Il mio blog preferito

domenica 23 febbraio 2014

Addio al Custode Tibetano (era troppo bello per durare)

Assai usato nel Medioevo e nel Rinascimento, il salterio è uno strumento che oggi è piuttosto raro sentire

Entrando a scuola vedo una sfilata di petunie al gabbiotto dei custodi.
"Il Custode Tibetano se ne va" mi spiegano "Tre petunie sono per noi, le altre le vuole piantare nel giardino".
"Sperando che non anneghino" osservo di malumore; il cielo, infatti, promette l'ennesimo diluvio (e lo manterrà).
Ed è stata solo la prima contrarietà di una giornata che, per restare in tema floreale, è somigliata assai più a un roveto che a una primula.

Ebbene sì, il Custode Tibetano ci ha lasciato. E' andato in congedo di paternità, e siccome il suo incarico da noi era temporaneo, quando finirà il congedo ben difficilmente lo rivedremo.
Prima di andarsene però è passato a salutare tutte le classi, offrendo a noi insegnanti un bastoncino di incenso da meditazione* e a tutti un pezzo di musica fatta col suo salterio, di cui ci ha raccontato la storia: attratto da un ceppo di cipresso da lui trovato presso un corso d'acqua quando faceva la guardia forestale, lo aveva portato da un suo amico liutaio che ne aveva ricavato, appunto, un salterio. Come e da chi avesse imparato a suonarlo non ce l'ha spiegato, ma sentire la breve suonata che ci ha dedicato è stato molto affascinante, per me che il salterio lo conoscevo solo per sentito dire, come per i ragazzi che nemmeno sapevano che a questo mondo esistevano cotali strumenti.
Abbiamo ringraziato, deprecato la sua partenza, mandato saluti ai bambini. Non è che ci fosse molto altro da fare, in effetti. E immagino che dovremmo essere contenti di averlo avuto con noi almeno per qualche mese.

Fa bene, in una scuola, avere qualcuno che sa quanto spesso le cose ci vengono mandate, e non si incontrano per caso; e che attraverso il ceppo occorre avere occhi capaci di  riconoscere il salterio che verrà.
Ma forse fa bene anche altrove. Se è partito, vuol dire che il suo tempo da noi era finito.

Ohm.

(comunque anche le altre custodi sono bravissime, sia chiaro. Però non sono mai venute in classe a suonarci il salterio. Non credo gli sarebbe venuto in mente nemmeno se avessero preso un diploma in Salterio al conservatorio. E nemmeno a me - il che sta a dimostrare, caso mai ce ne fosse stata necessità, che la mia visione della scuola e dell'insegnamento è troppo convenzionale)

*e invero ieri spunti di meditazione non me ne sono mancati

lunedì 17 febbraio 2014

17 Febbraio 2014 - Giornata Nazionale del Gatto (onoriamolo con grandi onori)



Al momento esistono almeno quattro diverse giornate del gatto, scaglionate nei vari periodi dell’anno. 
Quella di oggi però è tutta italiana.
Auguri a tutti i gatti, perché abbiano la fortuna che meritano e non sprechino le loro vita per colpa dell’incuria umana, e perché continuino a starci vicino regalandoci gioia e benessere*.

*N. B.: Questo annuncio non è inteso in alcun modo come discriminatorio verso cani, conigli, criceti, pesci e qualsivoglia animale da compagnia e non.

mercoledì 12 febbraio 2014

Come e perché si diventa insegnanti

C'è un orientamento per gli insegnanti? No, non c'è, ma a qualcuno potrebbe fare comodo

(Premessa: naturalmente non ci siamo solo noi della scuola pubblica o paritaria. Esistono un sacco di persone che lavorano come insegnanti al di fuori della scuola, insegnando  ippoterapia, ricamo a sopraggitto, elementi di informatica, canto, agopuntura, pittura su porcellana, arabo, aikido e un'infinità di altre affascinanti materie. Costoro sono insegnanti a tutti gli effetti ma ci sono arrivati per strade diverse, ognuno con la sua storia. Non sempre l'insegnamento è la loro unica fonte di reddito e, soprattutto, non sempre sono abituati a pensarsi professionalmente in primo luogo come insegnanti).

E' noto che le vie del destino sono infinite, e c'è dunque una piccola minoranza di docenti che si ritrova in cattedra quasi per caso (come me). Tuttavia la gran maggioranza delle persone che insegna lo fa perché lo ha scelto e voluto sin dall'inizio. La maggior parte, ma non tutti.
Di fatto gli insegnanti di scuola pubblica si dividono in tre categorie: Insegnanti Per Vocazione, Insegnanti Perché Sì, Insegnanti Perché Non C'era Altro (include anche la categoria Insegnanti Perché E' Andata Così).
Le prime due categorie sono a grande prevalenza femminile, la terza include una percentuale più consistente di maschi.

L'Insegnante per vocazione è una strana bestia, e a tutt'oggi costituisce una percentuale invero assai rilevante del corpo docenti.
Costoro han deciso di fare gli insegnanti probabilmente già nel grembo materno, o al più alle elementari, dopo un incontro felice con qualche insegnante di materna o maestro/a. Li senti rispondere che vogliono fare l'insegnante già dalla prima infanzia e non cambieranno mai idea. Qualcuno ne parlerà in termini sognanti, qualcuno in termini più realistici, ma il vero Insegnante Per Vocazione si organizza ben presto la vita in funzione del lavoro che agogna.
Citerò qui appunto la mia compagna di banco del liceo* che si è destreggiata assai validamente nelle secche di un periodo dove le scuole erano strapiene di docenti e aspiranti tali e arrivare al ruolo prima dell'età della pensione sembrava impossibile. Iniziò la sua scalata alla cattedra sfruttando la prima possibilità che le si offrì, ovvero insegnare catechismo ai bambini della sua parrocchia (da notare che il suo interesse per la religione cattolica, e la religione in generale, è sempre stato men che tiepido); dopo la maturità classica fece la maturità magistrale e ben presto, tra un esame e l'altro cominciò a collezionare supplenze alle scuole elementari e materne. Subito dopo la laurea il parroco, evidentemente non scontento delle sue prestazioni come catechista, la segnalò ad una scuola privata, dove per molti anni insegnò alle medie accumulando pazientemente punteggio valido anche per lo stato e facendo concorsi quando (assai raramente) essi venivano banditi. Con uno di questi concorsi diventò di ruolo alle elementari, dove rimase per qualche anno finché la chiamarono di ruolo alle medie. In seguito (ma questa è stata una tappa inizialmente non prevista) grazie a un concorso interno, è passata di ruolo al liceo. Non dispero di vederla prima o poi tenere qualche corso universitario - certo sulla didattica qualcosa da insegnare ce l'avrebbe.
Solo un esiguo numero di Insegnanti Per Vocazione mostrano la sua capacità di costruire e sfruttare opportunità - la maggior parte si limita a studiare per i concorsi, lamentarsi che i posti sono pochi e compulsare maniacalmente le graduatorie dei precari cercando di calcolare le possibilità che si apriranno l'anno futuro, spesso lamentandosi molto o sfinendosi tra loro con complessi calcoli delle probabilità che di solito risultano più pessimisti del dovuto. E' molto improbabile che in tempi di magra cerchino un altro lavoro, e se proprio sono costretti a farlo, e se per sventura lo trovano, vivono questa condizione come un esilio immeritato, soffrendone molto.
L'Insegnante Per Vocazione nella maggior parte dei casi è coscienzioso, attento e interessato agli scolari e alle sue materie. Purtroppo non è necessariamente dotato delle caratteristiche che fanno un buon insegnante** e questo lo rende molto sensibile al burn-out: chiaramente, la frustrazione che provi quando non ti riesce bene qualcosa cui tieni moltissimo è assai grande, e niente può distruggere la tua gioia di vivere (e non parliamo dell'autostima) più di una classe cui ti avvicini ricolmo di affettuose e buone intenzioni ma che ti respinge brutalmente.
Quando non interviene il burn-out, o se interviene in forma soltanto sporadica, questi insegnanti possono comunque riuscire assai bene: migliorano con gli anni e l'esperienza e spesso finiscono una lunga e onorata carriera rimpiangendo i bei tempi della scuola, tra gli sguardi perplessi di molti colleghi.

