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venerdì 14 maggio 2021

Il Romanzo della Rosa - Guillaume de Lorris e Jean de Meun


Quel che oggi vado a presentare per il Venerdì del libro di Homemademamma è un classico dei classici, famosissimo e discussissimo per ogni dove, un vero best seller, di quelli che solo una persona afflitta dalla più totale ignoranza poteva affermare di non conoscere nemmeno per sentito dire.
Oggi invece è abbastanza sconosciuto e solo qualche addetto ai lavori può vantarsi di conoscerlo a fondo. Ai tempi d'oro in cui facevo l'università non era ancora stato tradotto in italiano, ma oggi vanta diverse edizioni (la prima del 1983), e nei Millenni di Einaudi, di cui riporto qui la copertina, c'è perfino la versione con testo a fronte. Io, più modestamente, mi sono accontentata dell'edizione economica dei tascabili Feltrinelli, che ha il gran vantaggio di costare tredici euro ed è in prosa.
Siccome in cuor mio mi sento ancora una studiosa del medioevo ci ho investito una fettina del mio bonus docenti e me lo sono letto con gran dedizione, col sistema classico del "una parola dopo l'altra, e vediamo quel che mi racconta". Di fatto, l'ho trovato una lettura molto gradevole e me lo sono spolpato in una decina di giorni - ma in un anno un po' più tranquillo probabilmente ci avrei messo meno. In più, leggendolo, c'è stato una specie di Bonus Da Compiacimento quando riconoscevo le citazioni da altri autori, che sono una vera legione (e io non le ho certo individuate tutte) che mi ha consentito di sentirmi molto colta & raffinata, che fa sempre piacere.

Andiamo per ordine. Il romanzo della rosa è un poema allegorico francese di 21.780 versi in rima con una storia un po' particolare, di due autori diversi: la prima parte fu scritta nel 1237 da Guillaume de Lorris, che poi morì e di cui si sa veramente poco. Tra le molte cose che non si sanno di lui, c'è il motivo per cui il romanzo si è interrotto: si era stancato, trovò di meglio da fare o la morte lo sorprese nel bel mezzo (ma chissà se lui pensava di essere a mezzo, o se credeva di averlo solo avviato o se era convinto di essere già a buon punto. In realtà quel che lui scrisse è circa un quinto dell'opera completa)? Chissà. 
Abbastanza sconosciuto ai più, il romanzo rimase nel suo manoscritto a dormire tranquillo per 40 anni, fin quando arrivò Jean de Meung nel 1275 che lo continuò fino a completarlo - ma naturalmente lo continuò e completò a modo suo, e la differenza nel tono è molto evidente. Qualcosa del genere è successa con l'Orlando italiano: Boiardo lo avviò in un modo, Ariosto lo completò in tutt'altro e oggi sono considerati due poemi separati.

