Quel che vado oggi a presentare è il primo romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie, scritto quando questa eccellente autrice - dal nome per me assolutamente irricordabile nonostante la grande ammirazione che sento per lei - aveva 26 anni, nel 2003 e tradotto nel 2006 per le edizioni Fusi Orari. Adesso l'autrice è in carico a Einaudi, che dovrebbe ormai aver pubblicato tutti i suoi romanzi - ma ignoro se per questo ha approntato o meno una nuova traduzione.
Nel frattempo sono passati gli anni e l'autrice è diventata molto famosa, almeno negli USA. Io comunque l'ho scoperta solo l'anno scorso, con Americanah, per la qual scoperta devo grande riconoscenza al blog de I dolori della giovane libraia - e ripensandoci, sospetto che il trip africano me l'abbia innestato proprio lei perché fino all'anno scorso per me l'Africa era solo un continente pieno di stati che si ostinavano ad essere poveri, giusto per autocitarmi, e la Nigeria un paese dove tutti gli stati più ricchi andavano a prendere petrolio senza lasciarne nemmeno un barattolino ai legittimi possessori e dove ogni tanto rapivano un ingegnere proprio per questioni legate allo sfruttamento del petrolio - mentre adesso è il paese dove abitano i protagonisti dei romanzi di Adichie e dove tutti mangiano grandi quantità di platano fritto e igname lesso oltre a tanti altri piatti dal nome incomprensibile (e che mi piacerebbe provare, ma a Firenze non ci sono ristoranti nigeriani, anche se ne ho scovato uno eritreo che prima o poi proverò quando il mio stomaco avrà smesso di fare i capricci).
Ma veniamo all'Ibisco viola. Nonostante platano fritto e da friggere e igname da sbucciare e poi lessare e condire nei più vari modi abbondino, nonostante il nonno della protagonista che è ancora legato agli antichi culti, nonostante la penuria di benzina e le continue interruzioni della corrente elettrica che complicano parecchio la vita del frigorifero della zia della protagonista, più che un romanzo nigeriano si tratta di un romanzo ambientato in Nigeria: la storia raccontata potrebbe svolgersi in qualsiasi paese (e certamente in Italia), anche nell'appartamento del piano di sopra o nella casa all'angolo. Per dirla in breve, è una storia di violenza familiare, e certamente non è necessario scomodarsi ad andare in Nigeria per viverla; però è raccontata molto bene. Ne viene fuori una narrazione inquietante e spesso opprimente quando la protagonista vive in famiglia; ma per fortuna l'autrice ha avuto compassione del lettore e buona parte dell'azione si svolge a casa della zia della protagonista - che non sarà la perfezione incarnata, ma è un assai piacevole essere umano, e in casa sua l'atmosfera è molto diversa.
La protagonista, Kambili, ha quindici anni e un fratello di diciassette. La sua famiglia è molto ricca e abita in una bella villa piena di marmo. Niente interruzioni della corrente, per loro, niente problemi con la benzina e molta servitù, tra cui un autista. C'è un padre tanto buono e amorevole, e c'è una madre che ogni tanto ha tracce violacee intorno agli occhi e strani lividi. Tutto questo viene raccontato nelle prime dieci pagine, dopo le quali il lettore ha capito la situazione e quel che non ha capito comunque lo intuisce, perché appunto la storia è fuori dal tempo e dallo spazio, e molto simile a certe che leggiamo sui giornali o intuiamo vagamente nelle persone che abbiamo intorno a noi.
Kambili e suo fratello condividono un sacco di cose di cui non parlano nemmeno tra loro se non col linguaggio degli sguardi - l'unico consentito ai prigionieri - e vivono in una campana di vetro. Il padre gli fornisce un orario molto preciso con cui scandire la giornata ed evita rigorosamente che i figli abbiano contatti col mondo esterno: per esempio l'autista li accompagna e li va a prendere a scuola avendo cura di non lasciargli tempo per comunicare con i compagni e stringere - orrore! - amicizie, ed è rigorosamente sottinteso che anche i pensieri dei figli (e della moglie) siano regolati secondo la volontà del capofamiglia.
I due fratelli sono cresciuti sotto il peso della paura e non ricordano nemmeno che ci sia stato un tempo in cui non e avevano - probabilmente perché non c'è stato, e la paura l'hanno assorbita già quando erano nel ventre materno.
L'improvvisa entrata in scena della zia spezza questo cerchio malefico e i due ragazzi realizzano molto gradualmente la follia completa e totale della loro situazione. Si tratta quindi della storia di un risveglio, molto ben narrata. Ma è anche la storia, o meglio il ritratto, del padre, un uomo il cui principale problema è la necessità di un controllo assoluto su tutto quel che ha intorno - un uomo che, come riassume mirabilmente la zia, dovrebbe smettere di cercare di fare il lavoro di Dio, perché Dio è ormai abbastanza grande per farlo da solo, anche senza il suo aiuto; e infatti la religione (cattolica, ma un cattolicesimo dove il Concilio Vaticano II non risulta in alcun modo pervenuto, nonostante siamo ormai nel 1995) è uno dei principali nodi della questione.
Non è un libro leggero e spensierato, anche se si lascia leggere molto bene - come tutto quello che esce dalla penna di Adichie; volendo, si lascia leggere bene perfino sotto l'ombrellone, anche se probabilmente facendo così ci si ritrova a guardare con sospetto quei genitori preoccupatissimi che i loro figli si facciano male, attacchino discorso con estranei e stiano troppo nell'acqua; perché si sa, il diavolo si annida nei dettagli.
Con questo post partecipo al primo Venerdì del Libro di Homemademamma di questo torrido Agosto - avendo cura però di precisare che la Nigeria è sì un paese caldo, come succede spesso in Africa, ma qualsiasi immigrato africano sarà lieto di raccontarvi che il caldo che ha patito nelle estati italiane a casa sua non lo ha mai nemmeno intrasentito. Buona bollitura a tutti e che l'estate sia con voi.
2 commenti:
Sulla bollitura, soprattutto di oggi,meglio tacere. Ovviamente non conoscevo né l'opera né l'autrice...vedrò di recuperare
In un momento più sereno, magari: è una bella lettura, ma non proprio solare. Forse, nel tuo attuale stato d'animo, è meglio "Americanah" che è decisamente meno lugubre.
Posta un commento