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martedì 7 dicembre 2021

Diario di Natale - 5 - Natale con Tolkien


Quando ho aderito al Blogmas di Simona mi ero ripromessa come massimo e ambiziosissimo traguardo quello di riuscire a mantenere la mia consueta media che va sui due post settimanali (ma disperavo di farcela) e oggi avevo anzi stabilito che era assai opportuno fare una pausa.
Ma poi ho visto il suggestivo albero bianco di My countryside blog, così bello e delicato, e subito il mio cuore è andato al Nimloth di Gondor disegnato da Ted Nasmith
che splendeva a Minas Tirith e che è l'albero bianco del celebre verso
Sette stelle, sette pietre e un albero bianco
che è in un certo senso il motto di Gondor, il regno di Aragorn.
Questa è la copertina che Tolkien stesso disegnò per Il ritorno del re terzo volume del Signore degli anelli:
e direi che a un albero di Natale ci somiglia parecchio.
Del resto, ripensandoci, un post su Tolkien e il Natale andava pur fatto. E sarà oggi quel giorno.

Tolkien amava molto il Natale. Sì, certo, il Natale cristiano. Il tema della redenzione lo sentiva davvero molto. La Compagnia dell'Anello, tra tanti giorni possibili, lascia Rivendell proprio il 25 Dicembre - una cosa che mi sorprese abbastanza, quando lessi la cronologia nelle appendici. Di Natale non si parla nemmen di striscio nel Signore degli Anelli, nemmeno per citare un qualche tipo di celebrazione di Yule o cose del genere. Avranno avuto anche nella Terra di Mezzo un solstizio, immagino, ma non risulta che se ne curassero. Eppure la Compagnia parte proprio il 25 Dicembre e perfino la mia totale ingenuità di dodicenne dubitava che si trattasse di una coincidenza.
In realtà Tolkien curava abbastanza anche il Natale pagano, o consumistico, insomma l'altro Natale, quello che non fa il presepe: dal 1920 al 1943 ogni anno ai figli di Tolkien arrivava una lettera dal Polo Nord, con un disegno e strani racconti sulle cose che succedevano laggiù. Col tempo queste lettere sono state raccolte in un volume e addirittura tradotte in italiano.

La data della partenza della Compagnia da Rivendell non è l'unica cosa che mi fa collegare Tolkien al Natale: nel tempo delle vacanze di Natale ho finito di leggere per la prima volta Il Signore degli Anelli, ma soprattutto i film sono sempre usciti a Natale in America, e la rete brulicava di commenti (e di lamenti) non appena arrivavano le prime indiscrezioni dagli USA, dove uscirono appunto sotto Natale.
Ancor più forte è stato il richiamo natalizio per la trilogia dello Hobbit, perché i tre film uscirono appunto poco prima di Natale, a metà Dicembre, illuminando tre Natali a fila con la loro draghesca luce e gli abbondanti effetti speciali. 
Addirittura, quando uscì il primo, diedi come compiti delle vacanze alla prima con cui stavo appunto leggendo il libro de Lo Hobbit di andarsi a vedere il film, cosa che tutti fecero senza batter ciglio, tranne uno. Non, si badi bene, perché non gli piaceva il genere (conosceva benissimo i film del Signore degli Anelli e mi faceva sempre domande piuttosto approfondite sull'universo tolkieniano) ma perché disapprovava per principio che lo costringessi ad andare al cinema.
Ovviamente non potevo costringerlo e non lo costrinsi, né trovai da ridire sul fatto che non ci fosse andato - mi limitai a meditare sulle stranezze del cuore umano.
Comunque c'erano già i social e di Hobbit lì si parlava parecchio, e per l'occasione si ricominciò a parlare anche dei film del Signore degli Anelli. Tra i risultati possiamo includere la gif che apre il presente post, ma anche gli auguri di Thorin che lo chiudono:

blogmas 2021 creato da lacreativeroom.com

venerdì 25 settembre 2020

Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo - Cristoforo Armeno



Il libro che vado oggi a presentare per il Venerdì del Libro di Homemademamma non è esattamente un classico di quelli di cui tutti, ma proprio tutti, han sentito parlare almeno alla lontana.
Anche nella mia vita in effetti è entrato quasi per puro caso - il che gli si addice molto.
Le coincidenze infatti non sono tutte uguali, e ne esistono di particolarmente fortunate e curiose: quando ti avviene di trovare una cosa mentre ne cercavi un altra, per esempio, oppure quando un curioso gioco del caso avvia una strada completamente diversa da quella che intendevi percorrere e dove avrai gran successo e riconoscimenti - ed è una trama molto comune e molto amata.
Tutto ciò ha un nome strano, che a sua volta ha una storia lunga: serendipity (in italiano serendipidità).
Anni fa, nel blog dedicato ai film dello Hobbit, si addivenne appunto a parlare di serendipity - che, se vogliamo, non è proprio il primo argomento che ti viene in mente leggendo quel libro. Eppure, racconta Gandalf nelle appendici del Signore degli Anelli, lui incontrò per caso Thorin Scudodiquercia all'osteria del Puledro Impennato (o del Cavallino Inalberato, nella nuova traduzione): un incontro casuale, diciamo noi nella Terra di Mezzo - e fu così che, cercando di recuperare il tesoro di Smaug, capitò quasi per caso di ritrovare l'Unico Anello, che nessuno stava cercando perché nemmeno si sapeva che era andato perduto: un vero caso di serendipity, se mai se ne vide uno.
Insomma, non ricordo come mai si parlasse di serendipity ma qualcuna spiegò che era una parola che derivava da questo testo del Cinquecento, e raccontò di come lo avesse letto traendone gran piacere.
Rimasi un po' interdetta, perché mai e poi mai ne avevo sentito parlare, e decisi di cercarlo.

L'edizione qui raffigurata al momento è l'unica in Italia (ma una parte del testo si trova anche in rete). Non è un testo economicissimo (35 euro) ma nemmeno improponibile, così lo comprai e questa estate l'ho letto facendo una interessante serie di scoperte: per esempio che non si trattava, come credevo (non so perché), di una storia bizantina di formazione, ricca di avventure: Bisanzio non c'entra niente, di azione non ce n'è poi molta, ma si tratta invece di un classico della letteratura persiana a sfondo assai filosofico.
Anche la nascita della parola serendipity è assai curiosa. Viene da Serendippo, che è l'antico nome... dello Sri Lanka alias Ceylon. D'accordo, in quegli anni avevamo dei problemi piuttosto seri con la traslitterazione dei nomi arabi, visto che abbiamo trasformato Abū al-Walīd Muhammad ibn Ahmad Ibn Rushd in Averroè, ma partire da Ceylon per arrivare a Serendippo   mi sembra richieda comunque una bella fantasia.
Ad ogni modo, verso la metà del Cinquecento, il signor Cristoforo Armeno, di cui non sappiamo praticamente nulla, tradusse dal persiano questa storia in un periodo di gran caldo in cui non aveva evidentemente voglia di uscire, e poscia la pubblicò a Venezia per i tipi dell'editore Michele Tramezzino nel 1557.
Si tratta quindi di un testo di letteratura italiana, scritto nell'italiano dell'epoca e può darsi che qualche manuale di storia della letteratura italiana ne parli, ma dubito assai che sia citato nemmen di striscio nei manuali scolastici. Eppure dovrebbe, perché ebbe un certo successo e fu attraverso questa traduzione che giunse per la prima volta in Europa la storia de le Sette Principesse, capolavoro indiscusso del celebre (per i persianisti, si capisce) Nezami di Ganjè, poeta persiano del XII secolo; il Pellegrinaggio comunque traduce e riadatta una fonte successiva dove la storia è un po' diversa.
Lo scritto di Cristoforo Armeno, in barba ai manuali scolastici di letteratura italiana, ebbe la sua brava diffusione, tanto che nel 1719 un tal de Mailly lo tradusse in francese. Questa traduzione qualche decennio dopo finì poi nelle mani di Horace Walpole che inventò la parola serendipity - e va riconosciuto che per arrivare a questa parola partendo dallo Sri Lanka il cammino è stato lungo, tanto più che nel Pellegrinaggio di Serendippo si parla solo per dire che era il regno del protagonista, più esattamente del padre dei tre protagonisti.
Di tutto questo l'introduzione di Renzo Bergamini non dice molto, concentrandosi per lo più su complesse questioni editoriali di cui ho smesso ben presto di cercare di venire a capo. Quanto al commento, non è in alcun modo da considerarsi un aiuto alla lettura ma al più un compendio sulla grammatica del Cinquecento, in quanto spiega con grandissima dovizia di dettagli le costruzioni appunto grammaticali e sintattiche del testo - no, non nel senso che le traduce in italiano corrente, ma che dice come si chiamano in grammatichese stretto - una roba, insomma, che al lettore medio interessa men che zero, tanto più che se con l'italiano del Cinquecento ti arrangi non ti serve a nulla se non ad annoiarti in sommo grado, e  se invece l'italiano antico non lo mastichi troppo ti serve ancor meno. 
Siamo d'accordo che la Salerno editrice si rivolge agli addetti ai lavori, ma un po' di inquadramento e di analisi dei topi letterari ricorrenti potevano anche darla, in cambio di 35 euro.