Il poema allegorico è un genere letterario che nel medioevo andava abbastanza di moda: si raccontava una storia più o meno lineare che ne sottintendeva altre, e i protagonisti rappresentavano, o più semplicemente erano entità: il Bene, il Male, l'Amore, la Morte, le Virtù, i Peccati e via dicendo. Erano scritti in latino e in volgare, e anche la letteratura italiana ne conta uno di una certa fama, chiamato Commedia perché comincia male e finisce bene, e in seguito al titolo è stato aggiunto l'aggettivo Divina perché il soggetto è di tema abbastanza elevato (parla di Dio, appunto). Comunque il nostro è più corto, perché passa di poco i 14.000 versi - ma in compenso è molto più denso e non lo puoi leggere a botte di due o tremila versi come a volte ho fatto io col Romanzo della rosa.
Prima di proseguire con la trama vorrei fare una piccola precisazione: l'ho definito una lettura gradevole ma qui, davvero, è questione di gusti. A me vanno benissimo le storie che si snodano lentamente e dove i protagonisti stanno a lungo a dissertare sui massimi sistemi, ma se cercate una vicenda ricca di azione, con dialoghi scattanti, numerosi colpi di scena e personaggi sviluppati a tutto tondo e ricchi di luci e ombre, ecco, è meglio se cercate altrove: questa è la tipica storia dove non succede quasi niente ma in compenso tutti parlano tantissimo ma sempre a monologhi e i personaggi si sentirebbero disonorati se anche solo per salutarsi impiegassero meno di trecento versi.
Dicevo, la trama: il protagonista, che è il poeta (il primo, Guillame de Lorris, che resterà protagonista e narratore, continuando  a parlare in prima persona anche quando l'autore cambierà) dorme e fa un sogno. 
Nel sogno si alza, nella prima luce del mattino, si veste ed esce fuori a passeggio in una bella alba di Maggio. Ha vent'anni, età in cui Amore reclama il suo diritto dai giovani. E cammina in un bel praticello, attraversa un bel ruscello e vede un bel muro dipinto ma che sembra invalicabile. Trova però l'entrata, la varca e subito incontra una bella fanciulla, a nome Oziosa, che lo accoglie e lo porta in uno splendido prato dove bei giovani intrecciano liete danze. Girando per il giardino trova anche un roseto, dove un bocciolo lo colpisce in modo particolare.
E dunque mentre guarda la rosa e tutta la rimira arriva Amore, che lo colpisce con ben cinque frecce, e lo istruisce su come deve comportarsi un bravo servitore di Amore.
Innamorarsi di una rosa in boccio può sembrare insolito, ma nemmeno tanto: l'importante è la rosa, cantava uno stimato musicista quando ero bambina in una canzone dal fine doppio senso scritto niente meno che da Gilbert Becaud:


E forse non è nemmeno giusto parlare di doppio senso, perché il senso è uno solo, ma piuttosto complesso.
Dunque il nostro protagonista, in una bella mattina di Maggio, si innamora di una rosa, e a quella punterà per tutto il romanzo. La questione è seria, soprattutto quando entra in scena Jean de Meung, che trasforma senza pietà un dolce trattato d'amore in una gran discussione sui massimi sistemi.
Finché regna Guillaume si naviga in acque tranquille: il protagonista naturalmente incontra i suoi bravi ostacoli - quale amante non ne incontra, nel suo servizio al più capriccioso degli dei? - ma si dà per scontato che comunque tutto finirà bene, come sempre succede nei romanzi d'amore. Ma poi Guillaume muore e quello che Jean de Meung decide di scrivere è un ciclopico trattato sulla società e le sue storture: il servizio d'amore tutto sommato è una assurdità, l'amore deve essere libero, al servizio della Natura (che punta soprattutto alla riproduzione della specie) e dunque bando alla gelosia, alle restrizioni, ai sospetti e ognuno faccia quel che vuole in libertà, ché tutto il resto - i divieti, il matrimonio, la castità, la sottomissione femminile, le interferenze della religione - sono stupidaggini che non andrebbero tenute in alcun conto. E tutto ciò è magari molto sensato, magari posso anche approvarlo in linea generale, ma va pur riconosciuto che la bella storia d'Amore è andata irrimediabilmente a farsi friggere, tra Vecchie che esortano le giovani a darsi al bel tempo arraffando tutto quel che possono (non tanto cogliendo tutte le occasioni d'amore che si presentano loro, ma proprio spolpando i loro amanti di ogni singolo spicciolo) guardiani perbenisti che tormentano il protagonista impedendogli di avvicinare la sua amata rosa e continui inviti a diffidare dell'amore esclusivo nonché lunghe dissertazioni sulle ingiustizie legate alla società, all'invenzione della proprietà privata, alle diseguaglianze sociali e alla Fortuna mutevole e cieca che come una ruota sale e scende senza sosta tormentando gli uomini nei modi più svariati.
Interviene Amore, in difesa del suo vassallo, interviene perfino Venere, assistiamo a una battaglia in piena regola (dove i servi d'Amore sono, per quanto ben armati e prodi, sconfitti uno per uno implacabilmente da altrettanti guerrieri perbenisti) fin quando entra in scena la Natura - con il monologo più lungo di tutti dove non meno di seicento versi sono dedicati all'ardua questione del libero arbitrio e della predestinazione - e mediante un tradimento abilmente organizzato le truppe di Amore sbaragliano le difese del Castello dove la povera rosa è custodita. 
Il poeta quindi può cogliere la sua rosa, in una rapida scena dove, di nuovo, davvero non è il caso di parlare di doppio senso perché il senso è uno solo e inequivocabile. Ma il lettore, o almeno la lettrice, in cuor suo si domanda se la rosa ha una sua volontà propria o sta solo lì aspettando che qualcuno la colga, perché se la vediamo consentire aprendosi alle carezze dell'amante questo consenso sembra, diciamo, piuttosto generalista. Ma del resto molte e molte migliaia di versi ci hanno dimostrato ampiamente che Jean de Meung è un poeta interessato alle tematiche sociali, alle questioni economiche (in un modo che probabilmente Marx avrebbe trovato davvero interessante, se mai gli fosse capitato in sorte di accostarsi al mirabile testo ai suoi tempi decisamente sconosciuto) e anche ai temi dell'alta teologia, ma dell'Amore inteso in senso medievale gli importa davvero il giusto.