L'Insegnante Perché Sì è una bestiuola abbastanza diversa. Non c'è stato un momento, mentre era nel grembo materno o altro, in cui ha coscientemente deciso che voleva insegnare per un accidente di motivo; semplicemente sa che insegnerà - perché ha fatto lettere, perché è un lavoro adatto a una donna, perché permetterà di gestire meglio la futura famiglia, perché non è un lavoro molto faticoso***, perché tanto che altro vuoi fare, insomma perché sì. Costoro si sottopongono quindi svogliatamente al calvario necessario per insegnare - corsi, corsetti, concorsi o  quel che è - sospirano sempre, sono esperti in modo maniacale di graduatorie semplici e incrociate, cercano scorciatoie che di solito si rivelano più faticose della via più lunga e sanno sempre tutto sui Corsi di Aggiornamento Che Danno Punteggio (che, naturalmente, seguono sospirando). Quelli che ho incontrato alla SSIS, ed  erano parecchi, si distinguevano per un singolare disinteresse ai corsi delle materie che avrebbero dovuto insegnare. Costoro hanno spesso un vago pregiudizio nei confronti dei Giovani d'Oggi che aumenta col passare degli anni. Per loro, più che il burn-out, il vero problema è la Sindrome da Spallamento, che sopravviene assai presto. Alcuni di loro sono molto coscienziosi (è una questione di carattere) ma sono coscienziosi in modo spallato. La loro vita da insegnanti non è tra le più entusiasmanti, ma alcuni possono lavorare molto bene - e, naturalmente, anche a loro capita talvolta la Classe Ideale con cui vivere felici idilli, o almeno parziali idilli. Qualcuno trova felicemente il modo di incunearsi a fare Qualcos'Altro, magari infrattandosi in qualche centro di studi, oppure finisce a fare il Dirigente Scolastico. La maggior parte però non ha la capacità di fare né l'uno né l'altro e vivacchia senza infamia e con scarse lodi fino al momento della pensione, che festeggia con bengala, girandole e castagnole.

L'Insegnante Perché Non C'era Altro non ha fisionomia precisa: può essere un giovinetto o una giovinetta che per una serie di coincidenze finisce in cattedra mentre cerca lavoro e scopre che le circostanze sono favorevoli per restarci, il/la ricercatore/trice che a un certo punto si rende conto che non riuscirà mai, o solo in tempi biblici, a impossessarsi di un contratto stabile di lavoro, un/una professionista che decide di integrare il reddito con l'insegnamento, un/una poveraccio/a che si ritrova improvvisamente aperta questa strada, una persona che a seguito di un qualche rovescio finanziario suo o dei familiari tenta anche quello eccetera eccetera. Si tratta insomma di un Insegnante Per Ripiego. Siccome insegnare è un lavoro strano, e se non l'hai provato non puoi sapere come ti riuscirà, niente vieta che costoro riescano benissimo e facciano cose egregie, grazie anche alla freschezza di prospettiva di una vita che non ha conosciuto solo la scuola o la speranza  di una scuola futura, e conoscenze che con la scuola non hanno niente a che fare ma che possono servire. D'altra parte niente vieta nemmeno che in loro subentri quasi subito la più micidiale delle Sindromi da Spallamento facendone insegnanti inconsistenti e solo modestamente preparati nonché colleghi inaffidabili. Taluni mostrano anche i sintomi di un Senso di Superiorità rispetto al basso mondo della scuola che ha il raro potere di trasformare in tigri ircane anche i colleghi più disponibili e gli scolari più desiderosi di apprendere.
Siccome ognuno di loro ha la sua storia, la loro riuscita è imprevedibile ma finiranno per posizionarsi in una delle due categorie precedenti, col vantaggio accessorio di avere sviluppato la Vocazione lavorando (invece che sognando di fare quel lavoro) o di avere sviluppato la Sindrome da Spallamento per circostanze esterne e non perché inizialmente non avevano avuto abbastanza buon senso da pensare a cosa volevano fare invece di farsi trascinare dalla piena; ma anche con lo svantaggio accessorio di dovere imparare tutte insieme le infinite cose che chi si è avvicinato secondo la trafila normale all'insegnamento ha imparato un po' per volta in tempi umani.

Ognuna di queste tre categorie racchiude in sé elementi di grande capacità e bravura, abominevoli individui che fanno più danni della siccità e un grosso zoccolo di buona manovalanza che cerca onestamente di guadagnarsi lo stipendio e si ingegna di lavorare al meglio delle sue possibilità, ognuno con i suoi limiti e i suoi punti di forza - ed è questo zoccolo che tira avanti la scuola, nel bene e nel male (ma quale sia il bene e quale sia il male, vallo a sapere).


*Sary, imareggiabile compagna di banco del liceo più volte citata su questo diario
**E quali sono? Ah, saperlo, saperlo. Di sicuro cambiano da classe a classe e quindi ognuno ha la possibilità di trovare le SUE classi, con cui vivere un felice idillio. Comunque una certa flessibilità mentale aiuta
***In realtà è molto più faticoso di quel che sembra all'esterno, anche se eviti con ogni cura di impegnartici più dello stretto indispensabile. Ma questo, finché non insegni, non lo puoi sapere

venerdì 7 febbraio 2014

I segreti di Amber House - Kelly Moore, Larkin Reed, Tucker Reed

"Avevo quasi sedici anni la prima volta che mia nonna morì."
Sin dalla prima frase, il romanzo mette in chiaro diverse cose: per esempio che si tratta di un romanzo al femminile dove il rapporto generazionale è molto importante e dove il tempo scorre a modo suo, con effetti insoliti - perché,normalmente, nonni e nonne muoiono una volta sola e sotto questo aspetto non concedono repliche.

Amber House è la casa dove si svolge la vicenda. Siamo negli USA, una volta tanto, e non in Inghilterra. Per qualche settimana la protagonista abita nella casa di famiglia, che sua madre odia e da cui l'ha sempre tenuta lontana. Alla ragazza invece la casa piace molto, e si diverte ad esplorarla.
Amber House è la casa del ricordo: al suo interno i ricordi ai accumulano e si aggrovigliano e il passato è ancora... molto vivo. Tanto da rivivere, a volte - diciamo che non ci sono fantasmi, ma ricordi molto tenaci. E siccome è una casa al femminile, i ricordi più vivi sono quelli della sofferenza, amorevolmente custodita e conservata. La nonna aveva scelto di immergercisi coltivandola con voluttà, la madre era scappata - ma quando ormai era troppo tardi per liberarsi davvero, e ha lasciato che il ricordo della sofferenza avvelenasse la sua vita, il suo matrimonio e anche il rapporto con la figlia, che pure ama teneramente.
La protagonista indaga con pazienza, un po' alla cieca, ma rischia di restare impigliata nella stessa trappola che si è chiusa sulla madre e sulla nonna.

La sofferenza, dicevo, e l'arte di coltivarla e imbalsamarla e farne un totem cui inginocchiarsi ogni giorno è tipicamente femminile. Per rompere la gabbia e liberare le prigioniere occorreranno l'innocenza, la saggezza e l'empatia di due giovani uomini (uno, in particolare, davvero molto giovane) che aiuteranno la protagonista a riavvolgere il filo del destino fermandosi al momento giusto. E alla fine arriverà la libertà per tutti, al di là di ogni ragionevole speranza.

Ufficialmente il romanzo appartiene al filone young adult al femminile con vaghe venature fantasy, ma c'è molto più realismo di quel che sembra ed è adatto per signore di ogni età al di sopra dei quattordici anni. Il tema portante è il rapporto madre-figlia, cruciale per ogni donna. L'effetto della lettura, più che consolante, è curativo.
Da qualche parte ho letto che è il primo volume di una trilogia, ma secondo me sta benissimo da solo.

Con questo post partecipo al Venerdì del libro di Homemademamma e auguro felici letture a tutti per questo fine settimana.

domenica 2 febbraio 2014

Disciplina - 4 - Il Bravo Insegnante sa farsi rispettare!