Fatta questa micidiale introduzione storicoculturalstoricobocciofila, passo a raccontare la storia, o meglio le storie.
Infatti si tratta di un racconto a cornice; i tre figli del re di Serendippo hanno la loro storia, nel corso della quale gli viene raccontata una seconda storia che a sua volta contiene sette racconti. La storia della seconda cornice, quella che copre la maggior parte del testo, ruota  intorno a un re malmesso in salute che, su consiglio dei tre saggi figliuoli del re di Serendippo, decide di curarsi con la cromoterapia: ogni giorno in un palazzo di un colore diverso, appositamente fatto costruire per l'occasione, e tutti i servi, il re stesso, la sua famiglia, la bella vergine incaricata di intrattenerlo per quel giorno in lieti conversari e il saggio incaricato di raccontare una storia, (questi ultimi diversi ogni giorno) tutti quanti insomma, vestono nel colore del palazzo, che naturalmente non è scelto a caso ma richiama un metallo, un pianeta, un giorno della settimana... insomma, lo sappiamo tutti come sono costruite queste cornici, ma quand'anche non lo sapessimo questo racconto è lì a spiegarcelo.
Alla fine della cura il re è di nuovo in perfetta forma, rimedia a un errore del passato e i tre giovani serendippini tornano a casa dove li aspettano belle spose (una guadagnata nel corso della vicenda), un padre affettuoso e ricche prospettive per il futuro.
Le sette storie incastonate nella seconda cornice sono belle e assai varie. Per giunta in appendice abbiamo anche l'originale delle Sette Principesse - tradotto in italiano corrente, e quindi molto più facile da leggere, così possiamo studiare le differenze. Già che ci sono, ne anticipo una: nella versione di Cristoforo Armeno, che era cristiano, i re e principi e protagonisti vari sono tutti rigorosamente monogami, nel racconto persiano un po' meno.
Ad ogni modo è divertente sia leggere le storie originali che quelle alterate, perché entrambe hanno tra l'altro il piacevole gusto della novità: al massimo troviamo qualche vago elemento fiabesco di nostra conoscenza, ma si tratta di sette storie decisamente nuove ad occhi occidentali, e anche molto diverse tra loro.
La serendipità si annida comunque nella cornice iniziale, quando si racconta dei tre bravi e virtuosi figli di del re di Serendippo. Il padre li aveva presi da parte, uno per uno, dicendogli che aveva deciso di lasciargli il regno per ritirarsi a vita privata ché era stanco. Il primo risponde virtuosamente "Padre mio che dite, siete ancora assai prestante e baldo, di succedervi se ne parlerò quando morirete ma non c'è nessun motivo di affrettarvi a farlo, tanto più che io sono ancora giovane, inesperto e assai bisognevole di imparare e non saprei certo gestire un regno", mentre il secondo e il terzo oltre a dargli la stessa risposta aggiungono che il trono spetta al fratello maggiore, che tra l'altro è molto più saggio e adatto a regnare di loro.
Molto compiaciuto della saggezza, modestia e virtù dei suoi tre figliuoli, il re di Serendippo si mostra invece assai adirato e li caccia via dal regno. 
Così i tre si avviano, e dopo qualche giorno incappano in un signore che aveva perso il suo cammello. Assai premurosi, i tre giovinetti gli descrivono molto dettagliatamente il suddetto cammello, il suo carico, cosa aveva fatto e dove il signore avrebbe potuto trovarlo: ma siccome la descrizione del cammello e del carico risulta esatta al millimetro ma il cammello non si trova, i tre vengono arrestati per furto.
La storia andrebbe a finire male se non fosse che il cammello, andandosene per i fatti suoi, viene preso, riconosciuto e restituito al suo legittimo proprietario. I tre giovani, una volta liberati, vengono richiesti di come mai avessero potuto indovinare tante cose su quel cammello che non avevano mai visto e passano a spiegare le loro deduzioni - che al lettore occidentale del XXI secolo risuonano talvolta decisamente strane, ma che gli ascoltatori dell'epoca trovano invece assai sennate. Così i tre finiscono a fare i consiglieri del sultano o visir o quel che è del luogo e continuano a fare deduzioni, sempre più strampalate e sempre più confermate dai fatti. Come da una serie di deduzioni basate sulla logica e le credenze del tempo (ma che ricordano molto le tecniche deduttive di Sherlock Holmes, e anche la prima scena del Nome della Rosa, dove Guglielmo da Baskerville descrive mirabilmente un cavallo che non ha mai visto appunto sulla base della cultura dell'epoca - e immagino che Umberto Eco il Pellegrinaggio l'avesse letto) si sia arrivati al concetto di serendipidà proprio non saprei dire, ma insomma è andata così.
Comunque si tratta di una lettura piacevole, insolita e assai acculturata e perciò la consiglio a chiunque per avventura passasse da queste parti.

martedì 12 novembre 2019

Il complotto demoplutogiudaicomassonico ai danni di Tolkien (post ad alto contenuto cultural-filologico)


Abstract: è uscita la prima parte della nuova traduzione del Signore degli Anelli. Do anch'io il mio parere senza averla letta, come fanno tanti. E anch'io come tanti cito Cannarsi, ma solo di striscio.

Cominciamo dalle basi: la prima parte de il Signore degli Anelli è stato tradotto nel 1967 per lo sconosciutissimo (da me) editore Astrolabio senza gran successo commerciale dalla giovanissima Vicky Alliata di Villafranca. Poco dopo, credo nel 1971, uscì una traduzione completa, sempre di Alliata ma rivista da Quirino Principe e pubblicata da Rusconi. Nel 1973  Adelphi pubblicò la traduzione dello Hobbit ad opera di Elena Jeronimidimis Conte. In seguito la traduzione del Signore degli Anelli subì alcuni ritocchi (per esempio gli Gnomi tornarono Elfi, con mio grande sollievo).
Nel 1978 arrivò in Italia la versione a cartoni animati del film tratto dal Signore degli Anelli (più esattamente dalla prima parte, poi finirono i soldi), a partire dal 2002 ci furono i film di Peter Jackson, in seguito Bompiani rilevò i diritti editoriali e pubblicò una versione ritoccata della traduzione Alliata-Principe correggendo alcuni errori, dal 2012 arrivarono i film di Peter Jackson tratti da Lo Hobbit e Adelphi rivide un po' la traduzione. Nel doppiaggio dei film furono adottati nel complesso i nomi delle traduzioni italiane, con qualche ritocco (per esempio i troll de lo Hobbit dopo essere stati sia Uomini Neri che Vagabondi tornarono appunto troll) oppure fu scelta la versione Alliata-Principe che non era sempre uguale a quella di Jeronimidimis (per esempio Gran Burrone invece che Forraspaccata, Pungolo invece di Pungiglione).
A questo punto, e siamo ormai ai giorni nostri, Bompiani decide di fare una nuova traduzione de Il Signore degli Anelli. 
E fu grande festa nell'universo tolkieniano dove da tempo si diceva che la traduzione Alliata-Principe non era cosa, traboccava di errori, praticamente un cimitero di croci più che una traduzione.
Poi la traduzione, ad opera di Ottavio Fatica, ha cominciato a uscire - per adesso è arrivata solo la prima parte, ovvero La Compagnia dell'Anello, e il fandom tolkieniano è letteralmente impazzito. No, non di gioia. Improvvisamente quasi tutti hanno cominciato a dire un gran bene della versione Alliata-Principe, descrivendola come un vero capolavoro a parte alcuni trascurabili errorucci di cui nemmeno metteva conto parlare. In compenso la nuova traduzione è un vero cesso - più esattamente una serie di water chimici sotto usura di quelli che si trovano a qualsiasi grande fiera - l'orrore fatto traduzione, l'abominio degli abomini. Addirittura, sembrava essere stata fatta dal mitico Gualtiero Cannarsi, una sorta di creatura mitologica la cui fama al momento è legata soprattutto ad alcuni adattamenti di anime che si sono distinti per una impronta piuttosto personale, tanto che gli è stato dedicato un gruppo su Facebook*. Insomma, una traduzione così brutta, ma così brutta che non si era ancora mai vista.

