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venerdì 31 marzo 2023

Postille dantesche

Ebbene sì, esiste anche un manga per la Divina Commedia.
L'ha disegnato nientemeno che Go Nagai, e ha il pazzo titolo  di  Mao Dante.

Da quando insegno mi sono abituata a considerare Dante come una marchetta inevitabile. Non so come funzioni altrove, ma in provincia di Firenze gli alunni scalpitano per avere Dante praticamente dal primo giorno della Seconda, e guai a non darglielo subito.
Dopo un po' di solito l'entusiasmo cala, almeno con me: l'inizio piace sempre molto, tutti si entusiasmano alla porta dell'Inferno, tutte le seconde scrivono sulla porta della classe un bel cartello con il celebre Lasciate ogni speranza o voi c'entrate (ogni scuola media ne ha qualcuno).
Passati Paolo e Francesca però l'entusiasmo cala, specie se in cattedra c'è un impiastro che porta brani aggiuntivi che non hanno traduzione e che apprezza soprattutto la parte teologica. Si sopporta Ulisse, e poi in qualche modo lascio sempre perdere. Onestamente, si tratta di un testo difficile per dei ragazzi di tredici anni.
Quest'anno però ho tenuto duro e ho torturato i ragazzi senza ritegno perché la Seconda Sfigata è (ma forse potrei dire era) una classe del tutto sprovvista di flessibilità linguistica, e anche piagnere al posto del più moderno piangere bastava a mandarli in crisi. Io invece volevo che si abituassero a capire che le parole si scrivono in più di un modo, che la lingua cambia e che le radici linguistiche portano frutti anche molto variabili - insomma ho usato Dante come una specie di manuale per la lingua italiana (è possibile, considerando le sue inclinazioni, che la cosa non gli sarebbe nemmeno dispiaciuta). E dunque liste di parole sconosciute, un po' di etimologia e anche la scoperta di parecchie parole che nel dialetto fiorentino sono rimaste tali e quali - e anche gli immigrati dei paesi più lontani alla seconda generazione han cadenza e lessico molto fiorentini).
Ci hanno sputato sangue ma i risultati si sono visti e più di uno, dopo qualche difficoltà iniziale, adesso naviga con una certa facilità in quelle insolite acque - ma d'altra parte anche i bravi han diritto a qualche soddisfazione a scuola, mi sembra.
E siccome quando si insegna si finisce sempre per imparare qualcosa, anche in campi dove ci si ritiene abbastanza ferrati, mi sono ritrovata a guardare la Commedia con occhi diversi - perché dopotutto per me era sempre stata un poema teologico che parlava dell'evoluzione dell'anima e di teologia cattolica, e il fatto che Dante ogni due per tre  si mettesse a chiacchierare con qualcuno mi era sempre parso più che altro un espediente per alleggerire la trattazione, magari mettendola ogni tanto in bocca a qualcun altro.
Però una mattina Orlando, dopo che avevo finito di risentire la storia di Pier delle Vigne, ha alzato la mano e ha fatto una piccola, innocua domanda:
Qual era lo scopo di tutto questo per Dante?
Lo scopo di tutto questo per me era sempre stato "descrivere l'aldilà", e ho cominciato ad abbozzare una risposta in questo senso. Ma mi sono accorta che la domanda andava in una direzione diversa: perché Dante aveva raccontato tutte quelle storie, di Tizio, di Caio e anche di Sempronio? Insomma, di tutti quei contemporanei? Perché ci spiegava che Pier delle Vigne era stato calunniato e ci raccontava le vicende del conte Ugolino, dando per scontato che la sua era la versione giusta (e come poteva non esserlo, se ce la faceva raccontare direttamente dalla defunta voce dei protagonisti?).