Com'è noto, i giapponesi fanno tutto a modo loro, perfino il KitKat (qui in versione cherry)

Son lì, nella Terza Effervescente, che espongo con diligenza la mia bella lezioncina sul Giappone. E' una lezione ormai ben rodata, con un'adeguato quantitativo di slides. 
"Anche le case tradizionali sono fatte tenendo conto dei terremoti. Osservate qui le pareti in carta di riso..."
"Ma quando piove le pareti non si sciolgono?"
"E il tetto? Come fanno col tetto?"
"Il tetto naturalmente non è in carta di ri..."
"Tutte le volte la devono ricostruire?"
"Ma è scomodo, uno si sveglia la notte col soffitto appiccicato addosso e piove..."
"Ma come fanno la carta di riso?"
"Immagino che la facciano con il riso, ma...."
"Tutto di carta velina. Mah."
"E poi si strappa subito"
"Ehm. Per strano che possa sembrarvi la carta di riso, come tutte le carte, si può fare di vari spessori..."
"Ma mettono a bollire il riso? E poi la mangiano?"
"Beh, anch'io mangio la carta"
"Sì, ma loro saranno più intelligenti di te, si spera".
"No, la carta di riso la fanno nelle cartiere..."
"Ma no, che dici, non la fanno in casa. La compreranno"
"E questo è un classico interno di casa giapponese".
"Che tavolino basso..."
"Sì, mangiano seduti per terra, come potete vedere in qualsiasi cartone animato..."
"Ma quando fanno le esercitazioni contro il terremoto, come fanno ad andare sotto il tavolo?"
"Non credo che vadano..."
"Ma no, Rosvita, non ci vanno sotto, se lo portano dietro!"
"Ma è pesante da portarsi dietro!"
"E poi è scomodo. Scusa, ma non ha senso. C'è il terremoto e te stai a portarti dietro il tavolino?"
"Insieme alle pareti di carta di riso!"
"Sì, ma perché ti devi portare dietro il tavolino?"
"Per starci sotto mentre c'è l'esercitazione!"
"Sì, ma a che ti serve?"
"Cosa c'entra la carta di riso adesso?"
"Si portano dietro anche le pareti?"
"Non capisco. Non potrebbero lasciarlo lì, il tavolino?"
"E se sono in una stanza senza tavolino?"
"E se sono in una stanza senza pareti di carta di riso?"

La classe si immerge in una complessa discussione, dove carta di riso e tavoli bassi da pranzo vengono citati in contesti sempre più impropri. Siccome non ho avuto il tempo materiale di bloccare i primi tre che sono partiti per la tangente, a questo punto so di non avere alcuna possibilità di fermarli. Li lascio sfogare, in piedi accanto alla LIM, appoggiata alla bacchetta, gli occhi fissi al cielo con sguardo rassegnato, come nelle più celebri immagini di san Sebastiano.

Dopo un paio di minuti la girandola di commenti comincia a calmarsi, e infine si ferma.
"Sia chiaro che non ho la minima idea di come i giapponesi organizzino le loro esercitazioni contro i terremoti, ma se in questo momento avessi tra le mani un tavolino basso giapponese ve lo tirerei addosso, e più volte".
La classe prende atto, con tassi di contrizione che nemmeno un microscopio elettronico riuscirebbe a misurare da quando sono minimi.

"E quella cartellina 'Love and Cherry'?"
Apro la cartellina. Ciliegi in fiore a profusione.
"Quando è primavera arriva la fioritura dei ciliegi, come da noi. Soltanto da loro è un affare molto più serio. Comitive, anche di studenti, vanno a fare merenda sotto i ciliegi recitando poesie."
(Brusio perplesso. Mostro un'autentica foto di un autentico gruppo di giovinetti che fanno ordinatamente merenda sotto i ciliegi con fare assai solenne).
"La fioritura dei ciliegi viene segnalata da un apposito bollettino...
(segue slide con la carta del Giappone e le percentuali di fioritura previste nei posti più ciliegiosi)




"In pratica noi abbiamo le previsioni del tempo e loro hanno le previsioni dei ciliegi?"
"Credo che abbiano anche le previsioni del tempo, Fiordiligi"
Davanti a un pubblico perplesso faccio vedere il Kitekat ai fiori di ciliegio, poi spiego che la passeggiata sotto i ciliegi è un classico da innamorati.
E arriva, inevitabile quanto temuta, la domanda:
"Ma ci vanno con o senza tavolino?"
"E con la carta di riso?"

La campanella arriva a salvarmi. Scappo lasciando l'incolpevole insegnante di Spagnolo a sbrigarsela come può con la classe.

Un paio di precisazioni si impongono. Per esempio: la classe non è sempre così: infatti a volte è anche peggio. Quel giorno era la prima ora del rientro pomeridiano (che a volte passa liscia e tranquilla senza problemi, comunque). E i commenti più idioti sono quasi sempre prodotti con deliberata idiozia dai più brillanti alunni di cui la classe dispone - che sono un gruppo piuttosto numeroso.
Ad ogni modo, qualsiasi ora sia, la prima come la nona, quando hanno deciso di scatenarsi si scatenano, punto e basta. Lo sventurato insegnante di turno, in quei casi può:
A) cercare di reprimere con giusta fermezza il tumulto immotivato, a mezzo di berci e/o note e rapporti individuali o di gruppo. Tutto ciò è stato tentato più volte nei due anni e mezzo trascorsi (anche da me), e non ha mai sortito l'ombra di un effetto che fosse uno, nemmeno temporaneo.
B) partire con una lunga filippica sul Bene, il Male, l'Amore, la Morte, il Rispetto Dovuto e il Comportamento Civile. In quel caso la classe ascolta a orecchie basse e si cheta per un po'. L'insegnante però ha sprecato buona parte della sua ora e non ha minimamente costruito qualcosa su cui in futuro si baserà il loro comportamento. Il meglio che ne ricaverà sarà andare via compiaciuto della sua eloquenza. Tutto ciò è stato già tentato infinite infinità di volte, un po' da tutti noi.
C) aspettare che il tumulto si esaurisca e/o che la classe, colpita dalla mancanza di una voce in sottofondo (quella dell'insegnante) si zittisca gradualmente quanto spontaneamente. Calcolare i tempi dello zittimento comunque non è facile. Il vantaggio qui è che l'insegnante si stressa un po' meno e soprattutto non stanca la voce.
La tecnica C ha l'unico difetto di non venire spontanea per un insegnante, perché non funziona in tutte le classi (e anche sul termine "funzionare" sarebbe magari il caso di fare qualche distinguo). Deve essere scelta ogni volta, e magari ti viene in mente solo dopo un po' che pasticci con le prime due, che normalmente, in una classe, sono quelle che funzionano.
Strano ma vero, in mezzo al tumulto e alle interruzioni una più idiota dell'altra, laddove l'insegnante ha quasi finito col dimenticare chi è e cosa ci fa là dentro e soprattutto cosa stava spiegando, la classe ha seguito (quasi tutta) e tre mesi dopo qualcuno citerà il bollettino metereologico della fioritura dei ciliegi in un contesto assai pertinente.

In conclusione: l'insegnante è spesso portato a pensare di dover fare qualcosa per mantenere un adeguato tono disciplinare in classe. Tuttavia nel nostro mestiere capitano casi e situazioni in cui l'alternativa più valida è porsi in perfetto spirito zen ad osservare la situazione dall'esterno, distaccandosene il più possibile e addirittura estraniandosene, in attesa che la classe si calmi spontaneamente.
N.B.: funziona solo in una piccola percentuale dei casi - ovvero quelle in cui non funziona nient'altro.

martedì 28 gennaio 2014

Vita privata degli hobbit (di cui non sappiamo praticamente nulla)

Peregrin Took e Diamante di Lungo Squarcio
http://www.deviantart.com/morelikethis/206903627?offset=10
(garantisco che trovare un'immagine di questi due è davvero difficile, persino in rete)