All'inizio ho seguito la discussione con blando disinteresse: bella o brutta che sia, la versione Alliata-Principe mi tiene compagnia da quasi mezzo secolo con una buona ventina di riletture e il suono che ho nelle orecchie ormai è quello. 
Tuttavia poche settimane di ardenti polemiche sono bastate per ammorbidire le mie posizioni, tanto da farmi decidere che, non appena la traduzione sarà stata pubblicata per intero e acquistata da una delle biblioteche del mio circuito le dedicherò una lettura completa e accurata. 
Nell'attesa continuo a seguire i thread con il tradizionale sacchetto di pop corn in mano, il quale sacchetto è ormai diventato una gigantesca balla, di quelle che si usano per trasportare grandi quantità di patate, e a forza di seguirli mi è venuta voglia di dare anch'io il mio augustissimo parere;  cosa importa se della traduzione conosco solo qualche frasetta sparsa e qualche diatriba sui nomi? Un parere gratuito non si nega a nessuno e anche se non ho letto la traduzione io so. E dunque è giusto che parli, o meglio che scriva.
Fine della premessa.

Due sono i temi a cui ho deciso di dedicare questo lungo post (so già che sarà molto lungo, anche se ancora non l'ho scritto, allo stesso modo con cui so come criticare una traduzione che non ho ancora letto): il primo è il complotto demoplutogiudaicomassonico dal quale questa traduzione è generata, allo scopo di reclutare politicamente Tolkien, e l'altro sono naturalmente i nomi, argomento principale della maggior parte delle diatribe.
Partiamo dal Perfido Complotto: una bieca macchinazione al cui confronto il leggendario piano Kalergi per sterminare la razza europea è una ragazzata e nulla più; perché la nuova traduzione si dice che sia stata fatta per spostare a sinistra Tolkien e sdoganare il suo romanzo in direzione LGBT. Dietro a questa traduzione ci sarebbe la sinistrissima mano del collettivo Wu Ming che, oltre a varie altre tematiche, si interessa effettivamente da tempo anche di questioni tolkieniane e dei curiosi rapporti che la politica italiana ha avuto con Tolkien sin dai tempi in cui il Signore degli Anelli fu tradotto in italiano la prima volta. Qui potrei infilare una giungla di link sulla questione, ma mi rifiuto. Una stringa di ricerca del tipo "Signore degli anelli nuova traduzione" oppure "Tolkien e Wu Ming" fornirà facilmente a chiunque passi di qui e non sia ancora scappato urlando "Mai più e mai poi!"  materiale più che sufficiente a riempire un fine settimana passato forzatamente in casa per colpa di un raffreddore. Mi limito a segnalare un articolo di due anni fa, appunto di Wu Ming 4, dove viene effettivamente ammessa senza mezzi termini la ferma intenzione di disincrostare dal santo nome di Tolkien le interpretazioni della destra più estrema (ma senza alcun riferimento alle tematiche LGBT, di cui onestamente si fatica assai a trovare traccia in un testo dove nessuno fa sesso e gran parte dei personaggi non mostra di pensarci nemmen di striscio) - proponimento tutto sommato legittimo quanto qualsiasi altro del genere - e una sintesi sulla complessa nascita della traduzione e i misteriosi ma intricati rapporti tra Tolkien e politica italiana fatto da Cardini, che è persona sensata e soprattutto informata dei fatti perché c'era, oltre ad essere un buon medievista assai esperto di guerre sante.
Personalmente non sono molto interessata alla questione se non, moderatamente, sul piano storico. Le reali opinioni politiche di Tolkien contano fino a un certo punto: ha pubblicato il Signore degli Anelli e così facendo lo ha messo a disposizione di tutti, e ognuno può trovarci quel che meglio crede. "La letteratura è un fiume, e il lettore ci pesca la sua cena" diceva un personaggio di Erica Jong, e io la penso nello stesso modo. D'altra parte siamo in un periodo in cui va assai di moda indinniarsi moltissimo su qualunque cosa, soprattutto per partito preso e senza curarsi troppo di sapere su cosa effettivamente ci si stia indinniando. La cosa mi irrita alquanto, ma indinniarmi perché gli altri si indinniano mi sembra sport troppo faticoso e troppo poco fruttifero perché ai miei occhi valga la pena di praticarlo, e d'altra parte è forse meglio che chi sente l'inderogabile necessità di indinniarsi almeno tre volte al giorno lo faccia a spese di un presunto complotto tolkieniano piuttosto che screditando i vaccini o il parto assistito - dopo tutto Tolkien dispone di uno zoccolo di ammiratori abbastanza duro da permettergli di superare anche questa tempesta, credo.
Detto questo, ammetto senza riserve che ai miei occhi si tratta di "una quantità di chiacchiere degne degli orchetti", per citare il saggio Sam, e non nego che leggere le grida straziate di chi lamenta che la nuova traduzione sia il mezzo per sfregiare una cosa troppo bella, anzi bella al punto di causare solo rabbia e invidia negli indegni che non sono in grado di capirla nella sua purezza e suprema bellezza e piange perché d'ora in poi, più se ne parlerà e più il mondo di Tolkien perderà quell'aura di sacralità che a ragione lo contraddistingueva, lungi dal ricavarne nuova dignità con chi aveva preteso di dargliene** mi fa  un po' male al cuore - non già per la perdita di sacralità cui il mondo di Tolkien rischia di andare incontro, ma per l'evidente (ai miei occhi) perdita del raziocinio in chi parla del mondo di Tolkien con accenti che a malapena Bernard de Clairvaux avrebbe riservato al culto della Madonna.
In questi casi non viene criticata dunque la nuova traduzione (non sia mai che ti toccasse addirittura leggerla, o almeno dargli una scorsa) ma il fatto stesso che essa esiste e i biechi scopi con cui Big Pharma e le lobby ghei ce l'hanno inflitta, sperando di dannare le nostre anime a colpi di Forestali.

Grande scontento han suscitato anche le traduzioni delle poesie, e  sono polemiche in cui ho molta difficoltà a prendere posizione. Personalmente ritengo le poesie di Tolkien quasi intraducibili, o comunque la versione Alliata-Quirino non mi è mai piaciuta e quella Jeronimidimis mi ha sempre fatto accapponare la pelle. In effetti ho comprato lo Hobbit e il Signore degli Anelli in inglese soprattutto per vedere com'erano le poesie in lingua originale e mi son piaciute molto di più che leggendole in italiano, tanto che parecchie me le sono pure mandate a memoria. Quel po' che ne ho visto nella nuova traduzione onestamente non mi è piaciuto, ma in effetti è roba che mi piace solo in inglese e quindi per conto mio tendo ad assolvere chiunque provi a fare una buona traduzione delle suddette poesie e non cavi un ragno dal buco perché mi sembra molto difficile che qualcuno possa riuscirci.

Ma veniamo al grave problema dei nomi, dove di posizioni sempre ne ho prese e sempre ne prenderò. Sui nomi discutono, con assoluta parità di astio, fan di destra, di sinistra, di centro e pure quelli che votano solo occasionalmente o non votano affatto non entusiasmandosi per alcuna formazione politica, oltre a etero e gay, sovranisti e europeisti, bianchi e neri, carnivori e vegani, giovani e anziani, cattolici e agnostici; e quasi tutti deprecano assai. E depreco anch'io, naturalmente. E perché mai non dovrei deprecare? Ma mi rendo conto che la questione è davvero complessa.
Prima di tutto: detti nomi tengono compagnia all'immaginario italico ormai da decenni, e quindi sarebbe stato forse il caso di lasciarli proprio stare secondo come si erano variamente stratificati. Col tempo si è sedimentata nell'immaginario collettivo una bizzarra miscellanea di nomi italiani, nomi stranieri e adattamenti vari. Il cuore ha le sue ragioni, e sono ragioni che della fonetica e della linguistica se ne sbattono alla stragrande. Vale la pena cercare di intervenire rischiando di spezzare il cuore a tanta brava gente? Personalmente penso di no. Trent'anni fa, forse, avrebbe potuto scivolar via senza troppi danni. Ma ormai...

