E dunque, un libro di storia sulla fine dell'impero romano.
Con che coraggio l'autore mette come sottotitolo Una storia nuova?
Sì, certo, un pelino di provocazione c'è. Si tratta però e prima di tutto di una sintesi della storiografia degli ultimi cinquant'anni sull'argomento (all'epoca della prima pubblicazione, ovvero il 2005). Gran profluvio di considerazioni basate sui recenti scavi archeologici, ma anche sulle analisi recenti delle fonti scritte, che nel frattempo ovviamente sono un po' aumentate: ricerca di qua, spulcia di là, è inevitabile che qualcosa di nuovo salti fuori. E poi naturalmente vale il classico slogan che esorta a "guardare le fonti vecchie con occhi nuovi".
Ne esce un quadro rivoluzionario, che stravolge e rivolta come calzini le vecchie teorie?
Ovviamente no, ma qua e là qualcosa cambia, e tanti piccoli cambiamenti finiscono per alterare notevolmente il quadro d'insieme.
Inoltre, per Heather come per tutta la storiografia inglese, c'è l'enorme totem dell'antico e sacrale testo di Gibbon The Decline and Fall of the Roman Empire, che in Inghilterra è tuttora il classico testo che se non l'hai letto puoi solo andare a nasconderti con la tua vergogna in un cantuccio - mentre da noi è stato letto solo da pochi eletti nelle cui file non posso ad alcun titolo vantarmi di essere inclusa. E già dal titolo c'è una nota polemica, visto che si parla senza infingimenti di caduta dell'impero romano, ma si mette da parte il declino; e infatti il quadro che traccia Heather non è di un impero in declino, bensì di un impero che declinò, alla fine, solo e soltanto perché stava cadendo - perché se crolli vuol dire che tanto in forze non sei più. Oppure, spingendosi un pelo più in là: se cadi vuol dire che chi ti ha fatto cadere era più forte di te, che tu stessi declinando o meno.
Dunque una onesta opera di compilazione con qualche teoria innovativa accennata qua e là.
Il tema delle motivazioni della caduta dell'impero romano è molto sentito e discusso sin dal 476 d.C., come scoprii con un certo divertimento mentre preparavo non so quale esame (Storia della Chiesa, mi sembra) appunto a tema tardoantico, e tra i testi da studiare c'era una raccolta di saggi data alle stampe da Einaudi nel 1968 dedicata a Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV che apriva con una conferenza di Arnaldo Momigliano che vantava un inizio di quelli che restano impressi:
Possiamo forse cominciare con una buona notizia: in quest’anno di grazia 1959 è ancora possibile considerare verità storica il fatto che l’Impero romano declinò e cadde. Nessuno, a tutt’oggi, è disposto a negare la scomparsa dell’Impero romano. Ma qui comincia il disaccordo degli storici: quando si domanda perché l'Impero romano sia caduto, si ottiene una sconcertante varietà di risposte.
Seguiva poi la garbata constatazione che le cause della caduta in questione erano invece tuttora assai discusse, e tra le possibilità più carine c'era una teoria marxista che sosteneva che il declino iniziò con la fine della guerra del Peloponneso (ovvero parecchio prima della nascita del suddetto impero). Di quel saggio, che da anni mi propongo di recuperare e fotocopiare, ricordo soprattutto le gran risate che mi feci leggendolo e di come perseguitassi chiunque mi capitasse a tiro leggendone passi scelti (senza far troppi danni, perché si trattava comunque di gente che faceva Lettere e dunque non sempre era completamente disinteressata alla questione). Ancora oggi, ogni volta che in classe devo parlare della caduta dell'impero romano o anche più in generale delle discussioni storiche cito quel passo introduttivo ai ragazzi, spiegando che la storia è materia molto più mutevole e ondivaga di quanto si sia tradizionalmente portati a pensare.
Giusto per sintetizzare un minimo e uscire dalla palude dei bei ricordi della mia giovinezza, la frase di Momigliano sta ad indicare che già 60 anni fa, con buona pace di Gibbon, la questione delle cause e concause della caduta dell'impero romano era ancora tutt'altro che definita. E, del resto, quale argomento di storia lo è stato mai?
