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lunedì 31 dicembre 2018

Imprevisti risvolti avventurosi del Piccolo Premio Letterario


Tutti gli anni le tre classi prime della Scuola Media di St. Mary Mead partecipano al Piccolo Premio Letterario. Si tratta di una simpatica iniziativa atta a diffondere la lettura nelle giovani generazioni: il Piccolo Premio Letterario ci fornisce una batteria di libri a prezzo ridotto,  i ragazzi li leggono e poi li valutano con apposito voto.
A fine Maggio arriva poi la  Gran Finale: i quattro libri più votati dai ragazzi entrano in finale, e le classi che lo desiderano vanno nel Paese del Piccolo Premio, dove gli autori ripresentano i loro libri e rispondono alle domande dei giovani giudici. In ultimo c'è la  votazione finale dove i ragazzi scelgono il vincitore e dopo tutti tornano a casa felici e contenti, almeno nelle intenzioni degli organizzatori.

Per vecchia tradizione le classi prime di St. Mary Mead partecipavano a questa specie di gita di fine anno che, vista la distanza che ci separava dal Paese del Piccolo Premio diventava una escursione piuttosto impegnativa anche se i ragazzi si divertivano sempre molto (che era poi il vero motivo per cui gli insegnanti di Lettere si mettevano all'anima quella che tutti noi consideravamo una gran palla).
Normalmente sono abituata a scansare le gite di uno o più giorni perché soffro molto i viaggi in pullman. Tuttavia quell'anno la situazione logistica e la disponibilità degli insegnanti era tale che quasi subito mi ero resa conto che non sarei riuscita a sfuggire, stavolta. Mi ero così rassegnata e con apparente buona grazia mi ero impegnata ad accompagnare le prime con le proff. Therral e  Quadrella in base al principio che chi schivare non può la propria noia, la accetti di buon grado.

Così, in un caldo e luminoso mattino di Maggio, ad una scomodissima e assai antelucana ora  partimmo alla volta del Paese del Piccolo Premio.

Il viaggio si svolse senza inconvenienti e approdammo alla piazza centrale del Paese che non erano ancora le undici. Su di noi il sole splendeva, l'asfalto riverberava che era una meraviglia e, per dirla in sintesi, si schiattava di caldo. Le scolaresche arrivate prima di noi si erano logicamente acquattate nelle zone in ombra, ma non era stata presa in considerazione la possibilità di ombreggiare l'intera piazza. Sul palco i quattro autori chiacchieravano dei loro libri (nessuno dei quali mi era particolarmente piaciuto) e confesso che mi ero rifugiata in una volta fresca e ombrosa piena di espositori carichi di libri per ragazzi, con la scusa di cercare ispirazione per gli acquisti futuri della biblioteca quando mi raggiunsero per avvisarmi che Confucio, uno dei miei, si era sentito male.

Prontamente accorsi, come di dovere, e trovai Confucio, pallido come un cencio appena candeggiato, disteso in un altro punto della volta fresca e ombrosa, mentre uno dei quattro autori (per la cronaca, quello che poi ha vinto) che per l'occasione è risultato essere un medico, gli misurava la pressione e faceva domande varie. Confucio rispondeva in modo accorto e pertinente, ma lamentava anche un gran mal di testa. Alla fine l'autore-medico suggerì una visitina all'ospedale locale per un piccolo controllo: certamente era stato solo un malore passeggero, ma qualche ora in un ambiente fresco e silenzioso poteva fargli solo bene.
Naturalmente accettai senza batter ciglio e naturalmente toccava a me accompagnarlo e lo accompagnai.
All'ospedale furono efficienti quanto cortesi: allettarono Confucio, gli fecero la solita flebo fisiologica e avvisarono la famiglia (in realtà il padre, perché i due genitori erano separati e i figli vivevano appunto col padre in un menage con caratteristiche a tratti un po' strampalate).
Confermarono che erasi trattato di un piccolo malore, nulla di grave; Confucio comunque continuava a lamentare mal di testa.
Mi sistemai alla destra del letto, su una comoda poltroncina, con una rivista a farmi compagnia, rispondendo all'occorrenza alle domande di Confucio e facendo un po' di conversazione con lui, in attesa dell'arrivo del padre che immaginavo già per strada, ansioso di recuperare la sua malandata prole.
Evvabbé, sono cose che succedono.
Passa una mezz'ora e improvvisamente sento una voce assai simile a quella della prof. Quadrella. Mi affaccio incuriosita sul corridoio e scopro per l'appunto che, oltre alla voce della prof. Quadrella c'era anche la prof. Quadrella in persona. Ellamiseria, mi dico, ma che docenti ansiosi siamo fra tutti, dopotutto Confucio ha accusato un modesto malore e un po' di mal di testa, si suppone che ne uscirà vivo.
Una seconda occhiata mi svela però l'amara verità: non al capezzale di Confucio era accorsa la prof. Quadrella, bensì stava accompagnando un suo alunno, che durante il pranzo al sacco che aveva seguito la prima parte della cerimonia del Piccolo Premio non aveva saputo trovare di meglio che farsi venire una crisi di panico dovuta alla claustrofobia perché i locali del castello che il Comune ci aveva messo a disposizione erano un po' stretti. Dunque secondo ricovero, e la prof. Therral si trovava nella non invidiabile posizione di dover gestire da sola più di cinquanta ragazzi ormai decisamente inquieti e perplessi. (Therral comunque non si perse d'animo, portò i cinquanta ragazzi all'aperto su dei prati all'ombra e attese impavida lo sviluppo degli eventi).