Ad ogni modo, se decidi di prendere in mano la situazione e riponderare i nomi uno per uno, il disastro è garantito: perché ogni nome deve tenere conto di infiniti fattori ed è impossibile usare un criterio omogeneo dato che ogni caso è diverso e in più c'è l'affetto per la tradizione che fa velo e induce a prediligere cose francamente indigeribili rifiutando magari di accettare eventuali miglioramenti. Sul momento comunque l'effetto è atroce e tutti si lamentano e ululano come tante banshee. In cuor mio, devo dire, davanti a certe scelte ululo un po' anch'io.
Prendiamo i Forestali, oggetto di disapprovazione quasi universale (e che personalmente  mi piacciono, ma a quel che sembra sono un caso unico).
L'originale è Rangers. Tradurlo con Raminghi mi è sempre parso una sciocchezza: già quando venne scelta questa traduzione, negli anni 60, era parola decisamente aulica, da libretto d'opera, per intendersi. "Ramingo ed esule, in suol straniero", roba di questo tipo; d'altra parte l'originale Ranger all'epoca evocava irresistibilmente l'ombra dell'orso Yoghi; adesso dopo non so quanti anni di Texas Ranger è ancor meno proponibile. Ottavio Fatica l'ha tradotto con "Forestali" riscuotendo una disapprovazione davvero universale, anche se a me non dispiace: mi evoca l'immagine di persone serie e ben formate professionalmente, che proteggono l'ambiente loro affidato  avendo cura di intervenire il meno possibile e addirittura di non farsi notare. Ma tutti erano abituati ai Raminghi e tutti ululano alla luna come tanti coyote. Che dire? Magari hanno torto, ma ormai è fatta. Anche se la tua mamma si chiamava Ruodperta era la tua mamma, e non si tocca, inutile dire che chiamarla Roberta suona meglio in italiano.
Ancor più se ti metti in testa di dar retta alle istruzioni dell'autore - che magari aveva le sue buone ragioni, o faceva finta di averle quando dava certi suggerimenti a eventuali traduttori, ma era anche piuttosto biforcuto e prendeva in giro i lettori alla grande.
Nelle appendici per esempio il nostro caro professore universitario J. R. R. Tolkien,  filologo nonché buontempone, finge che il romanzo sia stato tradotto da una lingua ormai scomparsa parlata un tempo nella Terra di Mezzo, dove a sua volta alcuni dei nomi erano stati tradotti dalle più varie lingue. Uno dei risultati di tutto questo gran tradurre e ritradurre nomi è... Brandywine, tradotto assai sennatamente in maniera assai letterale da Alliata-Principe in "Brandivino" - una roba assai alcolica e inebriante, insomma. Ebbene, non si tratta né di brandy né di vino bensì di Baranduin, che vorrebbe dire acqua di confine MA gli hobbit amavano chiamarlo"Braldahim" ovvero "birra inebriante" perché tal fiume aveva le acque di un bel colore bruno-dorato, proprio come la birra.
Ma tu guarda che coincidenza, non è brandy né vino, ma una bella birra un po' scura.
Tolkien quindi non intendeva assolutamente tirare in ballo né il vino né il brandy, giusto?
Ma no, certo. Perché mai pensare a una cosa così terraterra come il colore del brandy?
Il nome del Brandivino significa "acqua di confine", brandy, birra e sidro non c'entrano assolutamente nulla. E del resto tutti sappiamo che Tolkien era astemio e che gli Inklings quando si ritrovavano bevevano esclusivamente camomilla e tisane di equiseto. 
Qualcosa del genere deve essere successo con Samwise, che la prima traduzione traslittera con un semplice e innocuo "Samvise". Di fatto, per quasi tutto il tempo Samwise è semplicemente Sam, un comunissimo Sam. Poi Tolkien ci spiega che in antico sassone e in antico inglese Samwise vuol dire più o meno "sempliciotto". Ma Tolkien sapeva benissimo che il lettore medio, anche quello abbastanza acculturato verso cui puntava, di antico inglese e di antico sassone di solito non sa molto mentre conosce benissimo la parola wise, che vuol dire "saggio" (nel senso di "savio" e non di "trattato, dissertazione"). Abbiamo così un nome a triplo fondo: il personaggio apparentemente sempliciotto e un po' sprovveduto, che si rivelerà molto saggio e che al momento giusto prenderà decisioni assai accorte anche se passerà le milleduecento pagine del romanzo a darsi continuamente di scemo e a guardare con occhi tondi tutti quei grandi saggi che incrocia continuamente e che senza di lui sarebbero andati tutti a ramengo, Ramingo compreso. Tradurlo Samplicio ci può stare, come non tradurlo affatto e affidarsi a quell'infarinatura di inglese che tutti noi abbiamo grazie alla scuola pubblica e che ci permetterebbe comunque di fare il passaggio "wise = saggio". Di fatto, salvo pochissime volte, Sam rimane Sam. E perché proprio Sam?
Omaggio letterario: a Charles Dickens, per la precisione, e ai suoi Documenti postumi del Circolo Pickwick dove il giovane Sam Weller, di umile condizione, uso a citare sempre suo padre che a sua volta si esprime per detti e modi di dire, servo fedele e devoto, si dimostra abilissimo nello spaniare il suo amato padrone Pickwick dai più vari impicci e a fine romanzo si sposerà con la cameriera Mary con cui ha flirtato per numerose pagine. 
Ma c'è anche un altro omaggio dickensiano: Pipino (che nella nuova traduzione mantiene il nome Pippin) che a un certo punto ci racconta che "gli amici a volte lo chiamano Pip". In realtà nel corso del romanzo, dove con i suoi amici passa parecchio tempo, nessuno fa niente del genere. Ma Pip, guarda caso, è il nome del protagonista di "Grandi speranze": giovane, ingenuo, con una buona educazione alle spalle. Batte qualche cornata ma alla fine, come tutti i protagonisti dickensiani, se la cava abbastanza bene. Ma tu guarda che coincidenza.
Sui nomi del quartetto hobbit c'è poi un altro giochetto, che mi è sempre piaciuto molto: il servo ha un nome abbastanza comune, mentre i tre hobbit possidenti hanno tutti e tre nomi regali, ma di diversa origine. Fino a Pippin, giustamente lasciato com'era in inglese nella nuova traduzione (ma altrettanto giustamente tradotto con "Pipino" nella prima traduzione) ci arriviamo tutti: nella stirpe di Carlo Magno ce ne sono ben due, entrambi molto abili a destreggiarsi in politica come nel campo di battaglia - mentre lo hobbit Pippin a destreggiarsi in politica non ci prova neppure né gli interessa. Ma in realtà anche Pippin è un soprannome, perché il vero nome è Peregrin - nome abbastanza raro ma che si trova senza troppa difficoltà nei romanzi inglesi con protagonisti aristocratici, o almeno io ne ho incrociati almeno due. Volendo proprio tradurlo comunque non sarebbe "Peregrino", come avevano messo nella Alliata-Quirino, bensì "Pellegrino" (sì, proprio come il santo e la magnesia bisurata). Giusto per completare il quadro suo padre si chiama Paladin, nientemeno (che sì, si traduce "paladino", pari pari, con tutte le sue implicazioni ciclocarolineggianti).
Meriadoc (Merry per gli amici) è invece un antico e semileggendario re di Bretagna - la Bretagna francese, quella di Asterix e di Lancillotto. La voce di Wikipedia che ne parla mi forza ad ammettere una volta di più la mia immensa ignoranza sulle fonti dell'alto medioevo inglese, però i due testi che ne parlano di più li ho almeno sentite nominare: Gilda era un monaco inglese che scriveva in un bellissimo latino che nessuno mi ha mai fatto la gentilezza di tradurre in italiano**, mentre del gallese Sogno di Macsen conosco almeno la trama grazie ai romanzi di Mary Stewart su Merlino.
Frodo infine richiama apertamente Frotho, semileggendario re di Danimarca le cui gesta sono narrate da Saxo Grammatico*** e che in gioventù uccise un drago per recuperare un tesoro che detto drago gli aveva rubato, guarda un po' la combinazione.
Dunque abbiamo un personaggio che fa riferimento all'epica carolingia, uno che richiama quella arturiana o comunque anticoinglese, e un rappresentante dell'epica norrena. 
E di nuovo: ma tu guarda la curiosa combinazione.
Dopo questo ignobile sfoggio di cultura nozionistica di terza mano si impone una domanda: di tutto ciò, quanto conosce il lettore medio inglese? E quello italiano?
Immagino che nel primo caso la risposta sia "qualcosina certamente. Almeno l'origine dei nomi". Per quello italiano darei per sicuro che la risposta giusta sia "ben poco, se non rientra nella ristretta categoria di quelli che son diventati medievisti perché hanno letto Tolkien".
Vanno tradotti? Non tradotti? Va ignorata la questione? Lasciamo starte, ché tanto la storia si leggerebbe bene anche se i protagonisti si chiamassero Luca, Claudio, Antonio e Bertoldino? Recuperiamo qualcosa? Come lo rendiamo visibile, questo qualcosa? Tolkien avrebbe voluto che lo recuperassimo, questo qualcosa?
La nuova traduzione (che, ripeto, non ho ancora letto e per un bel pezzo ancora non leggerò) sarà anche sponsorizzata dalla sinistra ma i problemi che Fatica si è trovato davanti non erano né di destra né di sinistra, erano problemi e basta, e anche parecchio rognosi.
Personalmente, non trovo poi così strano che non li abbia risolti tutti nel più soddisfacente dei modi.