Se alla fine della lettura dei due romanzi più famosi di Tolkien sappiamo tutto sulla tempra morale degli hobbit, il loro strenuo coraggio e la loro immensa capacità di resistenza, manchiamo quasi completamente di informazioni sulla loro vita affettiva. Sappiamo come si comportano con draghi, re, regine, elfi, ent e altre meraviglie, come riescano a ritagliarsi angoli tranquilli in mezzo alle situazioni più assurde, di come sappiano rendersi simpatici a tutti tranne che agli orchetti, e di come il loro sogno sia trovare sempre e comunque una bella mensa imbandita, ma non abbiamo quasi la minima idea di come siano in famiglia, e men che meno di come si corteggiano. 
Si suppone, dal momento che la Contea è piena di hobbit, che in qualche modo si riproducano, sappiamo che si sposano giovani (purché non incappino nell'Unico Anello, nel qual caso non si sposano affatto) ma le uniche scene vagamente domestiche cui assistiamo sono una cena a casa Maggot e un ritorno a casa di Sam. 
All'inizio della storia di Bilbo ci viene spiegato che "lo hobbit amava moltissimo ricevere visite" e quindi aveva gran copia di attaccapanni per gli ospiti, ma l'unica visita che riceve Bilbo all'inizio, ovvero dodici nani più uno stregone, non lo entusiasma affatto ed è decisamente di tipo particolare. 
Bilbo parte per la sua avventura a cinquant'anni, che per gli hobbit sono equivalenti all'incirca ai nostri trentacinque (ricordiamo che diventano maggiorenni a 33 anni mentre gli umani, all'epoca, in Inghilterra lo diventavano a 21) senza salutare nessuno. D'accordo, dopo arriva l'Anello, ma prima?
Fidanzate, nemmeno l'ombra. Amici del cuore nemmeno. Nessuno che gli getti le braccia al collo dicendo "Meno male che sei tornato sano e salvo! Sapessi quanto sono stato/a in pensiero per te, un anno intero senza nemmeno l'ombra di una notizia!". I legami emotivi più forti per lui sono quasi tutti fuori dalla Contea: Gandalf, gli elfi di Gran Burrone, i superstiti della Cerca di Erebor. Unica eccezione è Frodo - guarda caso un orfanello, preso in casa perché rimasto solo al mondo, più qualche ragazzo con cui si comporta come uno zio ma con cui non entra davvero in confidenza.
Lo stesso Martin Freeman, che su Bilbo Baggins è la massima autorità vivente essendone diventato la reincarnazione in 3D, dichiara di non avere la minima idea di quale fosse la vita sessuale di Bilbo prima del viaggio, e tanto meno se ne avesse una. Qualcuno ha suggerito la possibilità che il suo grande amore sia stato un nano dal temperamento piuttosto burrascoso - ma quand'anche sia vero, non risolve la questione del prima.
Infine, non rimane che archiviare la questione ricordando che sì, gli hobbit hanno la reputazione di essere gente socievole, ma che in ogni gruppo ci sono delle eccezioni, e dunque se esistono tigri vegetariane (esistono?) possono pur esserci hobbit un po' asociali - non a caso Bilbo viene reputato piuttosto stravagante all'interno della Contea (e anche fuori dalla Contea, ma non per gli stessi motivi).

Frodo è diverso, e assai socievole: ha un bel gruppo di amici del cuore e un giardiniere che lo adora. Insieme fanno passeggiate ed escursioni, bevono grandi quantità di birra, mangiano come cavallette, ridono e scherzano. Gli amici si occupano di lui, all'occorrenza (come si suppone lui si occuperebbe di loro, se si presentasse l'occasione): gli organizzano il trasloco, lo accompagnano nei suoi perigliosissimi viaggi, lo assistono quando è malato eccetera. Sono amici allegri e socievoli, molto giovani (Pipino addirittura non è nemmeno maggiorenne) e di buona compagnia - ma al gruppo non è associata nemmeno una ragazza hobbit, sorella, amica, cugina o compagna di scuola che sia. Fidanzate, men che meno. Alla fine del libro scopriamo che Samvise aveva, diciamo, "lasciato a mezzo" una ragazza di cui fino a quel momento non avevamo nemmeno sentito parlare nel più casuale dei modi: Rosie Cotton - nel senso che non si erano scambiati nessuna promessa ufficiale, ma che entrambi sapevano benissimo che c'era qualcosa tra loro. 
Gli altri hobbit della Compagnia ne sapevano niente? 
Oso dire di no, altrimenti Sam sarebbe stato lasciato a casa. La cosa più sbalorditiva è che non ne sapesse niente nemmeno Gandalf, che altrimenti non l'avrebbe certo precettato per quel pericolosissimo viaggio.
Altre ragazze, non pervenute. Frodo, Merry e Pipino sono allegri, socievoli, simpatici e decisamente ricchi. Non sappiamo se sono particolarmente belli, ma niente lascia immaginare che non siano almeno carini. E sono giovani e freschi. Dovrebbero averci la fila di ragazze davanti a casa e, stante l'età e l'inclinazione alla vita conviviale, dovrebbero farla loro, la fila, davanti alle case delle ragazze. Invece niente.
Niente fidanzate né innamorate, dunque.
Certo, quando l'eroe parte per un viaggio finisce sempre per trovare la sua principessa (o il suo principe, se si tratta di un'eroina), ma per gli hobbit questo è impossibile, perché vivono solo nella Contea o in prossimità, e il resto del mondo ne ignora financo l'esistenza. Certo, Bilbo incontra Gollum, che un tempo era uno hobbit ma... non so, vederlo come una principessa non mi sembra molto proponibile.
Gli hobbit della seconda generazione invece nel viaggio trovano un po' di tutto, ma niente hobbit (a parte il solito Gollum, ancor meno appetibile che nel primo romanzo) e in generale pochissime creature di sesso femminile. Tutte già sposate, per giunta, con l'unica eccezione di Eowyn.

Le cose non cambiano molto con il ritorno nella Contea: se Frodo a questo punto incontrerebbe serie difficoltà a costruirsi una piacevole vita familiare hobbit, tanto che finisce ben presto per lasciare non solo la Contea ma addirittura la Terra di Mezzo, e Sam si butta il ricordo di Mordor alle spalle e ricomincia la sua vita esattamente al punto in cui l'aveva lasciata sposando Rosie in tempi assai brevi, i due hobbit più giovani se la prendono piuttosto comoda: Pipino si sposa otto anni dopo, con Diamante di Lungo Squarcio (ma lo scopriamo casualmente solo spulciando cronologia e alberi genealogici) e Merry non si sposa affatto, e nessuno ci spiega il perché.

Ora, non è che Tolkien sia di quegli autori che ritengono obbligatorio infilare storie d'amore dappertutto, però all'occorrenza non si tira indietro, e tra un Anello e un lupo mannaro il tempo per parlare d'amore si trova: ne parlano gli Ent, ne parlano gli elfi, ne parlano gli uomini (che non si limitano solo a parlarne come di qualcosa che riguarda i tempi antichi), ne parlano Tom Bombadil e Baccadoro, che fanno coppia fissa e anche Gimli il Nano, unico rappresentante della sua razza nella Compagnia, ha un intermezzo romantico. Ma per quanto riguarda gli hobbit, l'unico che dedica qualche pensiero alla questione è Sam, e solo dopo che l'avventura è completamente finita.

Meno degli hobbit, solo gli orchetti.

venerdì 24 gennaio 2014

L'estate degli inganni - Adelchi Battista

Se il titolo lascia immaginare una storia di amori e tradimenti, dove il passato è una terra straniera in cui le cose funzionano in modo diverso, l'aereo in copertina potrebbe forse mettere sulla buona strada - per quanto, con tutto il rimescolarsi di gente che c'è stato nel corso della seconda guerra mondiale, sappiamo tutti che molte promesse furono infrante e molti amori nacquero e vissero di vita breve.
Nel libro però di amore non c'è traccia; né di quell'ineffabile sentimento che unisce due e talvolta tre persone nello slancio della passione, né di alcun altro tipo di amore, vuoi quello materno o paterno, vuoi quello per la patria, per l'onore, per il dovere, e nemmeno dell'amor proprio, inteso come rispetto di sé. 
Si tratta infatti del racconto delle vicende che traghettarono l'Italia dall'arresto di Mussolini, avvenuto il 26 Luglio 1943, fino all'armistizio a firma di Badoglio e il rapimento di Mussolini ad opera dei tedeschi, il 10 Settembre. Il seguito viene risparmiato al lettore, ma è abbastanza noto da altre fonti.
Avete un raffreddore e cercate una lettura un po' consolante? Questo libro non fa per voi. 
Avete un pur lieve mal di stomaco? Scansate come la peste il presente volume. 
State seguendo una dieta dimagerante? Ecco, forse in quel caso potrebbe esservi utile, perché leggerlo fa passare l'appetito.

In copertina viene definito "romanzo", ma in realtà di romanzato non c'è nulla. Il libro alterna documenti di vario tipo a scene ricostruite sulla scorta di diari, memorie e verbali. E' un tipo di forma narrativa non nuovo per la ricostruzione storica di un evento. 
L'argomento è tra i miei preferiti: l'affascinante e incredibile guazzabuglio che è stato l'8 Settembre, nodo cruciale della storia italiana. Molti sono i libri che ne parlano e praticamente chiunque sia stato tra i protagonisti ha scritto in proposito resoconti e memoriali, non sempre imparziali; le fonti comunque non  mancano e, trattate con questa particolare formula narrativa sortono un risultato scorrevole, avvincente e davvero interessante.

