai in porto). Poi fu fatta una Grandiosa Riforma Costituzionale (che venne bloccata perché non passò al referendum). E ogni due per tre si decideva di avviare il presidenzialismo e nello stesso tempo di bloccare la deriva presidenzialista, in entrambi i casi arenandosi quasi subito. Le commissioni bicamerali discutevano molto, senza addivenire mai ad alcunché di concreto. La destra sosteneva che la Costituzione andava riformata (ma senza riformarla), la sinistra sosteneva quasi in contemporanea che andava riformata ma che non andava riformata, e ancor meno riusciva a cavare un qualche ragno dal buco in proposito.
Ormai gli alunni che hanno assistito alla mia prima lezione sulle difficoltà di una maggioranza ridotta vanno per la quarantina, e immagino che alcuni di loro abbiano figli ormai in procinto di sbarcare alle medie.
Nel frattempo, io lavoro sulla Costituzione così com'è.
Se, caso mai, un giorno si decideranno a cambiarla mi faranno un fischio e mi regolerò di conseguenza.

Col tempo mi sono fatta le ossa. Ho iniziato con qualche lezione in Terza che prendesse spunto dagli avvenimenti di cronaca: Stati Uniti e Francia che eleggevano il Presidente (e per entrambi era sembrato che il Presidente avrebbe potuto essere una donna); crisi di governo ed elezioni anticipate, leggi non firmate dal Presidente della Repubblica e rimandate alle Camere, referendum, diritto del parlamentare di cambiare partito se e quando gli pareva... infine mi sono stabilizzata su una routine che prevede in Prima la piramide degli enti locali e qualche dato istituzionale di base in pillole, in Seconda la nascita della costituzione inglese, i Tre Poteri, il patto sociale, l'Inno d'Italia e lo Statuto Albertino più qualche cenno di costituzione americana e delle prime costituzioni francesi, in Terza le due camere, l'iter di una legge, nascita e morte di un governo (con elezioni incluse), i poteri del Presidente.
Questo sistema, ho scoperto, ha anche dei ritorni didattici non indifferenti: i ragazzi si abituano a usare un linguaggio preciso e si orientano meglio nel programma di storia e pure in quello di geografia; inoltre sanno che prendere un voto di storia alto su quelle lezioni è relativamente facile - basta la pazienza di mandarsi tutto a memoria - e questo permette ad alcuni di sbarcare la sufficienza a storia per l'ammissione all'esame, ad altri di alzarsi il voto. Con mio infinito stupore, sono quasi sempre molto più interessati di quanto avrei mai osato credere. E' possibile che vent'anni di continue polemiche e contropolemiche in materia abbiano ottenuto l'effetto di risvegliare in loro una qualche curiosità sull'argomento. O magari era la mia classe delle medie ad essere particolarmente addormentata, chissà.

Quest'estate però mi stanno prendendo in contropiede.
Si sono messi a fare riforme costituzionali, e fin qui niente di nuovo: sono vent'anni e passa che ci provano. 
Sembra però che questa volta ci stiano riuscendo - ho scritto sembra. Ma non in tempo per il nuovo anno scolastico, perché la legge deve ancora fare tre letture in parlamento più successivo referendum. 
Personalmente sono un po' contraria: sia alla riforma del Senato che al referendum, perché sono affezionata all'idea del bicameralismo perfetto e perché al momento di andare a votare non so se sarò in grado di fornire un parere valido - istituzionalmente sono conservatrice, a lasciarmi fare saremmo ancora non tanto allo Statuto Albertino, bensì alla votazione per alzata di spada secondo l'uso longobardo, magari estesa anche alle donne. Forse, più che conservatrice, sono soltanto pigra. Insomma, io per prima non mi fido del mio parere per queste cose, non so perché dovrebbero fidarsene gli altri. Del resto, il mio mestiere è (anche) studiare le costituzioni, non certo farle - per buona sorte della collettività.

Se, e ho scritto se questa Nuova Grandiosa Riforma del Senato dovesse andare in porto, come minimo dovrò spiegare il Vecchio Senato, il Possibile Nuovo Senato, l'iter di riforma costituzionale, la questione dell'ostruzionismo parlamentare... e la Legge Canguro. Il tutto con in testa il vecchio spot pubblicitario delle calzature Canguro e il suo irresistibile refrain "e il canguro / salterà con te", ma senza nemmeno la soddisfazione di cantarlo in classe perché i ragazzi sono troppo giovani per conoscerlo.

Davvero, il nostro lavoro diventa di anno in anno sempre più difficile e stressante.

venerdì 1 agosto 2014

Maschi = Femmine. Contro i pregiudizi sulla differenza tra i sessi - Cordelia Fine


Per noi che siamo state ragazzine negli anni 70 era noto e scontato che tutto quel ciarpame culturale rubricato sotto il titolo "si sa che le femmine sono così" era roba da cavernicoli, destinata a sparire nel giro di pochi anni sotto l'effetto di un educazione sana ed equilibrata, che avrebbe finalmente permesso alla natura femminile di dispiegarsi in tutte le sue infinite potenzialità.