*"Gualtiero Cannarsi, cambia lavoro!!!" https://www.facebook.com/groups/132361799200/
** giuro che lo scrivono davvero, e anche di peggio. Controllate pure su una qualsiasi pagina tolkieniana su Facebook, se non ci credete. O su un qualsiasi altro social, perché temo che le cose non migliorino bussando ad altre porte.
*** anche se potrei pur sempre darmi una mossa e leggermelo in inglese o, meglio ancora, in latino visto che il governo ha la gentilezza di pagarmi perché mi aggiorni.

domenica 2 settembre 2018

Considerazioni in libertà sui "personaggi femminili" del Signore degli Anelli

Dama Galadriel a Calas Galadhon

Siamo sinceri: non c'è dubbio che i personaggi femminili di Tolkien siano interessanti, ricchi di personalità, originali e quant'altre note positive possano venirci in mente. Detto questo, se ci fanno su delle singole conferenze o delle singole trasmissioni di scarsa durata, non c'è dubbio che tra le loro più salienti caratteristiche si possa includere a pieno titolo quello di essere pochi: rari e scarsi ircocervi seminati con molta parsimonia nei due romanzi, e abbastanza sporadici anche in Silmarillion e Racconti incompiuti.

Partiamo dallo Hobbit, che si fa davvero in fretta: in tutto il romanzo troviamo citata ben due volte di sfuggita la madre di Bilbo, Belladonna Took, già defunta, e una volta verso la fine del libro Dis, la madre di Fili e Kili nonché sorella di Thorin. 
In effetti Dis è l'unica nana di cui sappiamo qualcosa, ovvero il nome e qualche parentela. Chi desiderasse sapere qualcosa di più sui suoi gusti e inclinazioni, la sua vita e il suo aspetto è costretto a rivolgersi alle fanfiction. Lo stesso vale per chi desidera conoscere qualche altra nana: Tolkien ci ha fornito un discreto campionario di nani, ma con un nano femmina non sembra aver mai sentito il desiderio di confrontarsi. In compenso la questione dell'identità femminile nanica è stata esaminata in modo brillante da Pratchett, che ci ha regalato il personaggio di Felice Culetto* - che probabilmente avrebbe lasciato Tolkien quantomeno un po' perplesso, in quanto ai suoi tempi di certe tematiche non si parlava, soprattutto nei romanzi eroici.  

Il ramo delle Entesse si presenta piuttosto curato, considerando l'esiguità del numero di pagine dedicate agli Ent, e sotto questo aspetto le quote rosa-verdi  vengono rispettate:  le entesse vengono presentate in modo indiretto, ma con ottimi motivi per non farle parlare in prima persona.

Orchi, orchetti e troll probabilmente si riproducono col classico sistema dell'accoppiamento, ma per quel che ne sappiamo potrebbero anche nascere sotto i cavoli (meno probabilmente dai cespugli di rose, dei quali peraltro non c'è grande abbondanza né a Mordor né a Isengard). In ogni caso siamo tutti molto grati a Tolkien di non averci fornito adeguata quota rosa di orchette perché quella celeste di orchetti maschi ci straavanza, grazie.

Il fronte delle hobbit è paurosamente sguarnito: a parte la buonanima Belladonna contiamo quattro personagge: Angelica, graziosa e un po' vanitosa, Mrs. Maggot che non mi sembra dica una sola parola (ma è brava ai fornelli), Lobelia Sackville-Baggins, che a sorpresa, dopo essere stata introdotta in modo piuttosto convenzionale si rivela una personalità abbastanza complessa e conoscerà perfino un riscatto finale, e, last but not least, Rosie Cotton, fidanzata, sposa e madre esemplare che sembra (e probabilmente è) presa pari pari da un romanzo di Trollope. Negli ultimi due capitoli, che sono anche gli unici dove compare, ha una parte piuttosto importante e addirittura le viene riservata la scena finale. Abbiamo anche una fugacissima menzione della madre di Frodo, Primula Brandibuck, che comunque all'epoca in cui inizia il romanzo è morta e sepolta da un pezzo.  

C'è poi Shelob, la Ragnaccia, che mostra che Tolkien era perfettamente in grado di creare anche personaggi femminili negativi - molto, molto negativi. Anche lei viene fortemente identificata nei ruoli prettamente femminili di sposa (gulp!) e madre (ri-gulp!) ma... insomma, anche lei ha poche pagine ma non risulta che nessuno se ne sia mai lamentata.

E veniamo infine agli Elfi, dove troviamo uno dei protagonisti principali, ovvero Lady Galadriel, donna di potere, Signora dell'Anello d'acqua, grande sovrana - potentissima e davvero ragguardevole, senz'altro, ma anche autentico ircocervo di cui l'autore non cessa di ricordarci quanto e come fosse la più notevole e potente tra le regine degli elfi - fermo restando che non solo non abbiamo in tutto il romanzo alcuna altra regina con cui fare un confronto, ma che in 1200 pagine circa non abbiamo alcuna elfa femmina a disposizione per confrontare alcunché salvo Arwen, che a volerla dire tutta è in realtà una mezzelfa, parla pochissimo, agisce ancora meno e neppure il lettore più perspicace è in grado di capire cosa le passa per la testa. 
Insomma, nel caso degli elfi la questione delle quote rosa è risolta in modo tutt'altro che soddisfacente.

Baccadoro invece... bene, Baccadoro è senz'altro una eccezione in questo panorama: nessuno ci spiega cos'è e chi è, ma lo stesso si può dire del suo compagno Tom Bombadil; l'unica cosa che risulta più che chiara è che entrambi sono estremamente potenti, almeno all'interno dei confini che si sono scelti, ed è anche possibile che lei sia più potente di lui; di sicuro comunque non fa parte di alcuna delle razze note della Terra di Mezzo. 

Ma veniamo alla razza che più popola le pagine del Signore degli Anelli, quella destinata a dominare la Terra di Mezzo a partire dalla Quarta Era, quando tutti gli Elfi l'avranno abbandonata: qui di personaggi femminili ne troviamo... (rullo di tamburi) ben DUE, con abbondanza davvero faraonica. La prima è l'adolescente destinata a maturare in donna, la vergine guerriera, la fanciulla presa dal solito romanzo di Trollope ma di cui ci viene detto apertamente e senza infingimenti cosa realmente pensa e sente dietro l'apparenza impeccabile, la ragazza che stufa di sentir parlare di obblighi e doveri decide improvvisamente di prendere per il collo la sua vita e  darle una svolta né ha alcun motivo di pentirsene - personaggio invero azzeccato sin nelle virgole e su cui tuttavia pare che qualche idiota a suo tempo abbia trovato da ridire.
La seconda invece non è una donna di potere propriamente detta, ma "solo" una abile e rispettata guaritrice, molto amante delle chiacchiere, forse non dotata in quantità sovrabbondante del dono della sintesi (al contrario di tuttissime le altre personagge, che non si lasciano mai sfuggire una parola di troppo che sia una) ma capace di portare un raggio di luce in un momento particolarmente buio: Ioreth, che sarà un tramite indiretto per la consacrazione di Aragorn come re, ricordando che i veri re erano anche guaritori.