Mussolini venne arrestato per poter avviare le trattative con gli Alleati. Ma siccome in Italia c'erano un sacco di truppe tedesche, Badoglio e il re scelsero una strada assai contorta per convincere gli Alleati ad occuparsi delle truppe naziste e nel contempo convincere Hitler e il comando nazista che l'Italia era un fedele alleato. Il risultato di sì fine strategia fu che i nazisti, per niente convinti (a ragione) della buona fede italiana mandarono molte e molte più truppe in territorio italiano, mentre gli Alleati mandarono a dire che sì, ben volentieri, ma prima di tutto l'Italia doveva firmare una resa incondizionata - cosa, quest'ultima, che né Badoglio né il re volevano, ma che alla fine di cotanto tira-e-molla dovettero comunque firmare.
Le trattative con gli Alleati furono gestite in modo tanto superficiale quanto schizofrenico, e li resero ben più diffidenti di quanto già fossero, insospettendo vieppiù nel contempo i tedeschi (che, pure loro, non erano affatto immuni dal sospetto (e a ragione).
Se all'inizio il lettore ha l'impressione di perdersi un po' tra i vari generali e ministri, pian piano comunque la trama lo cattura e ad ogni nuova pagina si domanda incuriosito (e stomacato) quale altra immonda figura di merda riusciranno a collezionare gli italici governanti e il loro degno capo Badoglio.
Disordine, cialtroneria, tresche interne, superficialità, disorganizzazione senza pari e una leggerezza addirittura sublime porteranno infine alla firma di un armistizio di cui buona parte dei ministri e dello stato maggiore non sapevano niente, a una fuga iniziata in modo inconsapevole e continuata per forza d'inerzia, dove il re non sa e non vuol intervenire, Badoglio interviene a modo suo e tutto l'esercito, dalla più modesta recluta ai principali comandanti, viene abbandonati a sé stesso senza istruzioni né vie d'uscita - per tacere degli inermi civili.

Per quanto stomachevole, il libri vale senza dubbio il prezzo dell'acquisto (19 euro) o almeno una visita in biblioteca.
Sconsigliatissimo a bambini e giovinetti sotto i quindici anni perché l'età dell'innocenza va pur tutelata.

Con questo post partecipo, in modo assai meno dilettevole del solito, al Venerdì del Libro di Homemademamma e mi auguro di cuore che i consigli degli altri partecipanti mi suggeriscano qualcosa di più piacevole. 

giovedì 23 gennaio 2014

Il Vero Insegnante non teme il ridicolo - 1 - Una doccia inaspettata



In questi giorni fa caldo. No, non intendo dire "abbiamo una temperatura piuttosto mite per essere a metà Gennaio" ma proprio che fa caldo. In classe facciamo lezione a finestre spalancate e con indosso vestiti di cotone leggero.
Alla quinta ora la Seconda d'Ogni Grazia Adorna è un po' irrequieta. Fili continua a schiacciare e far crocchiare la bottiglia dell'acqua - probabilmente non si rende conto di quanto quel rumore sia irritante, almeno per me. 
Dopo avergli chiesto un paio di volte di smettere afferro senz'altro la bottiglia e vado alla finestra. Controllo che in cortile non ci sia nessuno, vuoto la bottiglia e  scaravento il vuoto nel contenitore per la raccolta della plastica, poi continuo la lezione come se niente fosse.
Si arriva in qualche modo al suono della campanella.

Entro in Sala Insegnanti, dove la Ghirlandai mi chiede "Sai chi c'era nella tua Seconda, all'ultima ora?"
"C'ero io".
"No, perché, ecco... qualcuno ha vuotato una bottiglia d'acqua, da lassù, e ha innaffiato Rupert von Deutz che stava col braccio sul davanzale..."

(...gulp...)

"Ehm, temo di essere stata io... avevo guardato che in cortile non ci fosse nessuno, ma non ho pensato che magari c'era qualcuno col braccio sul davanzale..."
Piuttosto divertita, la Ghirlandai mi descrive uno sbalordito Rupert con la manica ben inzuppata che cerca di capire da dove diavolo fosse venuta l'acqua: dal cielo no,  visto che il resto del cortile è asciutto, da uno scolaro in vena di scherzi nemmeno, sembrerebbe, visto che nessun viso dispettoso si è affacciato alla finestra per controllare che il braccio tentatore fosse stato infradiciato a dovere...
Ma come ha fatto l'acqua a cadere, se nessuna forza né umana né superiore l'ha versata? Eppure la felpa di Rupert è zuppa, mentre prima era asciutta!

"Ecco, il fatto è che a Gennaio non si pensa che qualcuno possa stare col braccio sul davanzale..." farfuglio, sentendomi una perfetta idiota.
(Ma in effetti, a Gennaio di solito non stiamo a finestre spalancate nella speranza di far calare la temperatura interna delle aule, né al secondo piano né al primo).
La Ghirlandai ride, mentre io vorrei tanto scavare una buchetta per nascondermici, ma purtroppo non ho né pale né picconi a portata di mano.
Sospiro "Vabbé, domani mi scuserò con Rupert".

L'indomani però, quando arrivo nella Terza Effervescente a fare lezione, tutti sono già informati a puntino sull'identità della Mano Misteriosa, e già al mio ingresso sono accolta da un'autentica pioggia di prese di giro. Non mi resta che minacciare di innaffiarli tutti con una sistola, se non si chetano all'istante. Ma siccome anche oggi fa caldo, da vari commenti fioriti qua e là mi rendo conto che la sistola viene vista come un'opzione tutt'altro che sgradita.

Mi stringo nelle spalle, esterno il mio rincrescimento a Rupert (che non sembra portarmi alcun rancore) e concludo borbottando "Vabbé, se mi faceva tanta paura il ridicolo mi sceglievo un altro mestiere".

La classe mi dà ragione senza alcun ritegno.

lunedì 20 gennaio 2014

Ennesima dimostrazione della superiorità femminile in campo organizzativo - 2 - Dietro le quinte


I lavori di gruppo sui climi, di cui avevo parlato tempo fa sono stati esposti con (quasi) totale soddisfazione della collettività e grande sfoggio di effetti speciali nell'esposizione, nella razionalizzazione del materiale e financo nella confezione dei gadget. I genitori mi hanno raccontato di grandiosi lavori di preparazione e di un notevole entusiasmo. Quanto a me, non ho lesinato né sui complimenti né sui voti.
Certo, non tutto è andato liscio come l'olio. La solita epidemia di influenza, prima di tutto. Poi le alterne sorti del collegamento in Internet della nostra scuola, che ha impedito di vedere il video che un gruppo aveva inserito (dopo questa esperienza gli altri gruppi che presentavano video se li sono scaricati sulla chiavetta). Soprattutto, l'eterna tragedia di Power Point: è noto che ne esistono più versioni, ma in barba a ogni logica informatica, le versioni più recenti non sempre leggono quelle più vecchie e soprattutto la versione ospitata dalla nostra LIM non sempre legge... sé stessa*. Tutto ciò ha costretto alcuni a fare e rifare il lavoro con pazienza degna di Penelope. Altri hanno optato per uno o due cartelloni, altri ancora hanno ripiegato su soluzioni miste. Qualcuno ha distribuito, a me e agli altri gruppi, sintesi delle slide e dei contenuti, e tutti hanno lavorato come castori. Nel frattempo, visto che ogni tanto i gruppi davano buca per problemi di salute loro o della LIM ci siamo pure fatti mezza Asia.
A Novembre ho infine concluso i lavori con una rutilante lezione sugli oceani dove fondali, atolli e squali recitavano benissimo. Uno di questi limpidi e azzurri fondali è diventato il desktop della LIM, sostituendo finalmente l'immagine col matrimonio tra Hitler e Stalin che, ammettiamolo, era un filino lugubre con tutte quelle svastiche naziste.

