La novella di Agilulfo è una delle mie preferite di tutto il Decameron. L'ho proposta alcune volte in seconda media, naturalmente tradotta in italiano moderno, anche con l'idea di trasmettere ai miei alunni l'idea che in certi casi pensare prima di agire può raddirizzare situazioni che sembrano all'apparenza del tutto irrimediabili; ma anche tralasciando questo aspetto didattico è comunque una bellissima storia d'amore, senza contare che è divertente, a lieto fine e che i tre personaggi ci fanno tutti un'ottima figura. Inoltre è un racconto squisitamente medievale, in tutto e per tutto.
Una prova di comprensione del testo può servire per controllare che l'intreccio piuttosto complesso sia stato afferrato appieno.
Una prova di comprensione del testo può servire per controllare che l'intreccio piuttosto complesso sia stato afferrato appieno.
La novella della marchesa di Monferrato, molto meno appariscente, è ugualmente fruibile in una scuola media. Sì, in teoria lo sarebbero anche le altre due, ma ho sempre preferito evitare.
L’arte di tacere nel Decameron
(novelle III, 2; IX, 6 e I, 4; I, 5)
Molti sono i personaggi che nel Decameron si cavano d’impaccio (talvolta anche da impacci invero assai incresciosi) grazie a pronte e accorte risposte; ma in più occasioni Boccaccio ci mostra come gli uomini e le donne prudenti sappiano cavarsi dai più gravi impicci soprattutto grazie al fatto di aver saputo tacere al momento opportuno, riuscendo in tal modo ad evitare danno e scandalo.
Gli accorti e silenziosi protagonisti delle quattro novelle scelte sono molto diversi tra loro per educazione e condizione sociale: un celebre re longobardo, una marchesa, un giovane monaco, la moglie di un modesto oste del contado. In comune tutti e quattro hanno la ventura di trovarsi all’improvviso in una situazione assai spinosa e di riuscire a sfilarsene con garbo e soprattutto con dignità grazie ad una grande discrezione (discretum è infatti colui che sa cernere, ovvero scegliere il partito giusto da prendere) e ad una prontezza di reazione che ha del prodigioso.
Tutti e quattro, a buon diritto, potrebbero prendere come motto il celebre “Primum, non nocere” attribuito ad Ippocrate: prima di tutto, non peggiorare la situazione.
Tutti e quattro, a buon diritto, potrebbero prendere come motto il celebre “Primum, non nocere” attribuito ad Ippocrate: prima di tutto, non peggiorare la situazione.
III, 2: Un pallafreniere giace con la moglie d’Agilulf re, di che Agilulf tacitamente s’accorge: truovalo e tondelo; il tonduto tutti gli altri tonde e così campa della mala ventura
La novella seconda della terza giornata viene introdotta dalla narratrice (Pampinea) proprio con un elogio della discrezione:
"Sono alcuni sì poco discreti nel voler pur mostrare di conoscere e di sentire quello che per lor non fa di sapere, che alcuna volta per questo riprendendo i disavveduti difetti in altrui, si credono la loro vergogna scemare, là dove essi l’accrescono in infinito: e che ciò sia vero, nel suo contrario mostrandovi l’astuzia [...] d’un valoroso re, vaghe donne, intendo che per me vi sia dimostrato".
La storia parla di un palafreniere della corte di Agilulfo che si innamora pazzamente della regina Teodolinda, tanto da decidere, rischiando il tutto per tutto, di tentare di passare una notte d’amore con lei. Per quanto forte sia l'amore, però, non ha spento del tutto in lui l’istinto di conservazione né il discernimento: consapevole del fatto che la regina non consentirebbe mai a prendersi un amante, e tantomento uno stalliere, il giovane sceglie di non svelare alla regina l’amore che le porta, e di tentare semplicemente di sostituirsi al re. A questo scopo studia accuratamente le abitudini della regale coppia e una notte, prese le dovute precauzioni, tenta il colpo, che riesce nel migliore dei modi.