Al termine di questo magrissimo elenco (che ignora le molte e non originalissime protagoniste del Silmarillion, che stanno comunque ad indicare che Tolkien scarseggiava di figure femminili solo quando scriveva cose destinate alla stampa) possiamo testimoniare che le figure femminili in Tolkien sono variegate, potenti, ognuna particolare a modo suo, talvolta malvage...  ma non interagiscono MAI tra loro: non abbiamo alcuna immagine che ci riconduca a quell'attività cui così di consueto le donne indulgono quando si trovano in coppia o in gruppo, ovvero fare conversazione. Sappiamo che Galadriel (come Arwen) ha delle damigelle, con cui tesse, ma non assistiamo ad alcuna conversazione tra loro, contrariamente a quel che avviene nei romanzi cortesi. Possiamo immaginare (ma senza nessuna certezza di azzeccarci) che Galadriel e Arwen abbiano parlato di Aragorn, visto che Lady Galadriel si presta volentieri al ruolo di candeliere della nipote. E sì, abbiamo perfino una scena dove Ioreth racconta alla cognata com'era andata la guarigione di Faramir e della parte non secondaria da lei avuta. E tuttavia, perfino lì sentiamo solo e soltanto le chiacchiere di Ioreth: la cognata non risponde una parola.
Che sembra confermare che il professore, pur conoscendo bene e a fondo la psicologia femminile, era del tutto incapace di scrivere una banalissima scena dove due signore parlavano tranquillamente tra loro, fosse pure del tempo o del futuro raccolto di orzo.

*In Piedi d'argilla e forse anche in qualche romanzo successivo del ciclo delle Guardie della Città, che nessun editore italiano si è ancora degnato di tradurre nonostante le suppliche di noi lettori.

martedì 28 agosto 2018

Uno hobbit per finirlo e alle stampe alfin mandarlo

Copertina della prima edizione del Silmarillion - che naturalmente mi precipitai a comprare, in quel lontano 1979

La seconda considerazione che è andata prendendo forma nelle spaziose pareti eccetera eccetera (vedi post precedente) riguarda le vicende editoriali di Tolkien, che fin da ragazzo scrisse ampie e dettagliate storie delle Ere Antiche della Terra di Mezzo, partendo dalla sua creazione attraverso la musica e raccogliendole pazientemente nel Silmarillion, che non diede mai alle stampe.
Tolkien morì nel 1973, ovvero diciotto anni dopo la pubblicazione del Signore degli Anelli. Il romanzo gli portò in cassa qualche soldo e lui andò in pensione. Quali circostanze più favorevoli per riordinare infine la sua opera di una vita, quella cui in teoria aveva sempre lavorato? Ma così non avvenne: quando infine Il Silmarillion venne pubblicato ad opera del figlio Christopher, costui dovette pasticciare non poco per sistemare una materia che era ancora allo stato fluido. Non solo, ma molti dei testi che compongono Il Silmarillion esistevano in più versioni, talvolta lunghe e dettagliate e in contraddizione o in contrasto tra loro. Fino alla fine Tolkien aveva continuato a giocare col suo giocattolo preferito, evitando con cura di dargli una forma stabile che gli permettesse di andare in giro per il mondo incontro a un destino editoriale.
Insomma, la mia personale teoria è che, vivente Tolkien, Il Silmarillion non sia stato pubblicato perché al professore non importava, e voleva tenere aperto il laboratorio fino all'ultimo - oppure, a scelta, che a quel punto le storie del Silmarillion lo interessavano fino a un certo punto perché ormai sapeva come andava a finire la storia. 
C'è un altro fattore da considerare: nel frattempo, nell'eroica Terra di Mezzo colma di gioielli magici e cupidi nani e nobilissimi e sanguinarissimi (e talvolta stupidissimi) elfi e uomini usciti di peso, loro sì, da saghe celtiche e germaniche di quelle dove il destino si comporta sempre in maniera scorretta, era entrato in scena un popolo anarchico e disciplinato, gaudente e resiliente, disinteressato a gioielli magici, alle spade incantate e spesso perfino agli spocchiosissimi elfi, che commerciava con i nani comprando soprattutto giocattoli e fuochi d'artificio... insomma, gli hobbit, con le loro doppie colazioni (una delle quali a base di bacon e uova), i loro pub, i loro campi ben arati, indifesi in modo patetico ma capaci di sbrogliarsela nelle situazioni più assurde.
In presenza degli hobbit le storie assumono un senso, e pretendono a gran voce di essere portate a una conclusione. Non ci sono hobbit nel Silmarillion, se non appiccicati con lo sputo nell'ultimissimo capitolo che in sintesi è solo un rapido riassunto per infilare il Signore degli Anelli in tutta la vicenda. 
Non ci sono hobbit, ma soprattutto: come potrebbero esserci? Cosa potrebbero fare, in tutte quelle storie nobili ed eroiche e pure un po' convenzionali? 
Beh, magari potrebbero farci molto, ma col loro intervento le storie avrebbero avuto una conclusione, un senso, una dimensione precisa: sarebbero insomma diventate vere storie. Oppure, più probabilmente, le storie si sarebbero snaturate perdendo sapore.
Resta il fatto che di tutte le storie della Terra di Mezzo Tolkien è riuscito a completarne e stamparne due (la prima delle quali non era nata per stare nel ciclo della Terra di Mezzo) ed erano quelle con gli hobbit. Guarda caso, sono anche quelle secondo me letterariamente più valide e con i personaggi più interessanti. 
Coincidenze? Personalmente ne dubito.

lunedì 27 agosto 2018

What are we Tolkien about?


Di recente Gaberricci mi ha dedicato un post. La cosa mi ha fatto molto piacere, non solo perché sto attraversando un periodo in cui, sentendomi piuttosto giù di morale, attestazioni di stima e simpatia mi fanno particolarmente piacere - ma anche perché il post in questione tratta di Tolkien e letteratura fantasy. 
In mezzo a tutta una serie di considerazioni (temo piuttosto valide) sulla funzione di buona parte della letteratura fantasy, Gaberricci ricorda anche come Il Signore degli Anelli abbia cristallizzato per decenni il canone della letteratura fantasy col risultato di inchiodarla ancora in culla ad un modello e a una formula ineludibili, anche se via via sempre più slavati.
La cosa è abbastanza nota e chi ha provato ad assaggiare un po' di fantasy degli anni 70 e 80 conosce benissimo il fenomeno (e l'orchite quasi inevitabile che ne deriva al lettore maschio, mentre nelle lettrici si creava spesso uno spiacevole flusso di latte alle ginocchia). Tuttavia, a forza di ripensarci - perché ho tantissimo tempo per pensare alle cose più strane, in questo periodo - si sono concretizzate un paio di considerazioni che da qualche anno frullavano pigramente tra le deserte pareti che dovrebbero in teoria custodire quel po' du cervello che mi è toccato in sorte.
Prima considerazione: la letteratura fantasy nata a imitazione di Tolkien deriva da Tolkien meno di quel che sembra, ed è in realtà figlia soprattutto di una serie di stereotipi culturali attraverso i quali Tolkien è stato filtrato e che sono stati usatissimi per costruire i giochi di ruolo.
Tanto per cominciare, il Medioevo. Qualcuno ha deciso che Il Signore degli Anelli era ambientato nel medioevo perché c'erano un po' di spade famose e i cavalieri di Rohan, e siccome c'era l'ambientazione medievale erano necessari un po' di re, molti cavalieri... e i monaci, di cui in effetti in Tolkien non c'è traccia per precisa e ben determinata scelta dell'autore.
Altri elementi molto gettonati sono stati maghi, orchetti, unicorni, draghi, incantesimi e soprattutto nani ed elfi. Qualche sacerdotessa e qualche strega, anche.Tutto ciò farà magari parte dell'immaginario legato al medioevo (anche se si tratta di roba che continua fino almeno a tutto il Cinquecento e in molti casi risale alla letteratura classica) ma certamente NON del medioevo storico che conosciamo. Molti autori stanno comunque ben attenti a scansare patate, tabacco e spaghetti e pizza al pomodoro, finendo spesso per nutrire i propri personaggi soprattutto di pane e formaggio e cacciagione alla brace o allo spiedo. C'è anche una certa abbondanza di belle ragazze con la spada, in percentuale assai maggiore di quella impiegata dal Professore - ma anche lì, il tema viaggia dalle Amazzoni greche fino alla Clorinda di Tasso e la storia e le tematiche legate a Eowyn non ricordo che vengano mai chiamate in causa.
Elfi e Nani sono molto gettonati ma finiscono spesso per appesantire inutilmente la narrazione: gli elfi sono molto nobili d'animo e pallosi, i nani molto ruvidi e spicci e tutto suona decisamente stereotipato.
Gli orchetti (o i loro equivalenti) e le terre maledette dominate dalle tenebre naturalmente abbondano. Due palle da non dirsi, garantisco. Di solito si tratta di una malvagità di superficie, ottenuta lavorando con effetti speciali su cartongesso, in modo assai convenzionale. 
Qualche storia d'amore qua e là un po' accennata, leggermente più esplicita di quelle di Tolkien. Sesso a malapena intuibile, a volte qualche bacio o una scena un po' affettuosa. Qualcuno ha stabilito che nel fantasy non ci va il sesso e il tabù dura tuttora, se Martin è riuscito a scatenare il vespaio che ha scatenato facendo trombare i suoi protagonisti a volte direttamente sulla pagina (ma niente di più di quanto non sia più che accettabile ormai da decenni nei romanzi  di avventura, e non parliamo di quelli di azione).