E tutto dunque sembrava essersi concluso nella generale soddisfazione quando la madre di una fanciulla, ormai in quel di Dicembre si è lamentata perché i gruppi non li avevo fatti io.
"Ehm, no, le ragazze si erano organizzate da sole molto bene, non c'era motivo di intervenire... o almeno così sembrava, dall'esterno...".
A sentire la madre il motivo ci sarebbe stato, eccome: infatti le ragazze si erano organizzate per amicizia, e sua figlia si era ritrovata con due reiette (con cui peraltro non aveva nemmeno lavorato bene**) stante che lei stessa a sua volta era una reietta.
Ho un po' blandito la madre, assicurandola che la volta prossima, naturalmente - però ormai per stavolta è andata così. Poi sono rimasta a riflettere.
Potevo prevederlo? Mah, mica tanto: la ragazza ha effettivamente dei problemi di socializzazione, ma ha anche delle amiche e in classe chiacchiera vivacemente - cosa di cui tutti noi insegnanti del Consiglio siamo assai lieti perché l'anno scorso non spiccicava letteralmente parola fin verso la fine dell'anno. Quest'anno la vediamo allegra e sorridente e ci si allarga il cuore, ma vai a sapere le dinamiche di un gruppo?
Potevo prenderla da parte e chiederle con chi voleva andare? 
Sì, potevo. Probabilmente l'avrei fatto, se le ragazze non mi avessero presentato con serena fronte e limpido sorriso una serie di gruppi mirabilmente equilibrati tra loro, prima ancora che la questione della formazione dei gruppi venisse al pettine.
Poteva lei venirmi a parlare in privato? 
Certo che poteva, e l'avrei anche ascoltata - cosa che penso immaginasse. Però, si capisce, non l'avrebbe mai fatto a gruppi già formati. Perché sì.
Le regole di un gruppo femminile (non solo di adolescenti) sono invero assai complesse, tanto che noi stesse femmine fatichiamo parecchio a capirle e ci muoviamo al loro interno come meglio ci riesce, spesso con la paura di rompere qualcuna delle 700 regole non scritte che ne sono parte essenziale.

Sono un'insegnante, non un'indovina. E la cosa purtroppo presenta i suoi svantaggi.


*e non è la prima volta che sono testimone di questo curioso fenomeno, né è la prima LIM con cui l'ho visto verificarsi
**ma dal risultato non si sarebbe detto, francamente

lunedì 13 gennaio 2014

L'ultima canzone di Bilbo


Molti anni fa, quando ero una liceale di belle speranze e a Firenze di Tolkien si trovavano a malapena i due libri più importanti (il Silmarillion era ancora da pubblicare)  incrociai per caso un poster in una libreria per stranieri. Si intitolava Bilbo's Last Song e conteneva il testo di una poesia che nel Signore degli Anelli non c'era.
Si trattava di una canzone, l'ultima, che Bilbo aveva scritto prima di partire dai Porti Grigi verso la terra benedetta che avrebbe curato le ferite sue e di Frodo accogliendo i loro ultimi giorni. Il disegno rappresentava invece i tre hobbit (Sam, Merry e Pipino) che guardano malinconici la grigia nave elfica che si allontana verso il mare aperto. In questo mondo e in questa vita non rivedranno più quelli che sono saliti a bordo.

Bilbo abbandona la Terra di Mezzo senza rimpianti, e davanti alla nuova avventura che lo aspetta prova l'antico piacere del salto verso la novità.
E' una canzone di addio, e insieme di benvenuto. L'antica inquietudine che lo aveva portato per due volte fuori dalla Contea si stempera nella dolcezza dell'attesa per quello che sarà la meta del suo ultimo viaggio.
J. R. R. Bilbo Tolkien  la scrisse nel 1966, quando aveva ormai raggiunto un'età in cui la partenza per l'Ultimo Viaggio poteva ragionevolmente essere attesa da un giorno all'altro. La morte è un passaggio, un cambiamento che va affrontato con fiducia, ma anche con animo aperto e curioso: ci sono isole, dietro al Sole, dove si riposerà prima della fine, e ci sono terre, a occidente dell'Occidente, dove la notte è pace, e il sonno è riposo. 
La stella che guida la sua nave, tutto lascia immaginare, è il silmaril di Earendil, quello di cui aveva cantato una sera lontana a Rivendell, quando Grampasso era ancora un "semplice Ramingo" e il mondo stava vivendo gli ultimissimi spiccioli della Terza Era.

Da allora quel poster è sempre stato nella camera in cui dormivo. Non ho mai cercato di imparare a memoria la poesia, anche se (o forse perché) è la poesia di Tolkien che preferisco; anzi, è perfino possibile che non l'abbia nemmeno mai letta tutta di fila. Mi basta averla lì, sotto gli occhi, a ricordarmi di come vanno affrontati i dolori, le separazioni e le partenze, le novità e le sorprese. Insomma, i passaggi.

Il poster venne pubblicato nel 1974, un anno dopo la morte del Professore. Il disegno è di Pauline Baynes.


Day is ended, dim my eyes,
But journey long before me lies.
Farewell, friends! I hear the call.
The ship's beside the stony wall.
Foam is white and waves are grey;
beyond the sunset leads my way.
Foam is salt, the wind is free;
I hear the rising of the sea.

Farewell, friends! The sails are set,
the wind is east, the moorings fret.
Shadows long before me lie,
beneath the ever-bending sky,
but islands lie behind the Sun
that I shall raise ere all is done;
lands there are to west of West,
where night is quiet and sleep is rest.

Guided by the Lonely Star,
beyond the utmost harbour-bar,
I'll find the heavens fair and free,
and beaches of the Starlit Sea.
Ship my ship! I seek the West,
and fields and mountains ever blest.
Farewell to Middle-earth at last.
I see the star above my mast!

venerdì 10 gennaio 2014

Il mulino dei dodici corvi - Otfried Preussler


Il romanzo è del 1971 ma in Italia arrivò solo nel 1989, corredato da un riassunto di copertina che, nel bel mezzo della trama, spiegava di come esso romanzo fosse "una saga vendica (i protagonisti sono tutti sorabi della Lusazia)".
All'epoca non avevo la benché minima idea di cosa accidenti fosse una saga vendica, e non parliamo dei sorabi della Lusazia; ero anche consapevole che il lettore medio non ne sapeva più di me, né capivo perché l'editore si fosse preoccupato di chiarire un dettaglio del genere in un testo che in teoria doveva invitare all'acquisto del romanzo, e non far scappare a gambe levate davanti a tanta pedanteria l'aspirante lettore.
Ad ogni modo è vero, i protagonisti sono tutti sorabi della Lusazia, ma il libro si legge benissimo anche senza sapere chi sono i sorabi (una popolazione slava che abita in Germania) né dove stia la Lusazia (che, per la cronaca, è nella Germania orientale); e infatti la frase fu tolta nelle edizioni successive, anche se tra i miei amici è rimasta come modo di dire per diversi anni. Quanto alla saga vendica, i vendi erano un popolo pagano di origine slava che abitava in quelle regioni tra Germania Orientale, Boemia e Polonia.

E' una storia ambientata in Germania, più esattamente in Lusazia, nel Seicento. Ma non importa granché sapere nemmeno questo, perché è una storia per molti aspetti fuori dal tempo e dallo spazio.
Un ragazzo orfano di nome Krabat, sui quattordici anni, vagabondo senza fissa dimora dopo la morte dei suoi genitori, viene chiamato in sogno ad un mulino. Ci va e viene assunto come apprendista. Con lui al mulino ci sono undici garzoni di età tra i quattordici e i trent'anni. Il padrone del mulino è un uomo di una certa età senza un occhio, esperto in magia nera. La insegna anche ai suoi lavoranti, una volta alla settimana, dopo averli trasformati in corvi - dodici corvi, appunto. E il mulino non è un mulino qualunque: si macina grano trasformandolo in farina, certo, ma che fine faccia la farina e da dove viene il grano non è molto chiaro - certo non viene dal paese vicino, dove il mulino è considerato con grande diffidenza e dove nessuno porterebbe mai a macinare nemmeno un sacchetto di frumento. E nelle notti senza luna arriva il Compare, di cui il padrone del mulino ha una certa paura, e allora si macina di notte, ma non si sa bene cosa si macina, né si ha alcun desiderio di approfondire la questione. E una volta all'anno uno dei lavoranti scompare... vabbé, non è necessario raccontare la trama in tutti i suoi dettagli, immagino.
Krabat comunque si rende conto che il mulino presenta una serie di risvolti piuttosto inquietanti e per niente salutari, e comincia a pensare che forse restare là non è una buona idea. Andarsene via dal mulino, però, non è affatto semplice, anche perché il mago esperto di magia nera sorveglia con molta attenzione i suoi dodici lavoranti. Occorreranno molta cautela e alcuni aiuti.