Stanco ma soddisfatto il giovane va a riposare con tutti gli altri servi.
A questo punto entra in scena il re Agilulfo, che proprio quando il giovane ha appena lasciato la regina decide di godere i suoi privilegi coniugali e si reca perciò nell'appartamento della regal consorte; questa, vedendolo “si meravigliò forte”, tanto da dirgli “O signor mio, questa che novità è stanotte? Voi vi partite pur testé da me, e oltre l’usato modo di me avete preso piacere, e così tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi fate.”
Agilulfo capisce subito cosa è successo e se ne rincresce assai; ma nello stesso tempo elabora anche un’altra serie di considerazioni: la regina non sa cosa è successo, ed è opportuno che continui a non saperlo, per non turbarla e non darle occasione “di disiderare altra volta quello che già sentito avea”. Dunque si guarda bene dal chiarire l’equivoco "il che molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbero detto: “Io non ci fu’ io: chi fu colui che ci fu? Come andò? Chi ci venne?” Di che molte cose nate sarebbono, per le quali egli avrebbe a torto contristato la donna e, datole materia di disiderare altra volta quel che già sentito avea: e quello che tacendo niuna vergogna gli poteva tornare, parlando s’arebbe vitupero recato".
Il danno ormai è fatto, ma si può almeno evitare di renderlo pubblico e di far capire alla donna che, del tutto inconsapevolmente, ha commesso un adulterio (e magari farle desiderare di compierlo di nuovo). Molti sciocchi si sarebbero lanciati in un interrogatorio in piena regola per conoscere tutti i dettagli della faccenda; ma si dà il caso che Agilulfo non sia affatto uno sciocco.
Non per questo è disposto a lasciar cadere la cosa. Così, mostrando di accogliere la preoccupazione della sua gentil consorte, che teme che troppe fatiche nuocciano alla sua salute, rinuncia per quella notte ai piaceri coniugali e lascia subito la stanza per “chetamente trovare chi questo avesse fatto”.
Una rapida riflessione lo convince che il colpevole è uno di casa, e che dalla casa non è potuto uscire. Così raggiunge il dormitorio dove riposa quasi tutta la servitù ed “estimando che, qualunque fosse colui [...] non gli fosse ancora il polso e ‘l battimento del cuore per lo durato affanno potuto riposare, tacitamente [...] a tutti cominciò ad andare toccando il petto”.
La prova riesce e il colpevole viene individuato. Arresto pubblico, dunque, con grida e strepiti e gran clamore?
Niente affatto; perché Agilulfo "sì come colui che di ciò che fare intendeva niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra cosa gli fece se non che con un paio di forficette, le quali portato avea, gli tondé alquanto dall’una delle parti i capelli, li quali a quel tempo portavano lunghissimi, acciò che a quel segnale a mattina seguente il riconoscesse".
La mattina dopo, il servo che si fosse svegliato con un nuovo taglio di capelli sarebbe stato con bel garbo chiamato a parte e portato innanzi al re, al quale non sarebbero mancati modi e argomenti per esternare nel più efficace e discretissimo dei modi il suo estremo disappunto.
L’ottimo e discretissimo piano viene però rovinato dal fatto che il palafreniere, ancora sveglio, aveva capito benissimo perché era stato segnato. E ha provveduto, silenzioso e discreto quanto il re, a stornare da sé il danno: la mattina dopo Agilulf scopre infatti che buona parte della servitù ha i capelli tagliati da una parte. Preso atto che il suo avversario “quantunque di bassa condizione sia, assai ben mostra d’essere d’alto senno” (altro tema assai caro a Boccaccio), il re decide di lasciar perdere "veggendo che senza romore non poteva avere quel ch’egli cercava, disposto a non volere per piccola vendetta acquistare gran vergogna, con una sola parola d’ammonirlo e di mostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque, e a tutti rivolto disse: “Chi ‘l fece nol faccia mai più e andatevi con Dio”.