Com'è noto, le cose sono andate diversamente: se in effetti l'educazione si è fatta un po' più equilibrata, nel senso che le donne occidentali hanno mantenuto l'accesso all'istruzione di base, al voto e all'autonomia economica, passata la prima metà degli anni Ottanta i pregiudizi legati alla Vera Natura Maschile e Femminile sono proliferati peggio degli armamenti atomici. Al giorno d'oggi le Scientifiche Certezze su come siano strutturate le menti maschili e femminili spuntano da ogni dove, mentre i più insulsi stereotipi legati al genere - roba che negli anni Cinquanta sarebbe stata guardata con vivo compatimento - si vendono a un soldo alla dozzina, quando pure non li regalano in omaggio con le buste di figurine.
Abbiamo così riscoperto le buone, vecchie frasi fatte che ti spiegano come le donne siano più consapevoli dei loro sentimenti e più portate all'empatia, meno aggressive, più casalinghe, meno avventurose, più protettive, più propense agli studi umanistici rispetto a quelli scientifici, meno logiche, più sbrilluccicanti, più portate alla cura degli altri e qui smetto per compassione verso chi legge*.
Tra le cause (o gli effetti) di questo movimento inverso del pendolo rientrano anche gran copia di studi scientifici sulle innate differenze tra i due sessi, che sorprendentemente hanno coinciso assai con le teorie altrettanto scientifiche che da secoli i maschi han fatto circolare sulle femmine. Più o  meno forzati, questi studi hanno condotto a capolavori quali Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere oppure Codice DeU: Codice donna e uomo.

Con l'andare degli anni, e nonostante tutti i miei sforzi, questi capolavori sono approdati fino a me e a malincuore ho finito per dargli una scorsa, almeno fin quando lo stomaco teneva**. E ogni volta alla mia femminile testolina multi-tasking si affacciava il dubbio che, in questi esperimenti scientifici, gli sperimentatori vedessero quel che volevano vedere - come, secondo il racconto del mio professore di filologia romanza, successe anche con l'atomo, che agli inizi del secolo, quando gli scienziati erano colmi di certezze e senso dell'armonia, aveva una bellissima forma simmetrica e regolare ma che con gli anni è diventato una struttura decisamente varia e irregolare che rispecchia il nostro senso di frantumazione della realtà; senza contare che  nemmeno alla mia illogicità femminile riusciva a sfuggire che l'umanità, nel passare dalle caverne ai grattacieli, ha accumulato una cultura e dei condizionamenti che hanno un peso abbastanza forte nella sua struttura mentale, che per superare certi condizionamenti potrebbero essere necessarie un buon numero di generazioni e che quindi, ancora lontani dalla metà del guado, pretendere di fare un analisi della reale natura maschile e femminile è assai prematuro visto che al momento dell'educazione sana ed equilibrata - nel senso di "priva di pregiudizi di genere" - ancora non s'è vista nemmen l'ombra di una traccia.

Noto che ho già scritto tre paragrafi e non ho ancora detto nulla del libro di cui voglio parlare (sarà forse dovuto alla mia femminile loquacità?). 
Ad ogni modo la tesi di fondo dell'autrice è proprio questa: al momento il rumore di fondo è troppo alto perché possiamo avere idee chiare in proposito. Il titolo quindi è provocatorio: non sappiamo se il fatto di essere maschi o femmine ci rende emotivamente e intellettualmente diversi per genere, e non sappiamo nemmeno il contrario, perché la questione è assai difficile da analizzare.
A questo proposito i capitoli più interessanti sono quelli dedicati alle differenze tra cervelli maschili e femminili: la letteratura in merito è stata pazientemente ripresa in mano, testo per testo, analizzata e smontata, rivelando talvolta un notevole tasso di approssimazione*** già alle origini, talvolta un ancor più alto tasso di approssimazione nelle sue interpretazioni, per tacere del fatto che i campioni studiati spesso erano... come dire... un po' ridotti numericamente - e che tutti gli umani studi sul funzionamento del cervello presentano a tutt'oggi ampie zone di incertezza sulle conclusioni che se ne possono trarre.
Altri capitoli tuttavia, a partire dal primo, presentano grandi motivi di interesse:  di come sia facile influenzare anche i più semplici test attitudinali con pochissimi accorgimenti iniziali - ad esempio i celebri test sulla maggiore attitudine maschile alla matematica e agli studi scientifici; di come in generale, nei test e nelle risposte aperte chi viene testato mostra una curiosa tendenza a uniformarsi all'immagine di sé che ritiene gli altri abbiano di lui o di lei (un tema su cui il nostro Pirandello avrebbe avuto davvero molto da dire***), e che a sua volta può essere influenzata anche da stimoli minimi prima del test; di come il muro che compare davanti a certe scelte lavorative femminili incoraggi, diciamo così, le donne verso determinate carriere; di come sia praticamente impossibile anche ai genitori meglio intenzionati, impostare per la prole un educazione neutra riguardo al genere, a meno di non vivere su un eremo dell'Himalaya*****perché la società circostante influenza comunque con forza le scelte del bambino.

Al di là del tema trattato, che per molti è interessante di per sé, il libro racchiude molti e inquietanti interrogativi sulla forza con cui i preconcetti dei ricercatori possono influire sulle famose ricerche scientifiche oggettive, anche quando i media non ci mettono del loro nel divulgarne i risultati dopo qualche inevitabile aggiustamento.

Consigliato a uomini, donne, genitori e figli - ma anche i nonni potrebbero trarne un certo giovamento- oltre che agli insegnanti. Anche se specialistico, il testo è scritto in modo scorrevole e chiaro, e può funzionare anche come lettura da spiaggia o per un escursione in montagna, se si ha accanto qualcuno con cui parlarne.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homamademamma, e auguro un felice fine settimana a tutti, con caldo e sole ma serate giustamente fresche.
Che i gelati siano con voi!

*da questo si può ammirare la mia propensione all'empatia. Del resto, sono una donna
**ahimé, ho uno stomaco resistentissimo (forse una tipica caratteristica femminile?)
***detta anche cialtroneria, in gergo unisex
****pur essendo maschio, e perciò inadatto all'introspezione
*****mi sento in dovere di precisare che l'eremo e l'Himalaya li ho tirati in ballo io, non l'autrice; garantisco però che il concetto è quello.