Si potrebbe classificare questo libro nella letteratura fantasy o nella narrativa fiabesca - sono state fatte entrambe le cose. Si può anche lasciare il compito della classificazione a chi vuole occuparsene e limitarsi a leggere il romanzo, che è bellissimo e molto ben scritto e tratta i soliti, eterni argomenti di cui parlano sia la fantasy che le fiabe nonché tutta la letteratura: di inganni e di fiducia, di apparenza e di realtà, di prigioni e di fughe, della vita, della morte, dell'amicizia e dell'amore e dei messaggi che possono mandare i sogni - Krabat sogna moltissimo, e i suoi sogni sono sempre molto interessanti.
La narrazione scorre veloce: per leggere le due-trecento pagine bastano un pomeriggio lungo o un paio di serate. Si può leggere dai dieci anni in su a qualsiasi età e lascia una piacevole sensazione, come di avere fatto un bucato all'anima e di averla stesa ad asciugare, e di avere nel contempo imparato molte cose. Diciamo che, oltre a parlare di magia, è anche un libro magico.

Consigliato caldamente a chiunque, in qualsiasi stagione e in qualunque stato d'animo, ma in particolare a chi si trova immerso in una situazione aggrovigliata e desidera un consiglio ma nel contempo vuole staccare un po'.

Con questo post partecipo ai Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro a tutti i partecipanti e a chiunque passi di qua, un felice fine settimana e buone letture, nonché un radioso 2014. 

mercoledì 8 gennaio 2014

Honni soit qui mal y pense

Com'è noto, alcune posizioni del Kamasutra richiedono una certa destrezza fisica

Quest'anno il Progetto Multiculturale ha cambiato pelle, ed è un laboratorio sull'autobiografia - trasformazione imprevista, ma certo più che gradita in una seconda in mezzo al guado della presa di coscienza adolescenziale.
Mi hanno spiegato che nelle classi dove anche l'insegnante partecipa al laboratorio le cose funzionano meglio. E dunque anch'io partecipo al laboratorio, seguendo punto per punto le istruzioni dell'addetta ai lavori.
"Per prima cosa costruirete tutti il vostro diario". E così, con cartoncini colorati, fogli e fili di lana tutti abbiamo costruito il nostro diario. I fili di lana sono stati fatti passare dai fori fatti con l'apposita macchinetta foratrice presa giù in portineria.
Poi abbiamo scritto il nostro nome e parlato del nostro nome. Se conosciamo il suo significato, chi l'ha scelto per noi, perché è stato scelto eccetera.
Poi abbiamo fatto l'acrostico con il nostro nome: per ogni lettera dovevamo scegliere un sostantivo o un aggettivo che ci rappresentasse. Con due di quelle parole dovevamo poi comporre il nostro nome sulla copertina del diario.
L'alunno con la K nel nome era un po' perplesso: "Io una parola col K ce l'avrei, ma credo sia una parolaccia".
Siccome in quella classe il concetto di "parolaccia" è talvolta piuttosto insolito ho chiesto chiarimenti. Dopo varie esitazioni l'alunno ha infine sussurrato "kamasutra".
"Puoi usarla tranquillamente" l'ho rassicurato. E così come nome si è scelto "Kamasutra Eccellente", che mi sembra un gran bel proponimento.
In cuor mio ho stabilito che andava pur fatto qualcosa per rimediare a cotanta ignoranza; sono l'insegnante di Lettere, giusto? E chi meglio di me è qualificato per parlargli di letteratura?

Così, nelle due ore di buco che avevo dopo il laboratorio sono andata su Wikipedia, dove c'era una bella e sobria descrizione del Kamasutra, ne ho ricavata una breve scheda e, all'ora successiva dov'ero di nuovo nella Seconda d'Ogni Grazia Adorna ho spiegato cos'era esattamente il Kamasutra, com'era strutturato, quando era stato scritto, bla bla bla, l'approccio della cultura indiana al sesso, il capitolo delle posizioni, ribla ribla ribla...
Hanno ascoltato con vivo interesse.
"Kamasutra è il titolo di un'opera letteraria, quindi è una parola che potete sempre pronunciare, anche se siete a pranzo a un'ambasciata. Poi ci sono espressioni come 'sperimentare il kamasutra' che sono anche quelle perfettamente lecite, ma dipende dal contesto".
"E se vado in libreria lo trovo?".
"Direi proprio di sì, ma non so se è sempre in stampa. In biblioteca c'è senz'altro. Se non in quella di St. Mary Mead, in una del circuito della provincia".
"Con le stampe illustrative?"
"Mmhhh, questo non lo so. Quello che ho letto io non aveva l'ombra di un'illustrazione. Magari l'hanno stampato anche con le illustrazioni, in Italia, ma non ci giurerei. E' più complicato fare i libri con le illustrazioni, sapete".
Qualcuno mi chiede una fotocopia della scheda. Li mando a fare le fotocopie.
Poi ci prepariamo per le interrogazioni di storia. Chi non è interrogato può continuare a colorare la copertina del suo diario, come richiesto da colei che gestisce il laboratorio. Oppure finisce di confezionarlo, perché fare i due buchi per farci passare la lana si è rivelato complicato.
Quando tutti hanno bucato e ribucato in modo soddisfacente, Kamasutra Eccellente alza la mano "Prof, riporto la bucaiola ai custodi?".

Sussulto. Ma la formalissima classe tanto preoccupata delle parolacce non fa una piega. Anche Kamasutra Eccellente sembra il ritratto dell'innocenza.
"Ehm, sì, certo". 
Kamasutra Eccellente scende dai custodi, mentre Iriza continua tranquilla la sua interrogazione. Dalla memoria emerge improvvisamente il vago ricordo di una custode che una volta ho sentito mormorare "Dove ho messo la bucaiola?" per poi frugare un po' ed afferrare quell'aggeggio che si usa per forare la carta.
Un breve consulto linguistico con le colleghe mi permette di appurare che sì, a St. Mary Mead quell'attrezzo da ufficio è chiamato senza alcuna malizia per l'appunto bucaiola, laddove nel resto del mondo, o quantomeno nei tre uffici dove ho lavorato prima di approdare al complesso e affascinante mondo della scuola, era appellata come "foratrice" o "la macchinetta per fare i buchi", modello da due buchi o da quattro a seconda delle necessità del richiedente.

E disonore ricada su chi pensa male di ciò.

sabato 4 gennaio 2014

I miei insegnanti - La prof. De Divinis

Josephine Wall - Moon Godness

E' con profondo senso di inadeguatezza che mi accingo a ricordare quella che per me è stata l'Insegnante per eccellenza, ovvero Colei Che Apre Le Porte. Non tutti ne incontrano una (o uno) e pochi hanno la possibilità di averla a lungo. Io l'ho avuta per due anni, al Ginnasio, e ha inciso su di me con una forza che mi rende impossibile immaginare come sarebbe stata la mia vita se non l'avessi incontrata.

Con scarso entusiasmo andai al Liceo Classico: avevo il dente avvelenato verso la cultura classica e un'allergia alla retorica non del tutto insolita per una quattordicenne - per tacere di un profondo e confuso amore per tutto ciò che era celtico e nordico. Le premesse per un disastro c'erano tutte, e solo la cieca determinazione di una madre in cerca del Riscatto Sociale* poteva non vederle. Quanto a mio padre, aveva delegato la questione a mia madre in quanto Esperta di Scuola (ci lavorava, come insegnante delle elementari). Nessuno pensò a chiedere il mio parere, e del resto io stessa non immaginavo di averne uno e mi lasciai gestire con la stessa forza di iniziativa di un pacco postale.  Nonostante al liceo abbia incontrato alcune delle persone più importanti della mia vita e mi sia nel complesso divertita molto, tuttora ho la convinzione di aver sbagliato a lasciar fare.

All'epoca l'insegnante di Lettere del Ginnasio era una sorta di maestro unico che per diciotto ore a settimana si occupava della nostra preparazione in Italiano, Latino, Greco, Storia e Geografia. Costui o costei si ritrovava avvinto/a alla classe in un abbraccio mortale che nessun'altra cattedra conosce o conosceva, perché perfino nel tempo prolungato delle medie al più si fanno quindici ore nella stessa classe e le rimanenti sono a disposizione o  spicciolate in recuperi a classi aperte, mense, alternative a Religione o laboratori che permettono di entrare in contatto con altre classi, o almeno gruppi di alunni di altre classi.
Al Ginnasio, per 18 ore e nelle cinque materie di gran lunga più importanti, un solo insegnante faceva e disfaceva; per giunta, la maggior parte degli insegnanti di Latino e Greco era (e in parte è tuttora) afflitta da forme di follia e onnipotenza più o meno conclamate nonché da una più o meno sottile tendenza al sadismo.