Già che erano a chiamare famiglie, all'ospedale richiamarono il padre di Confucio per sapere quando sarebbe arrivato. Risultò così che costui non era affatto partito perché "tanto l'avevano assicurato che non era una cosa grave" e dava per scontato che il ragazzo sarebbe tornato con gli altri. A quel punto me lo feci passare (in quell'ospedale non era consentito usare telefoni personali ma solo il telefono messo a disposizione dall'ospedale) e gli aprii il mio cuore spiegandogli che 1) far rientrare Confucio che aveva ancora il mal di testa con cinquanta alunni scalmanati non mi sembrava una grande idea e che 2) all'ospedale avrebbero assai gradito affidare la creatura ancora sofferente a persona responsabile di lui, più che lasciarlo con gli insegnanti.
"Per me però è difficile adesso farmi sostituire sul lavoro, e ho la macchina parcheggiata lontano da qui. Caso mai vengo domattina a riprenderlo, lei intanto può tornare a casa con gli altri, naturalmente".
No, non posso - lo assicuro - in questo momento suo figlio è sotto la mia responsabilità e non posso abbandonarlo,  e comunque sarebbe più pratico per tutti, e soprattutto per Confucio, se lei venisse a prenderlo.
Il padre promette che vedrà quel che può fare e riattacca, lasciandomi all'arduo compito di cercare gli occhi che mi son cascati per terra onde rimetterli nelle orbite. E siam d'accordo che oggi il genitore  medio è davvero troppo ansioso e ansiogeno, ma forse qua stiamo esagerando: parcheggiare solo  soletto un ragazzo di dodici anni non ancora compiuti in un ospedale all'altro capo della regione solo perché papi ha la macchina parcheggiata lontana  mi sembra francamente un po' eccessivo.

Poco dopo chiama la VicePreside, allertata dalle altre colleghe, per offrirmi la sua solidarietà e promettere che cercherà di trovarmi una scappatoia legale per tornare a casa con il resto delle scolaresche. Nel frattempo dalla corsia il personale dell'ospedale si lamenta che stiamo facendo e ricevendo troppe telefonate e facendo troppa confusione nei corridoi. Faccio loro una doverosa ringhiata, poi ringrazio la VicePreside del disturbo che si sta prendendo ma le garantisco che la scappatoia legale non c'è, e che se anche ci fosse piantare Confucio come un carciofo per la notte solo soletto non mi sembrerebbe davvero cosa, per quanto io sia del tutto favorevole a coltivare l'automia e il senso di autoresponsabilità dei ragazzi preadolescenti.
Una volta riattaccato il telefono, mi siedo di nuovo accanto a Confucio che dormicchia, cercando con coraggio di ingoiare il rospo di una notte fuor di casa, all'ospedale per di più, e speriamo che almeno mi diano un po' di cena perché comincio ad avvertire un certo appetito.

Suonano le tre e mezzo. Il padre del ragazzo che ha avuto la crisi di panico, che adesso riposa nel letto accanto a quello di Confucio, è noto per essere persona inaffidabile, sciagurata e sempre coinvolta in disegni e progetti di dubbia limpidezza morale; sta di fatto che si è mosso alla velocità della luce e quando arriva con uno zio al seguito saluta il figlio con tutta l'affettuosa complicità e apprensione che qualsiasi genitore affettuoso mostra in questi casi.
Il ragazzo viene così prelevato e la prof. Quadrella può infine riunirsi alla prof. Therral e ai cinquanta e passa ragazzi, che aspetteranno per ripartire fino all'ultimo momento in cui ci sarà la ragionevole speranza di vedermi partire con loro.
Poco dopo chiama la VicePreside per assicurarmi che la scappatoia legale per me non c'è; provo a risponderle con una variante garbata di "E grazie al cazzo, si sa che non c'è, ed è anche giusto che non ci sia". Poi un parzialissimo raggio di sole: la prof. Quadrella chiama per annunciarmi che il padre di Confucio è riuscito a farsi sostituire sul lavoro e a raggiungere la sua macchina; addirittura l'ha messa in moto ed è partito alla nostra volta anche se l'auto fa uno strano rumore.
A svariati chilometri di distanza io e la prof. Therral pensiamo in coro "Non ce la farà MAI!". E di nuovo provo eroicamente a rassegnarmi all'idea di una simpatica notte all'ospedale, lontano dalle mie belle gatte e dai confort della mia ancora più bella casa.
Tuttavia un raggio di luce assai più deciso viene da Confucio: quando si sveglia, finalmente libero da mal di testa, gli vengono riferite le ultime notizie. "Non vuol dir niente" ci rassicura "quella macchina fa SEMPRE qualche strano rumore, poi va tutto bene."
Rianimata da questo bel cavo intrecciato di speranza (ho molta fiducia nel giudizio di Confucio, ne mai ho avuto motivo di perderla, in tre anni) comincio a guardare al futuro con un po' di ottimismo.
Passa il tempo. Io e Confucio parliamo di traffici di armi, di armi in vendita, dell'esistenza o meno di dio (lui non ci crede) ...
Infine il padre di Confucio arriva, in un mare di ansia e confusione. Prende il figlio e se ne va, con grande sollievo della collettività tutta.
Accolta da un grande applauso riesco a raggiungere il pullman che parte immediatamente.