Nuova risposta mia personale: perché Dante voleva riscrivere la storia: questo era andato in quel modo, quell'altro aveva torto eccetera. Per ognuna di quelle anime, al centro di vicende che noi decifriamo solo con l'aiuto di ampli commentari i cui autori han dovuto lavorare come certosini, non sempre con risultati troppo sicuri, intrecciando fonti e postille, ma che all'epoca erano storie assai famose, Dante offre nuove possibilità e versioni alternative, ricostruendo qualcosa di diverso e di nuovo per il lettore, e levandosi qua e la soddisfazione di mandare all'inferno papi ancora in vita e posizionando in paradiso teologi condannati dalla Chiesa per eresia; non si limita a organizzare con gran disinvoltura l'aldilà in un raffinato sistema di gironi e cerchie collegandoli ai vari peccati e ai vari pianeti - sistema che ebbe un gran successo e che viene considerato a tutt'oggi la vera mappa dei tre regni post mortem, che fino a quel momento erano una roba piuttosto vaga (in particolar modo per il Purgatorio, che Dante ha strutturato di tutto punto sulla base di qualche possibilità piuttosto vaga) - ma ha anche fatto le pulizie di primavera per un sacco di vicende avvenute nel nostro mondo, intervenendo e normando con forza anche le vicende dell'aldiquà: questo è andato così, quello invece è andato colà, insomma un lavoro a tutto tondo. Adesso vi rifaccio il mondo per diritto e per rovescio, e ve lo rifaccio per bene, tutto tirato a lucido, consequenziale e a modo mio.
In effetti, per quel che ricordo, durante il viaggio l'unico peccato che lo aveva seriamente preoccupato per la salvezza della sua anima era la superbia - sapeva lui perché. 
Va detto comunque che questo suo tentativo di riordino ha riscosso un grande successo: di tutta quella gente con cui Dante parla nel suo viaggio ormai la versione dominante è la sua e solo qualche storico particolarmente piantagrane può azzardare, ad uso di pochi specialisti, qualche dubbio basato su grande spulciamento di polverosissime carte: per tutti i lettori della Commedia la versione di Dante è l'unica che vale la pena di prendere in considerazione - anche perché è raccontata talmente bene...
Per l'appunto io sono una storica, e per giunta molto appassionata di gialli. Così, mentre spiegavo pazientemente parola per parola le tragiche vicende del conte Ugolino per la prima volta, probabilmente ancora sotto l'influsso della malefica domanda del perfido Orlando*, mi sono posta un paio di domande, e le ho poste anche ai ragazzi:
- la storia dei figli che chiedono al conte Ugolino di mangiarli per nutrirsi, se l'è cavata dalla testa o ha qualche fonte?
(risposta: è tutta farina del sacco di Dante: in quel momento erano già murati nella torre, e certo nessuno passava da lì ogni giorno per chiedere se c'erano novità).
- il padre aveva effettivamente mangiato i figli?
Nella mia mente il celebre verso poscia più che 'l dolor poté 'l digiuno stava a indicare che il pover'uomo era infine morto di fame e non di crepacuore, e non mi ero mai capacitata che qualcuno avesse potuto tirar fuori da quelle parole la certificazione di un banchetto a base proteica.
Tuttavia mentre rileggevo il tutto per la prima volta un sospetto si era insinuato nel mio cuore: poteva essere possibile che quando i cadaveri furono ritrovati portassero i segni dei morsi del padre?
Al che era seguito un successivo dubbio: poteva essere che qualcuno avesse deciso di screditare vieppiù Ugolino raccontando che i cadaveri dei figli recassero il segno eccetera eccetera?
Ad ogni modo i ragazzi hanno facilmente individuato che la conversazione tra i figli e il conte era frutto della mente del padre, mentre per la seconda domanda han dato una pluralità di risposte sintetizzabili in 
- No, un genitore non potrebbe mai fare una cosa del genere
e
-Sì, un genitore completamente impazzito avrebbe potuto fare anche quello.
Entrambe valide, certamente. A me però interessava che si preoccupassero delle fonti e tanto li ho tormentati che alla fine, guidati passo per passo, han finito per convenire con le mie due ipotesi e anzi, per motivi più che comprensibili, tendevano ad appoggiare la possibilità di una fake legata alla volontà di screditare ulteriormente il traditore.