Ma la prof. De Divinis, pur amando profondamente sia il suo lavoro (che faceva benissimo) che la cultura classica (che conosceva assai a fondo) non aveva alcuna vena sadica e anzi trattava con profondo rispetto e gentilezza i suoi alunni, tutti, e li studiava ed esaminava con gran cura, maneggiandoli con la cautela che gli artificieri usano per i pacchi sospetti e mettendone in evidenza gli aspetti positivi, sui quali faceva leva. Credo sia stato grazie a questo che diventammo una classe e non un'accozzaglia di individui riuniti per avventura in un corso di studi - pur essendo, in verità, una collezione di creature invero assai disparate.

Vorrei poter dire che, con pochi e agili tocchi, fece di me un'eccellente studentessa di greco e latino, ma non fu così; il greco fu per me sin dall'inizio una dark zone, e il latino mi rimase abbastanza ostico: le mie prevenzioni erano radicate troppo a fondo e in quegli anni non ero esattamente in una fase felice e disponibile, senza contare che la profonda e assoluta devozione che avevo per lei finì per complicare il tutto. I miei voti a italiano comunque erano stratosferici e quelli a storia e geografia piuttosto onorevoli, e ogni volta che suggeriva in modo più o meno casuale un libro me lo leggevo con grande premura (anche perché farlo mi dava una buona scusa per non studiare la grammatica. Dubito però che ci suggerisse di leggere per consentirci di aggirare gli esercizi di grammatica, e ne dubitavo anche allora).
Nel giro di pochissimi giorni abbandonai ogni tipo di filtro critico e mi spalmai come burro su ogni sua teoria o convinzione, facendole mie. A distanza di più di trent'anni, e con un patrimonio di studi mio personale, devo dire che non ricordo un solo commento o annotazione su cui, con l'andare degli anni, abbia cambiato idea rispetto a quel che diceva lei: fosse Kafka, Euripide o Ungaretti, Virgilio, Platone o Manzoni, la sua interpretazione è sempre rimasta ai miei occhi quella giusta. E c'era un valore aggiunto in ogni cosa che faceva scivolare nelle lezioni, fossero le etimologie, le analisi delle radici, i paralleli con il sanscrito, i racconti di mitologia greca e latina, l'interpretazione delle fonti per storia.

Era una tipica Anziana Signora (doveva essere nata intorno alla prima guerra mondiale): minuta, con voce esile e gesti tranquilli, senza nulla di molto appariscente ma con una certa eleganza di fondo. I suoi metodi di insegnamento però non erano particolarmente tradizionali. L'analisi dei testi, per esempio, la facevamo insieme.
Che cosa vuol dire questo? Cosa significa quest'altro? Perché viene usata questa parola, in questo punto? Come interpretate la reazione di X? Che impressione vi ha fatto Y? Che mi dite di questo verso? 
Imparai quante cose, quanta enorme enormità di significati potesse racchiudere una frase, un verso, la scelta di una parola, l'uso di un determinato tempo verbale invece di un altro. Quante cose riuscivano a stare in un paragrafo, in un racconto, in un libro. Quanti significati racchiudesse la parola "romanticismo", quante sfaccettature l'analisi di un singolo verbo greco, quante ambivalenze lo studio di un singolo animale sacro.

Siamo stati una classe che ha amato Manzoni.
Ripeto: siamo stati una classe che ha amato Manzoni, perché lo amava lei. Abbiamo letto i Promessi Sposi, tutti. Verso la fine dell'anno ci chiese se preferivamo finire i Promessi Sposi o l'Adelchi (ci mancava l'ultimo atto). Fu una decisione sofferta perché ci erano piaciuti entrambi, ma alla fine scegliemmo i Promessi Sposi, e ricordo ancora quelle belle giornate non troppo calde con la sua voce sottile che leggeva**, e la morte di Ermengarda, con una parte della classe che si asciugava gli occhi. 
I dialoghi di Platone (sì, ci lesse un bel pezzo del Gorgia, oltre a fare l'Eutifrone come testo di lettura in greco). Il messaggio dell'imperatore di Kafka. Le mal vietate Alpi di Foscolo, così chiamate perché chiunque volesse passarci ci passava per poi invaderci. I continui e infiniti riferimenti all'Odissea, che credo conoscesse a memoria. Le poesie di Archiloco e Mimnermo. Io prediletto / io reietto (e questo era Enea, ma erano e sono un po' tutti gli eroi). E qui la smetto perché sta diventando un elenco. 
Ma niente vite degli autori, al massimo qualche riferimento storico al periodo. A tutt'oggi sono convinta che la vita di un autore acquista un senso solo dopo che hai conosciuto molto bene la sua produzione testuale, e non viceversa.

I temi che ci assegnava nascevano dal lavoro che facevamo insieme, e non erano mai vere tracce. Ci disse  che la sera prima di andare a dormire stabiliva "per domattina voglio tre temi sul comodino" e li trovava sempre. Erano temi che sarebbero risultati incomprensibili al resto dell'umanità, immagino: "La tana" (era preso da un racconto di Kafka), "La prova", "Silla" (lo mandai a coltivare rose, il sogno da sempre), lo scudo di Archiloco abbandonato in battaglia... no, credo che lì ci chiedesse di parlare di qualche poesia di Archiloco, ma io ci feci una tirata antimilitarista.
I temi più belli venivano letti ad alta voce. Da chi li aveva scritti. Ricordo ancora l'orribile disagio del malcapitato di turno, che a volte ero io. Ma non era nemmeno concepibile dire di no alla De Divinis, capite, per cui anche i più timidi (ovvero TUTTI, in quei casi) leggevano, nonostante il terrore di inciampare nelle frasi, in un silenzio irreale e attentissimo dei compagni che non migliorava certo la situazione - eppure da quelle letture ho imparato un'inifinità di cose su di loro (e loro su di me).
Le conversazioni in latino - furono solo due, in realtà, ma sono esperienze che restano impresse. Lei faceva le domande in latino e noi dovevamo rispondere in latino. Lo strano è che ci riuscivamo, ci riuscivo perfino io. E le affascinanti lezioni di grammatica (sì, le affascinanti lezioni di grammatica, l'ho scritto e intendevo proprio dire quello che sembra. Erano affascinanti, ricche e complete, incredibilmente complete), in particolare quelle sul periodo ipotetico, che era una sua fissazione. Ma in effetti, mi sono resa conto con gli anni, quando hai davvero capito come funziona il periodo ipotetico, hai fatto davvero un bel passo avanti, sia in latino che in greco che in italiano.

A fine biennio ci salutò con una lettera - una per ognuno di noi, intendo. Conteneva un'analisi... non so, del nostro lavoro in quei due anni? Del nostro carattere? Un suggerimento per il futuro? Un po' di tutto questo, e qualcos'altro ancora.  Adesso che insegno anch'io so quanto coraggio ci vuole per fare una cosa del genere, ma soprattutto quanta cura e quanta attenzione verso i ragazzi. Erano lettere singolarmente azzeccate (non ho letto solo la mia, che naturalmente conservo con gran cura). Ed erano belle, molto belle.

Difficile dire cosa abbia preso da lei nel mio modo di insegnare, perché non è un'insegnante che riesco a guardare dall'esterno, com'è stato per tutti gli altri: ha contribuito troppo a fare di me quel che sono. Certamente l'attenzione per la grammatica (soprattutto il periodo ipotetico) e l'arte di far scivolare nelle lezioni elementi di un livello molto superiore, con nonchalance. Un sacco, ma veramente un sacco, di pure e bieche nozioni. Il modo di affrontare la storia. Il modo di affrontare la mitologia. Certamente il concetto che gli alunni vanno certo istruiti, certo amati, ma prima e soprattutto rispettati. L'idea che le classi non nascano per caso e vadano, nei limiti del possibile, amalgamate perché maggiore è il numero di canali di comunicazione aperti e meglio si lavora. Il modo di preparare i temi. Probabilmente anche molte altre cose. 
Di sicuro l'esclamazione "Signori!" quando la classe va richiamata all'ordine e all'attenzione.

*I miei avevano fatto le superiori ma non il liceo perché in famiglia si preferì fargli fare qualcosa che gli permettesse di lavorare appena finite le scuole - il che, considerando che finirono le scuole subito dopo la guerra, non si rivelò poi un'idea così improvvida.
**voce sottile, ma con una bella resistenza: quando dico che abbiamo letto tutti i Promessi Sposi intendo che li ha letti tutti, in classe, lei. Noi ascoltavamo, e all'occorrenza facevamo domande.Mancavano solo spremute di frutta e pasticcini, poi il servizio sarebbe stato davvero completo.