In compenso mancano gli hobbit, protetti dalle leggi sul copyright ma anche da qualche meccanismo più potente (forse magico?) che fa sì che non esistano comunità umane che si rifanno al modello della Contea. Ma soprattutto mancano i boschi tolkieniani, che sono qualcosa di molto diverso dalle solite foreste incantate dove a volte si nasconde qualche eremita e che costituiscono uno degli elementi più affascinanti del Signore degli Anelli. Immagino che creare una foresta con una sua personalità sia più complesso che sbattere sulla carta qulche nobile elfo molto saggio e dall'aria assai malinconica (ma bellissimo). 
In pratica: nel rifare Il Signore degli Anelli coloro che hanno... diciamo tratto profonda ispirazione dal romanzo di Tolkien, hanno trovato maggior facilità di utilizzo per gli elementi più commerciali - anche se talvolta hanno trovato loro specifico dovere intrattenere il lettore con soporifere descrizioni di paesaggi costruiti con lo stampino e battaglie simil-medievali (che però, contrariamente alle vere battaglie medievali, facevano un sacco di morti), a rischio di addormentarlo senza pietà.
Abbiamo così una vasta produzione letteraria molto stereotipata, che si è volontariamente rinchiusa in un recinto piuttosto stretto dove l'eventuale inventiva degli autori non ha avuto modo di esprimersi adeguatamente ma anzi è stata repressasenza pietà, probabilmente anche per influenza degli editori, e un genere letterario che non è fiorito se non in mano a quegli autori che hanno deciso di raccontare quel che gli pareva rinunciando volontariamente alla gabbia in cui Tolkien, del tutto involontariamente, li aveva costretti.
In pratica, una grande quantità di ciarpame.

martedì 19 aprile 2016

Boschi della Terra di Mezzo - 1 - Bosco Atro

Bosco Atro, qui  raffigurato in un punto ancora molto luminoso...

Il bosco più importante che troviamo nello Hobbit è Bosco Atro (un tempo Bosco Verde); si tratta, in sintesi, di un normale bosco incantato, di quelli che si trovano a tutti gli usci in fiabe e poemi medievali: se vuoi un mistero, un incantesimo o una maledizione è nel bosco che devi andare, e questo lo sappiamo tutti sin dalla prima volta che qualcuno ci ha raccontato la storia di Biancaneve.

Primo tratto caratteristico di un buon bosco incantato è di avere una cattiva reputazione. 
Il primo a parlare male di Bosco Atro è Beorn, l'uomo-orso: 
"La vostra strada attraverso Bosco Atro è scura, pericolosa e difficile. Non è facile trovarvi né acqua né cibo. Non è ancora la stagione delle noci - anche se in verità potrà essere arrivata e passata prima che arriviate dall'altra parte del bosco - e le noci sono più o meno le sole cose buone da mangiare che crescono là dentro: tutto il resto è selvaggio, oscuro, strano, feroce. Vi fornirò di otri per portare l'acqua, e vi darò archi e frecce. Ma dubito molto che qualsiasi cosa troviate dentro Bosco Atro sia tanto salubre da essere potabile o commestibile. So che c'è un corso d'acqua, lì, nero e turbinoso, che attraversa il sentiero. Non dovete né bere né bagnarvici: ho sentito dire infatti, che le sue acque sono magiche e danno sonnolenza e oblio. E nell'ombra indistinta di quel posto non credo che possiate colpire niente, salubre o non salubre, senza allontanarvi dal sentiero. E questo NON DOVETE FARLO, per nessun motivo".
Dopo una presentazione del genere, è chiaro che i nani e Bilbo cercano in ogni modi di scansare sì inospitale luogo, ma proprio non c'è verso: l'autore e Gandalf hanno stabilito che la compagnia deve attraversare quel luogo e così sarà. Peggio che peggio, Gandalf stesso li saluta e li pianta proprio all'ingresso del bosco, rallietandoli vieppiù:
"E' probabile che ci incontreremo ancora prima che tutto sia finito, è però probabile anche il contrario" "Rimanete sulla pista nella foresta, tenete alto il morale, e con un enorme dose di fortuna, forse, un giorno, potreste uscire a vedere le Lunghe Paludi stendersi sotto di voi".

Con queste laute premesse i nani e Bilbo si incamminano, e di tenere alto il morale non se ne parla nemmeno: per tutto il tempo che passeranno nella foresta (che ben presto odieranno con tutte le loro forze) il morale della compagnia sarà decisamente rasoterra.
La prima caratteristica di Bosco Atro è, appunto, quella di essere assai buio. Come aveva avvisato Beorn, niente sembra molto in buona salute, lì dentro:
"L'inizio del sentiero era indicato da una specie di arcata che portava in un tunnel tetro 
fatto di due grandi alberi che si intrecciavano, troppo vecchi ormai e strangolati dall'edera e coperti di musco, per poter reggere più di poche foglie annerite. Il sentiero era stretto e serpeggiava in mezzo ai tronchi. Ben presto la luce all'ingresso fu come un piccolo foro luminoso molto lontano, e il silenzio era così profondo che pareva che i loro passi risuonassero sordi sul terreno, mentre tutti gli alberi si piegavano sopra di loro per ascoltare."
Troviamo qui due classici indicatori del pericolo incombente nelle storie di Tolkien: il silenzio innaturale e l'oscurità - insieme al senso di oppressione:
"Sotto il tetto della foresta non un fremito nell'aria, che era eternamente immobile, scura e afosa. Lo sentivano perfino i nani, che pure erano abituati a vivere nei tunnel, e talvolta restavano molto a lungo senza la luce del sole; ma lo hobbit sentiva che stava lentamente soffocando".

Eppure intorno a loro c'è vita: scoiattoli neri che guizzano da un ramo all'altro degli alberi e che, fatti arrosto, sono assolutamente immangiabili; ragni che producono enormi e spesse ragnatele, falene nere e pipistrelli neri che volano in un gran frullo d'ali... anche il fiume che trovano, naturalmente, è nero - non sia mai che un tocco chiaro profani la foresta. Sentono strani rumori, grugniti, calpestii, tramestii frettolosi nel sottobosco, e quando di notte fa la sentinella Bilbo vede brillare un sacco di occhi

 Mirkwood, Collette J Ellis


occhi gialli, occhi rossi, occhi verdi, occhi che scompaiano e riappaiono proprio sopra di lui... e occhi dal bulbo pallido, occhi di insetto ma di gran lunga troppo grandi. 

Bosco Atro è un posto singolarmente spiacevole e soffocante, ma a quel che pare di vedere gli alberi fanno il loro onesto lavoro di alberi e sono soltanto ammalati. Un veleno percorre la foresta e i suoi abitanti: le acque del fiume che l'attraversa sono incantate, gli scoiattoli immangiabili, i ragni sovradimensionati ed estremamente scortesi. Il maleficio proviene da un punto preciso - nel Signore degli Anelli scopriremo trattarsi di Dol Guldur, una fortezza tenuta da uno stregone malvagio, chiamato il Negromante - insomma, da Sauron. L'unico punto vivibile è la zona dove abitano gli Elfi Silvani, che comunque non si curano di quel che succede nel resto del bosco.
Nelle fiabe infatti i boschi sono posti parecchio strani, spesso abitati da varie entità che se li dividono in pacifico condominio.
A prezzo di lunghi digiuni e notevoli fatiche (che includono anche un incantesimo di sonno e di oblio di cui cade vittima Bombur nonché uno spiacevolissimo incontro con i ragni), la compagnia di dodici nani e un hobbit quasi riesce a compiere la traversata, ma all'ultimo momento commette la più grave delle sciocchezze, facendo quello che Gandalf e Beorn si sono raccomandati di non fare mai, per nessunissima ragione al mondo, inseguendo l'improbabile miraggio di un banchetto.
Tutti sappiamo che nelle fiabe deviare dalla strada indicata dagli aiutanti è colpa grave ma quasi mai irrimediabile, e infatti Mr. Baggins rimedierà a tutto, seppur con notevole incomodo da parte sua.