* che non è affatto perfido: si tratta, per quanto ne so, di un ragazzo molto solare ma anche molto riflessivo ma soprattutto di carattere assai gentile.

4 commenti:

Filippo ha detto...

Grazie per la condivisione di queste riflessioni sulla Divina Commedia. Secondo me Dante ha agito sulla base di diverse motivazioni. Fra le altre, la creazione di un’opera poetica mastodontica che l’avrebbe reso immortale. La teologiai non è sua, ma tutta desunta, tradotta dai trattati antichi. Di suo, forse, veramente c’è solo la classificazione delle anime in base ai peccati, la riscrittura della storia come dici.

Commento solo sul presunto peccato di superbia. Mi viene in mente questo passo della lettera di Giacomo: “Non sparlate gli uni degli altri, fratelli. Chi sparla del fratello o giudica il fratello, parla contro la legge e giudica la legge. E se tu giudichi la legge non sei più uno che osserva la legge, ma uno che la giudica. Ora, uno solo è legislatore e giudice, Colui che può salvare e rovinare; ma chi sei tu che ti fai giudice del tuo prossimo?” (cap. 4). Gesù dice: “Non giudicate” (Lc 6, 37). Dante sicuramente ha giudicato tutte le persone delle quali ha decretato il destino eterno. Inoltre la sua bravura poetica, la sua grandezza, il suo genio, potevano condurlo a sentirsi migliore degli altri, cioè a cadere in peccato di superbia.
Francamente, se devo dire la mia, trovo anticristiana, nonostante la sua grandezza, il suo mettere per iscritto condanne con tanto di nomi e cognomi. Solo Dio sa chi è andato all’inferno, chi in Purgatorio e chi in Paradiso.

Pellegrina ha detto...

Filippo Dante sta facendo politica con i mezzi della cultura, i soli che può ancora utilizzare in maniera quasi autonoma - perché qualche equilibrio e qualche favore ai suoi ospiti deve ben concederlo - non avendo più quelli del politico, da esiliato che si mantiene grazie alle superstiti corti feudali, anche se nessun insegnante perbene lo direbbe mai: la sua è una letteratura impegnata e quindi ovviamente di tutto il resto prende quel che gli serve e giudica quel che gli pare. Riscrivere la storia rientra ovviamente in questa poetica, insomma se sta scrivendo un romanzo storico, ovviamente in versi perché così si faceva, l’uso della storia ha un fine preciso. Forse più che storia dovremmo dire storia contemporanea, attualità e questo nella letteratura del suo tempo era certamente innovatore, pur se la poesia trattava ovviamente anche temi contemporanei. Del resto riscrive anche parecchio la propria biografia e la storia della sua famiglia. Data una cordiale antipatia per il personaggio e vieppiù per le sue interpretazioni in voga nella scuola di qualche decennio fa, non ho mai approfondito gli studi su Dante, ma la sto leggendo la biografia divulgativa scritta da Alessandro Barbero, ben documentata per poter approfondire e molto interessante per evitare prese di posizione anacronistiche. L’idea che solo dio sappia chi è andato all’inferno e chi no, non so se nel Medioevo fosse già accettata, oggi addirittura ci sono teologi convinti che all’inferno non ci sia nessuno.

Ciò detto l’idea di usare questa zavorra oltre che per allenare alla valutazione delle fonti per fare storia della lingua agli allievi mi sembra molto divertente e ancora più quella che in Toscana tutti a scuola VOGLIANO leggere Dante! Davvero un sentimento di identità radicatissimo da otto secoli fa impressione. Non riesco a immaginare in Francia degli alunni che chiedano a gran voce Pierre de Ronsard o Racine, per non parlare di Chrétien o Marie...
Oggi per Dante mi allineo sulla posizione di Guglielmo da Baskerville, quando spiega che leggere il poema non gli piacerebbe perché vi si vaneggia di cose assai lontane dalla nostra esperienza P-: diciamo che quello che mi è mancato a scuola è stata una lettura in grado di spiegarne puntualmente tutti gli aspetti teologici in maniera laica e storicamente contestualizzata. A quel punto sì, lo rileggerei volentieri.

Filippo ha detto...

Ciao Pellegrina, scusa se rispondo solo ora.
Di fatto non ho niente da aggiungere, prendo atto della tua posizione e di quella di Murasaki, in effetti mi avete aperto abbastanza gli occhi sull’‘impegnatezza’ della letteratura di Dante. Cosa che me lo rende ancor meno cordiale di prima.

Se proprio devo protrarre il dibattito, infatti, dico solo che la non cordialità nei suoi confronti è maturata negli anni non certo a causa degli studi scolastici. La cultura dominante italiana osanna Dante, e la mastodonticità della sua opera lo rende inquietante per quanto riguarda il genio poetico, tanto da scoraggiare, piuttosto che incoraggiare, chi vuole cimentarsi. Ma se lo guardiamo attraverso certe lenti appare una persona non tanto encomiabile, seppur a suo modo geniale.