Ma veniamo al libro.
In sintesi, si divide in tre parti. La prima è una dettagliata descrizione del Signor Impero Romano: come funzionava, com'era strutturato, quali erano i suoi limiti di fondo - limiti per certi versi non aggirabili, per esempio il problema della lentezza delle comunicazioni: all'epoca, più che organizzare una bella rete di strade con tanto di stazioni di cambio per i cavalli non si poteva fare, anzi sotto quell'aspetto i romani erano stati molto bravi ed efficienti. Ma l'impero era grande e le comunicazioni lente. Per lo stesso motivo l'impero non era veramente centralizzato, a piramide: c'era il potere centrale e c'erano i poteri locali, piuttosto autonomi. Era una soluzione che per molto tempo si dimostrò piuttosto valida.
C'era poi un grosso esercito, molto ben addestrato e pagato con le tasse. I problemi con le tasse arrivarono nel momento in cui le tasse smisero di arrivare con regolarità perché una parte sempre maggiore dell'impero era in mano ai barbari, che le tasse, detto e non concesso che le riscuotessero, se le tenevano per sé.
La classe dirigente era corrotta, ma lo era in modo sistemico, e lo era sempre stata anche quando l'impero rifulgeva sì come gemma.
I confini... è noto che a un certo punto l'impero smise di espandersi. Perché?
Perché da una parte c'erano i persiani, che all'inizio del IV secolo diventarono molto forti e pericolosi. Una parte delle truppe venne infatti dedicata da allora al confine con i Sasanidi, ma non sempre con grandi risultati. Inoltre, le truppe che schieravi contro i Sasanidi non le potevi schierare da altre parti, che in certi momenti si dimostrò un serio limite.
L'altro confine erano i Germani, divisi in millemila tribù occupatissime spesso a combattersi tra loro e tutte decisamente poverelle. A un certo punto Roma stabilì che, visto che tanto da loro non c'era da raccattare granché, tanto valeva lasciarli stare salvo occasionali scorrerie quando gli servivano rinforzi per le truppe o nuovi coloni - e, naturalmente, quando cercavano di allargarsi. Modesti contingenti di migranti erano accolti senza problemi, ma sempre facendo molta attenzione a impedirgli appunto di allargarsi, spesso con sistemi davvero tutt'altro che cortesi.
La seconda parte è dedicata al primo Problema Serio che si presentò per l'impero, ovvero l'arrivo in massa nel 375-76 di ben due popoli germanici, greutungi e tervingi, che si presentarono in massa alla frontiera chiedendo di entrare, finirono per entrare in modo decisamente caotico e rimasero per anni a scorazzare all'interno dell'impero sostentandosi a razzie fino alla battaglia di Adrianopoli del 378 dove i romani persero. Il problema dunque da occasionale si fece permanente, anche se venne in vario modo arginato. Solo che, una volta arginato in qualche modo, entrò in scena Attila con gli unni al seguito - guarda caso proprio il popolo che aveva convinto greutungi e tervingi a scappare verso l'impero ad imlorare protezione e asilo.
Gli unni guidati da Attila furono un problema ancor più serio, anche perché al contrario dei Germani sapevano gestire un assedio e prendere una città, per quanto ben cinta di mura. Se dal disastro di Adrianopoli l'impero era riuscito a riprendersi, sia pure con qualche cedimento, con Attila e i suoi le cose andarono molto peggio. Ma l'impero di Attila, è noto, durò pochissimo. Tuttavia...
La terza parte è dedicata al disastro vero e proprio che secondo l'autore cominciò, ebbene sì, proprio al crollo dell'impero unno: a quel punto infatti i Germani non erano più tanti rivoletti di scarsa rilevanza, ma avevano imparato a riunirsi in grandi confederazioni (con grandi eserciti) e gestirli era tutt'altra storia. In particolare un problema decisamente serio furono i vandali di Genserico, che decisero di improvvisarsi navigatori; con un certo successo, visto che approdarono sulle coste africane. Di tutto questo il problema più drammatico fu proprio la perdita, per la parte occidentale dell'impero, delle cospicue tasse africane.