Un altro gli avrebbe voluti far collare, martoriare, esaminare e domandare; e ciò faccendo avrebbe scoperto quello che ciascuno dee andar cercando di ricoprire; ed essendo scoperto, ancora che intera vendetta s’avesse presa, non scemata ma molto cresciuta n’avrebbe la sua vergogna e contaminato l’onestà della donna sua".
In conclusione Agilulfo preferisce lasciare alquanto meravigliata l’intera sua servitù (del che gli importa poco) e tenersi le corna in testa (che ormai ci sono, ma resteranno un caso isolato) piuttosto che sollevare uno scandalo e infamare la regina. Davanti a un danno non più rimediabile e alla prospettiva di uno scandalo da cui non trarrebbe alcun vantaggio ma solo un danno di immagine, il prudente re accetta di lasciare le cose come stanno.
IX, 6: Due giovani albergano con uno, de’ quali l’uno si va a giacere con la figliuola, e la moglie di lui disavvedutamente si giace con l’altro; quegli che era con la figliuola, si corica col padre di lei e dicegli ogni cosa, credendo dire al compagno; la donna, ravvedutasi, entra nel letto della figliuola, e quindi con certe parole ogni cosa pacefica.
La sesta novella della nona giornata viene narrata da Panfilo (il corrispettivo maschile di Pampinea), e in essa vediamo “un subito avvedimento d’una buona donna avere un grande scandalo tolto via”.
Siamo nella casa di un oste di Pian del Mugnone - un ambiente sociale molto diverso dalla corte longobarda, ma non per questo indifferente agli scandali.
La famiglia dell’oste è composta da lui, la sua bella e accorta moglie,il loro figlio di pochi mesi che dorme in una culla accanto al letto della madre che ancora lo allatta, e un'altra figlia di sedici anni.
La figlia ha un innamorato, Pinuccio, che allo scopo di portare a compimento il loro amore una sera combina le cose in modo da restare a dormire con la famiglia dell’oste (che proprio per eventualità di questo tipo tiene un letto in più) insieme al suo amico Adriano.
La stanza non è grande, i letti sono fitti. Da una parte i due ospiti, in un altro letto la ragazza, nel terzo letto i padroni di casa con la culla del bambino accanto alla madre.
Tutti vanno a dormire, ma la notte si rivela movimentata. Per primo, naturalmente, si alza Pinuccio, che raggiunge l’innamorata. Poi si alza la signora, perché “una gatta fece certe cose cadere, le quali la donna destatasi sentì: per che levatasi, temendo non fosse altro, così al buio come era, se n’andò là dove sentito aveva il romore” (quadretto che risulta squisitamente familiare a chi ha la ventura di ospitare una o più gatte in casa). Per ultimo si alza anche Adriano “per alcuna opportunità naturale”; quest’ultimo trova la culla a sbarrargli la strada, e la muove per passare, senza però preoccuparsi di rimetterla a posto quando torna a letto.
La donna, constatato che il danno non era grave “garrito alla gatta, alla cameretta se ne tornò” e, ingannata dalla posizione della culla, finisce nel letto di Adriano che, sentendola arrivare “caricò l’orza, con gran piacere della donna”, convinta pure lei, come Teodolinda, di essere con suo marito.
A sua volta ingannato dalla malefica culla, Pinuccio raggiunge non il suo letto, bensì quello dell’oste, e siccome “non era il più savio giovane del mondo”, credendo di parlare all’amico lo informa di quanto piacevolmente è stato accolto dalla sua amica.
L’oste reagisce male, e la donna improvvisamente si accorge di quel che è successo:
"incontamente conobbe là dove era stata e con cui: per che, come savia, senza alcuna parola dire, si levò, e presa la culla del suo figlioletto, come che punto lume nella camera non si vedesse, per avviso la portò allato al letto dove dormiva la figliuola e con lei si coricò".