La prima volta che ho iniziato ad avere dubbi è stato quando ho letto l’Odissea nella traduzione di G. Aurelio Privitera con l’importantissimo saggio introduttivo di Alfred Heubeck. Allora tale traduzione, che scardinava la solita italianista-elitaria traduzione di Vincenzo Monti, si trovava solo nell’edizione Fondazione Lorenzo Valla, oggi la pubblica Mondadori. La riflessione che fa Heubeck sul verso libero e sul verso tonico usato dagli aedi, in contrasto col verso sillabico usato dai versificatori nostrani, a iniziare da Virgilio, mi aveva aperto gli occhi sulla poesia di Dante. Il discorso è lo stesso che fa Thomas Bernhard su Albrecht Dürer (non ricordo dove). In ogni caso, si tratta del fatto che scegliere in anticipo una forma in cui ‘incastrare’ l’arte è un modo per ucciderla. Per Dante l’endecasillabo raggruppato in terzine a rima concatenata, per Dürer il partire da certe dimensioni fisse del quadro, sono costrizioni che per quanto mi riguarda nulla hanno a che fare con l’arte. È come partire da un genere e cercare poi di infilarci la materia artistica. Al contrario, sono sempre stato convinto che un autore che usa sempre forme diverse sia un autore normale, perché è il contenuto che detta la forma e non il contrario. Come quando si prende un blocco di marmo, bisogna rispettarne le nervature altrimenti si rompe, così un testo, prima bisogna buttarlo fuori, poi al massimo ‘limarlo’ ma non intercambiarne i blocchi, perché se no si snatura.

Oltre a questa idea sulla sua poesia asfissiante e claustrofobica, negli anni ho studiato Platone poi mi sono fatto frate, perciò ho avuto a che fare con vari aspetti della teologia. Ciò di cui mi sono reso conto lentamente è che, come ho detto, la teologia in Dante è tutta desunta. Il merito, se vogliamo, è quello di aver riconosciuto quella buona e di averla trasmessa; il dismerito, quello di averla usata per i propri scopi. Non possiamo ignorare le sue glorificazioni di San Francesco, San Domenico, della Madre di Dio; ma non possiamo altresì dimenticare che il suo lavoro è più politico che poetico. Qui mi date conferma tu e Murasaki.

I geni vanno studiati perché sono fenomeni della natura, ma se devo leggere qualcosa difficilmente prendo in mano la Divina Commedia, anche se un amico appassionato mi ha regalato vari libri.

Murasaki ha detto...

I vostri commenti mi sono piaciuti moltissimo e mi hanno dato vieppiù materia di riflessione. In verità non avevo mai pensato a Dante che fa politica nella Commedia, vuoi perché tendo a scordarmi che Dante è stato ANCHE un personaggio storico con tendenze politiche, vuoi perché quando parla di politica non è che mi convinca molto, e mai capirò come possa un uomo della sua intelligenza aver preso sul serio una roba come l'impero, che politicamente un gran rilievo non l'ha mai avuto - e insomma Pellegrina ha moltissima ragione.
L'idea che solo Dio sa chi va all'inferno e chi in paradiso nel medioevo c'era, visto che lo stesso Dante ne parla, e nelk canto XX del paradiso fa dire all'aquila imperiale una terzina piuttosto interessante sotto questo aspetto:
E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: CHE' NOI, CHE DIO VEDEMO,
non conosciamo ancor tutti li eletti;
e lo dice rispondendo a una domanda di Dante sul tema "ma se uno nasce sul Gange e non crede in Gesù perché nessuno gliene ha mai parlato, che colpa ne ha e perché dovrebbe andare all'inferno?".La risposta, nel suo complesso, è piuttosto inclusiva e invita gli uomini a non avere troppe certezze in materia.
Dubito però che all'epoca qualcuno pensasse che l'inferno potrebbe essere vuoto.

Invece sono abbastanza in disaccordo sul fatto che essersi scelto una forma abbastanza vincolante limiti i poteri artistici di Dante o di chiunque altro. A parte che se l'era scelta lui, e non aveva precedenti a cui sentirsi obbligato (abbiamo diversi altri poemi teologici ma erano scritti in latino, e non certo in terzine), credo che in quella forma si sentisse eccezionalmente a suo agio e tra l'altro è stata la forma preferita dagli stornellatori toscani per le improvvisazioni - senza contare che proprio Dante ci dimostra che con quelle terzine si può fare assolutamente di tutto.
E che poi a uno Dante non piaccia, mi sembra del tutto legittimo, anche perché non si è mai dato il caso di un autore che piacesse a tutti, e c'è perfino chi non digerisce Shakespeare. Pensare che il contenuto dia la forma mi sembra un pensiero piuttosto moderno, anche se magari c'era chi la pensava così anche nel medioevo e pure ai tempi del codice di Ammurabi - e c'è sempre stato chi, in assenza di forme adatte per i suoi contenuti, se n'è creata una nuova su misura per quel che voleva fare ^_-^