Nel 468 però la parte orientale dell'impero armò e finanziò una grandiosa spedizione per il recupero dell'Africa (che finì in un disastro abbastanza simile a quello dell'Invincibile Armata del 1588) e secondo Heather il vero punto di non ritorno fu proprio quello: dopo quel disastro militare non c'erano più soldi né esercito da giocare per la parte occidentale e la parte occidentale dell'impero entrò dunque in agonia. Quella orientale però, com'è noto, sopravvisse e anzi ben presto ricominciò ad allargarsi e prosperare per un buon paio di secoli prima dell'arrivo degli arabi - il che starebbe ad indicare che i problemi esistenziali dell'impero romano non erano tali da minarlo alle radici, visto che le due parti dell'impero erano organizzate e funzionavano esattamente nello stesso modo.
I veri cattivi dunque sono gli unni: che fecero la loro brava parte di danni scorazzando su e giù per le steppe e per l'Europa, insegnando ai Germani - già in evoluzione e in espansione per conto loro - che "uniti si vince, da soli non è bello". E l'impero romano d'occidente cadde infine, a causa delle invasioni barbariche.
E qualcuno dirà che dopotutto non si tratta poi di una teoria così nuova, e che qualche dubbio che le invasioni barbariche ci avessero messo lo zampino, nella caduta dell'impero romano, circolava già da tempo negli ambienti storici - così come in parecchi tendevano a pensare che l'impero romano era caduto principalmente perché si era dimostrato meno forte dei suoi nemici, in base alla vecchia teoria che "di solito chi è più forte vince, e l'altro perde".
In realtà qualcosa di nuovo c'è, nel senso che almeno o per la prima volta ho letto uno studio approfondito sull'impero unno e sull'evoluzione degli usi e costumi e politiche germaniche in quel secolo tanto movimentato che va dagli anni di Adrianopoli alla deposizione di Romolo Augustolo; naturalmente è uno studio approfondito che va avanti a frammentini, briciole e schegge faticosamente incollate con tanti periodi ipotetici e tanti buchi nella trama, però è comunque molto interessante.
L'autore appartiene alla scuola degli storici inglesi, che ritengono loro dovere esprimersi in uno stile comprensibile, chiaro e amichevole, evitando deliberatamente di tirar scemo il lettore a ogni singola frase e accumulando la pedanteria soprattutto nelle note (che hanno soprattutto lo scopo di spiegare al lettore specialistico o particolarmente interessato come ripercorrere il percorso che ha portato a questa o quella conclusione). In tanti han lodato la sua squisita scorrevolezza e brillantezza, e probabilmente considerando la materia ha fatto davvero miracoli. Tuttavia, via via che si assemblano le schegge e le briciole, quando di ogni briciola è data una accurata analisi storico-filologico-bocciofila, la scorrevolezza non sempre è proprio così totale - mentre la parte introduttiva, dove si viaggia su fonti più solide e soprattutto più abbondanti e si possonop fare discorsi più distesi, va davvero giù come acqua di fonte. Di sicuro comunque Heather riesce a coniugare chiarezza e precisione - e anche un notevole disappunto perché la fonte che sarebbe davvero più utile per sdipanare questo o quel groviglio regolarmente manca e al più si riesce a intravederla per speculum in aenigmate (e nell'alto medioevo, sotto questo aspetto, andrà pure peggio).
Con questo post partecipo in sempre più totale anarchia al Venerdì del Libro di Homemademamma, che al momento latita assai, e auguro buone letture e soprattutto vacanze molto rilassanti a chiunque passi da queste parti.
2 commenti:
Una questione vessata che mi tocca quando ho storia al biennio e a cui dedico molto spazio. Una postilla sul primo punto, le comunicazioni. Pare una proiezione di chi guarda con gli occhi di oggi. Lumache secondo la nostra ottica frenetica.
@ Mel:
E sì, è una proiezione di chi guarda con occhi moderni. D'altra parte è vero che quella che noi tendiamo a considerare lentezza nelle comunicazioni, e che andrebbe in effetti considerata "fattore del tutto inevitabile" rendeva lente le reazioni dell'impero rispetto alle azioni dei barbari, i quali, standosene tutti riuniti, comunicavano con grande rapidità tra loro per stabilire le azioni.
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