"incontamente conobbe là dove era stata e con cui: per che, come savia, senza alcuna parola dire, si levò, e presa la culla del suo figlioletto, come che punto lume nella camera non si vedesse, per avviso la portò allato al letto dove dormiva la figliuola e con lei si coricò".
Il primo spostamento della culla aveva creato tutti i problemi, il secondo li risolve: la padrona di casa assicura il marito che nessun Pinuccio ha dormito con la ragazza, perché con la ragazza c’era lei. In suo aiuto interviene anche Adriano che, “veggendo che la donna saviamente la sua vergogna e quella della figliuola ricopriva”, accusa l’amico di essere sonnambulo e di straparlare nel sonno. Alla fine perfino il non troppo savio Pinuccio fa la sua parte, mostrandosi sonnambulissimo e facendo vista di svegliarsi solo a gran fatica. L’oste, ormai tranquillizzato, accetta la nuova versione dei fatti senza alcun sospetto e tutto finisce nel migliore dei modi.
(Quanto al bambino in culla, per tutto il tempo ha dormito un provvidenziale sonno di pietra).
I, 4: Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa, si libera dalla pena
La quarta novella della prima giornata, raccontata da Dioneo è la prima novella “spinta” dell’intero Decameron e il protagonista, un giovane monaco, con l'aiuto ella discrezione e di una certa astuzia riesce non solo a scansare uno scandalo,ma soprattutto a salvarsi dalle gravi sanzioni previste per i monaci che si fossero resi colpevoli di fornicazione.
Costui infatti, incontrata una bella ragazza nei campi, se la porta in cella durante il riposo pomeridiano dei monaci. Disgraziatamente però l’abate, passando davanti alla cella “sente lo schiamazzio che costoro insieme facevano”. A sua volta il giovane si accorge che l’abate li ha scoperti, vedendolo da un pertugio della porta. "Di che egli, sappiendo che di questo gran pena gli doveva seguire, oltre modo fu dolente: ma pur, senza del suo cruccio niente mostrare alla giovane, prestamente seco molte cose ricolse, cercando se a lui salutifera trovar ne potesse; e occorsegli una nuova malizia, la quale al fine immaginato da lui dirittamente pervenne".
Insomma, invece di perdere tempo a lamentarsi il monaco spende assai più utilmente le sue energie cercando un modo per cavarsi d'impaccio. E lo trova.
Infatti, dopo aver spiegato alla ragazza che va a predisporre le cose in modo da farla uscire senza che nessuno possa vederla, la lascia nella cella chiusa a chiave e porta la chiave all’abate, com’era uso nel monastero quando i monaci uscivano, proclamando “con un buon volto” la sua intenzione di andare a far legna. Poi lascia che la natura segua il suo corso.
Insomma, invece di perdere tempo a lamentarsi il monaco spende assai più utilmente le sue energie cercando un modo per cavarsi d'impaccio. E lo trova.
Infatti, dopo aver spiegato alla ragazza che va a predisporre le cose in modo da farla uscire senza che nessuno possa vederla, la lascia nella cella chiusa a chiave e porta la chiave all’abate, com’era uso nel monastero quando i monaci uscivano, proclamando “con un buon volto” la sua intenzione di andare a far legna. Poi lascia che la natura segua il suo corso.
L’abate, rimasto padrone del campo, inizialmente medita di aprire la cella davanti a tutti i monaci e rendere pubblico lo scandalo; poi comincia a pensare se non è il caso di indagare prima chi sia la ragazza (caso mai il monaco si fosse portato in cella una principessa o altra nobildonna) - e insomma entra nella cella per “vedere prima chi fosse e poi prender partito”. Il partito che alla fine prende, ovviamente, è quello di intrattenersi a sua volta con la ragazza - e a quel punto per il giovane monaco diventa facile risolvere la situazione con una battuta che fa capire chiaramente all’abate come sia stato non solo sentito, ma anche visto.