La lettura è affascinante, sia per la forma e il contesto sia per il contenuto: capita spesso di leggere testi di sociologia, ma leggerli in versi e su uno sfondo così fiorito è tutt'altra cosa, e la limpidezza delle argomentazioni di Jean de Meung, che ci offre un collage personalissimo di autori antichi e moderni (per i suoi tempi) accostati in modo così fresco e originale è davvero piacevole: l'intreccio di Livio, Boezio, Cicerone, Seneca, Ovidio, Alano di Lilla (che prima della lettura era per me un perfetto sconosciuto), fablieux, leggende arturiane, Roman de Renart e chissà quanta altra roba che mi sono persa perché ben presto ho smesso di controllare le note, visto che la lettura mi interessava molto di più della caccia alle fonti, finisce per comporre un quadro insolito e particolarissimo, che a più di 700 anni di distanza ha un suono molto attuale. Diciamo che mi sono ritrovata a riflettere su parecchie questioni, soprattutto economiche - che non era esattamente quel che mi aspettavo da quello che avevo sempre sentito descrivere come un trattato sull'amore, ma d'altra parte mai fidarsi troppo di come gli altri ti presentano un libro, senza contare che amore ed economia sono da sempre collegati molto strettamente, come non mancano mai di ricordarci i romanzieri inglesi.

Con questo post partecipo, come già detto, al Venerdì del Libro di Homemademamma da cui manco davvero da troppo tempo, e come sempre auguro felici letture, e soprattutto tempo libero per farne, a chiunque passi per di qua e in particolare a noi poveri insegnanti che in questo momento siamo particolarmente vessati dalla ria sorte e da infiniti impegni, avvicinandosi ormai la fine di un anno scolastico davvero complesso.

2 commenti:

Hermione ha detto...

Leggo il titolo di questo post e subito il mio cervello riproduce lo stesso titolo in (credo) francese Roman de la rose. Deve essere qualche vaga reminescenza scolastica che sedimentandosi ha lasciato solo questa traccia. Non ricordavo assolutamente nulla, né trama né temi, eppure, pare, che in qualche remoto tempo scolastico, debba averlo studiato.

Murasaki ha detto...

Esatto, è proprio lui, e credo venga citato regolarmente nelle storie della letteratura italiana perché all'inizio ci sono sempre molti confronti con quella francese, che comincia un po' prima ma influenza la nostra perché era dietro l'angolo. Anch'io ne avevo sentito parlare, ma è stato tradotto in italiano moderno solo molto dopo la Chanson de Roland o i romanzi di Chretien sulla Tavola Rotonda, probabilmente perché dentro c'era molta filosofia e, onestamente, è una lettura meno avvincente come trama. Oppure perché gli stava fatica, non so.