E sia io che Therral che Quadrella, in triplice giuramento e Voto Infrangibile, giuriamo che MAI PIÙ il Piccolo Premio Letterario avrà il nostro scalpo e d'ora in poi le prime verranno deprivate di questa succosa occasione mondana.

6 commenti:

dolcezzedimamma ha detto...

Mai avevo accompagnato classi in gita, visto che prima avevo i bambini piccoli, poi il preside le utilizzava come regalie x gli amici, poi erano arrivati i "bambini" grandi... Una volta, finalmente, complice un viaggio a Barcellona di soli 4 giorni e una classe carina, sono partita anch'io. Su 120 alunni solo una ragazza stette male per 2 giorni:indovina un po' a chi era affidata...

Murasaki ha detto...

Strabilio a pensare che una gita scolastica sia vista come un PREMIO per insegnanti particolarmente cocchidipreside: a me son sempre sembrate grandissime iatture che comportano grande dispendio di energie, enorme peso di responsabilità e abominevoli levatacce. Ho sempre nutrito gran rispetto per quelli che se le accollano e ho sempre vitato ai collegi dei docenti per incentivare quei coraggiosi individui che se le accollavano.
Naturalmente per chi di solito non le fa c'è sempre la Sfortuna del Principiante, com'è successo a noi. E con Therral e Quadrella ho ammesso senza remore che, dopo sei anni che questa gita avveniva senza un problema al mondo, in quel caso la sfiga l'avevo attirata senz'altro io!

Bridigala ha detto...

Aiuto! (Buon Anno, intanto.)
Mi hai fatto tornare alla mente un episodio avvenuto in quarta superiore, la prima sera in cui mi trovavo in scambio culturale in Germania (tedesco era terza lingua, il che vuol dire che essendo febbraio del secondo anno di studio non ne sapevamo granchè), quando una mia compagna ha pensato bene di farsi venire una crisi isterica da manuale in una kneipe con biliardo, i tre maschietti (su cinque) della mia classe che erano venuti in scambio si sono prodigati a stenderla sul biliardo, una delle ragazze tedesche si è messa a chiamare l'ambulanza, il proprietario del bar si è messo ad urlare "Andatevene, non voglio tossici!", ovviamente in crucco, l'ambulanza non arrivava (eravamo a 200m dall'ospedale, per fortuna), la tedeschina più gentile è corsa a prendere la macchina, i ragazzi hanno accompagnato la fanciulla urlante e agitantesi fino all'auto, dovendo scendere tre o quattro gradini. Poichè erano tutti più bassi di lei, non stupisce che il giorno dopo abbia scoperto le caviglie piene di lividi.Portata all'ospedale, la sottoscritta si è incaricata di dare i dati della ricoverata, mentre un'altra compagna spiegava che aveva il terrore degli aghi, così la bella fanciulla ha passato una comoda nottata in una simpatica stanza imbottita.
L'insegnante era a casa dell'omologo tedesco e si è rifiutata di venire all'ospedale (almeno per accertarsi che non avessimo fatto sciocchezze...) Va beh, comunque si è risolto bene perchè eravamo dei bravi ragazzi responsabili!

Murasaki ha detto...

Francamente si è risolta bene solo per questo, e perché c'è un dio molto attivo che orotegge gli insegnanti negligenti e cialtroni, perché la vistra docente meritava una denuncia di quelle che fai prima a saltarla che a girarci intorno!
Complimenti invece a voi tutti (tranne alla fanciulla che ha avuto la brillante idea di farsi venire la crisi isterica, anche se mi rendo conto che non ha scelto a tavolino di farsela venire!)

Kukuviza ha detto...

Mi rendo conto che non dovrei dirlo però il racconto di questo episodio tragicomico mi ha divertito alquanto. Dev'essere il modo in cui lo hai scritto con meravigliose descrizioni degli attori.
Ma perché non scrivi delle sceneggiature, dei testi teatrali (o magari già lo fai)?
Questo episodio mi ha fatto pensare a quei film con Aldo Fabrizi e famiglie numerose al mare...

Murasaki ha detto...

@Kuku:
Ebbene, confesso che ho scritto la sceneggiatura di ben tre recite scolastiche per una cara amica (e mi dicono che hanno anche funzionato accettabilmente) ma a parte questo raro e irripetibile momento di ispirazione, non saprei nemmeno da che parte cominciare. Magari potrei provarci dopo aver seguito un corso o qualcosa del genere, non so, ma è un ambiente da cui sono lontanissima. Eppure, strano ma vero, non sei la prima che me lo dice.