I due finiranno per accordarsi, e la ragazza uscirà con gran discrezione dal monastero ma “poi più volte si dee credere ve la facessero tornare”.
I, 5: La marchesana di Monferrato con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette reprime il folle amore del re di Francia
La novella successiva (raccontata da Fiammetta) mostra un caso piuttosto diverso: la marchesa di Monferrato, bella e distinta dama, non ha alcun desiderio di tradire il marito, nemmeno inconsapevolmente - ma ci sono dei casi in cui per una signora dire di no è difficile, e soprattutto disagevole.
Nella fattispecie la marchesa si trova da sola, mentre il marito è alla terza crociata, e improvvisamente il re di Francia le manda a dire che vuole passare con il suo seguito dalle sue terre, e fermarsi da lei per pranzo mentre va a Genova.
"La donna, savia e avveduta, lietamente rispose che questa l’era somma grazia sopra ogni altra e che egli fosse il ben venuto. E appresso entrò in pensiero che questo volesse dire, che un così fatto re, non essendovi il marito di lei, la venisse a visitare: né la ingannò in questo l’avviso, cioè che la fama della sua bellezza il vi traesse".
Insomma la marchesa tiene fede ai suoi obblighi di gentildonna e si mostra cortese e ospitale come dev'essere. E riflette, come ogni prudente donna deve fare, sul perché il re di Francia abbia deciso di venire proprio quando il marchese è assente. E arriva presto a comprendere la probabile ragione di quella visita.
Il problema qui non è tanto dire di no al re, ma cercare di fermare le cose ben prima di trovarsi al punto di dire sì o no ed evitare a entrambi un colloquio invero spiacevole da cui sarebbero potuti nascere anche strascichi politici piuttosto gravi. La marchesa, senza confidarsi con nessuno, opta per un messaggio indiretto e organizza una fastosa ospitalità e un ricco pranzo dove però le vivande sono tutte a base di galline.
Il re nota la stranezza della cosa, in una terra ricca di selvaggina di tutti i tipi, e si rende ben conto che le galline portano con sé un messaggio. Non capisce però; o meglio non vuol capire, perché non si è mai sentito parlare, in tutto il medioevo (e neanche prima o dopo, in verità) di un significato galante o di una valenza afrodisiaca attribuiti alla carne di gallina; e finisce per chiedere, con notevole goffaggine “Dama, nascono in questo paese solamente galline senza gallo alcuno?”.
Per quanto infelice, la domanda è posta nella forma più opportuna per la bella marchesa, che ha così agio di rispondere “Monsignor no, ma le femine, quantunque in vestimenti e in onori alquanto dall’altre variino, tutte perciò son fatte qui come altrove”.
La risposta è chiara quanto basta per il re, che si rende conto che dalla marchesa non potrà ottenere niente né per amore né per forza. Così "senza più motteggiarla, temendo delle sue risposte, fuori d’ogni speranza desinò; e, finito il desinare, acciò che con presto partirsi ricoprisse la sua disonesta venuta, ringraziandola dell’onor ricevuto da lei, accomandandolo ella a Dio, a Genova se n’andò".
Insomma anche il re decide infine di usare un po' di discrezione, risparmiandosi di fare apertamente quella figura di imbecille (per non dire di peggio) che aveva già fatto ma che era rimasta, per così dire, discretamente nascosta nelle pieghe di una conversazione un po' casuale.
Insomma anche il re decide infine di usare un po' di discrezione, risparmiandosi di fare apertamente quella figura di imbecille (per non dire di peggio) che aveva già fatto ma che era rimasta, per così dire, discretamente nascosta nelle pieghe di una conversazione un po' casuale.
2 commenti:
La discrezione è il sale della nostra umanità. Le novelle di Boccaccio mi piacciono quasi tutte. Un post con una buona lezione e anche un modo per ripassare.
MeL
Grazie, Mel ^__^
Il Decameron è uno dei miei libri preferiti, e su cento novelle sono davvero poche quelle che non sono valide
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