Bosco Atro non è un protagonista della storia, anche se Tolkien gli dà sufficiente spessore e scoiattoli neri da farne qualcosa di più di un fondale. E' il luogo dove Bilbo collauda (e battezza) la spada e l'Anello di cui è entrato in possesso attraverso le avventure precedenti e prende di fatto il comando della compagnia, relegando in secondo piano Thorin Scudodiquercia - che peraltro non ha mai fatto niente di notevole fino a quel momento. 
Somiglia molto alla selva oscura di dantesca memoria ma deviare dalla retta via di Bosco Atro porta tutto sommato a dei buoni risultati (altro tratto caratteristico delle storie di Tolkien); somiglia anche ad un utero soffocante da cui Bilbo, che ha cercato in  tutti i modi di rimandare la sua nascita come Eroe e Guida è alla fine disposto ad uscire - molto, moltissimo disposto ad uscire; ma, come la selva oscura dantesca, non è un bosco dotato di libero arbitrio o di volontà. 
Le potenze all'opera sono altre: i ragnacci, il Negromante, gli elfi silvani. Bosco Atro è abitato da strana gente e la subisce. Più avanti, molti anni dopo, quando Galadriel lo guarirà e lo purificherà, si adatterà di buon grado a diventare un bosco piacevole archiviando ragni e scoiattoli neri senza rimpianti.

lunedì 11 aprile 2016

Quel che non sappiamo della Terra di Mezzo

Colle  Vento, detto anche Amon Sul

Nello Hobbit Bilbo e i nani si spostavano in un mondo praticamente senza storia, dove l'unica cosa che contava conoscere erano gli usi e costumi delle varie popolazioni che si incrociavano: come ci si rivolge a un drago, come si evita di farsi arrostire dai troll, cose così. Alla fine del romanzo abbiamo visitato un po' di luoghi insoliti, ma gli unici avvenimenti che conosciamo sono piuttosto recenti: l'arrivo di Smaug a Erebor, Bard che discende da una famiglia di re...
Niente fa capire che Gollum abbia una storia degna di rilievo, o che Elrond sia in realtà un protagonista del passato e un custode del futuro della Terra di Mezzo (anche perché, quando fu scritto il romanzo, ancora non lo era nella mente dell'autore), il re degli elfi è inserito in una rassicurante routine da re degli elfi, la doppia natura di Beorn è una tradizione di famiglia che accomuna un gruppo di persone, non sappiamo quanto numeroso. Siamo, insomma, in un mondo senza spessore cronologico, pieno di cose e creature ben diverse dagli hobbit, ma che un hobbit di media cultura conosce almeno per sentito dire in buona parte dei casi.

Nel Signore degli Anelli veniamo invece catapultati in un mondo che ha una ricca storiografia, che si snoda lungo varie migliaia di anni; anzi, la prima cosa che Tolkien fa, nell'introduzione, è raccontarci un po' di storia hobbit, giusto per dirci che loro stessi ne conoscono pochissima. 
Se conoscono poco la loro storia, figurarsi quella degli altri - anche perché, a ben guardare, degli altri spesso nemmeno sanno che esistono - perfino Bilbo, che pure ha raccolto un po' di storie e insegnato qualcosa a Frodo e ai giovani hobbit che lo stavano ad ascoltare.

Il lettore si trova quindi immerso in un posto del tutto sconosciuto, che gli riserverà nuove sorprese ad ogni capitolo e in cui gli eventi raccontati si collegano per mille fili a ciò che è successo in passato (del resto, si sa, la via prosegue senza fine, e le storie anche).
Per un autore questa è una grossa sfida. Gli autori di fantascienza conoscono bene questo genere di problema, gli autori di storie epiche molto meno perché il mondo che narrano di solito è abbastanza noto agli ascoltatori.
Inoltre Tolkien sapeva, da bravo studioso, che il passato è solo in parte noto, e molto spesso solo faticosamente ricostruito da indizi che tendono a contraddirsi e possono essere interpretati in vario modo.
Sceglie dunque la soluzione più realistica ma anche più difficile da gestire: il mondo ha una storia, che in buona parte è stata dimenticata ma di cui rimangono tracce abbastanza visibili e spesso misteriose, e per protagionisti prende quattro hobbit molto ignari di quel che è successo in passato al di fuori dei domestici confini della Contea. Li mette però in contatto con un buon numero di personaggi che questa storia la conoscono, a volte poco, a volte abbastanza, a volte moltissimo, e che spesso sono molto disponibili a raccontare, aggiungendo qua e là un buon numero di informazioni fornite dal Narratore Onnisciente, all'inizio molto vaghe, poi sempre più precise, e buona parte dei temi vengono introdotti in modo graduale - soprattutto il tema del Regno di Gondor, che in qualche modo aspetta ancora il Ritorno del Re, che viene fornito al lettore in dosi omeopatiche, a piccole cucchiaiate, ogni capitolo un tassello nuovo. I lettori (specie quelli che amano le riletture) imparano alla fine non tutto quello che c'è da sapere - che sarebbe impossibile - ma almeno tutto quello che è stato deciso di rivelargli.
Abbiamo dunque fonti di prima mano - Elrond e Galadriel, per esempio, che hanno svariate migliaia di anni alle spalle e che parecchie delle vicende più importanti della Terra di Mezzo le hanno vissute da protagonisti, ma anche personaggi molto più antichi, come Tom Bombadil e Fangorn detto anche Barbalbero, che possono vantarsi di ricordare la prima ghianda e la prima goccia di pioggia - nonché numerose fonti di seconda mano: Gimli che racconta la storia del primo nano, Durin; Aragorn che conosce tutto della storia di Gondor, eccetera. Vediamo però che Barbalbero, che pure conosce l'origine (tragica) degli orchetti e dei troll, ignora l'esistenza degli hobbit. Tom Bombadil invece li conosce bene, ma abitando vicinissimo alla Contea la cosa è piuttosto comprensibile. Le storie che racconta riguardano soprattutto il Nord della Terra di Mezzo, e d'altra parte agli hobbit al momento servono quelle. Ma conosce anche le terre dell'Ombra, o quelle del sud? Chissà.

Quando però Sam e Frodo varcano il confine della Terra di Mordor, non c'è nessuno per parlargli di storia: Gollum conosce al massimo un po' di geografia, e né Shelob né i vari, spiacevolissimi orchetti che i due incrociano loro malgrado si mostrano inclini a fare da menestrelli cantastorie. Supplisce il Narratore Onnisciente, con poche e vaghe notizie, giusto quel minimo che serve per andare avanti; in compenso ogni tre pagine ci spiegano che questa o quella cosa spiacevolissima risalivano a ben prima di Sauron, finché l'Oscuro Signore sul suo oscuro trono finisce per sembrarci una presenza quasi occasionale in quelle antichissime ombre - e in effetti questo è, non di più.

Che dire poi delle terre del Sud? Proprio nulla, perché tutto quel che ci arriva sono pochi nomi sulla carta geografica. I corsari di Umbar, per esempio, non vengono nemmeno nominati di striscio nel romanzo e a malapena se ne fa cenno nelle appendici. Dei Sudroni sappiamo di non sapere niente (condizione essenziale, com'è noto, per una reale conoscenza delle cose. Purché qualcuno ti dia qualche elemento, magari). E vogliamo parlare del mare di Rhun? Sì, forse ne vorremmo parlare, ma con chi? Non c'è un anima disposta a farlo, in tutto quel lunghissimo romanzo.

Una storiografia incompleta, dunque, con pochi eventi analizzati per lungo e per largo (la caduta di Moria, o la forgiatura dell'Anello) e molte storie raccontate assai vagamente o lasciate intuire attraverso qualche vago accenno, oltre a un infinità di domande senza risposta. Del resto, la storia è così: un po' si sa, un po' si tira a indovinare, e la maggior parte riposa tranquilla nell'ombra ridendo dei nostri tentativi di decifrarla.

Con gli anni sono saltati fuori gli appunti del Professore, spesso in contraddizione tra loro. Quasi tutti però riguardano le infinite genealogie degli elfi e le prime due ere. La Terra di Mezzo che impariamo vagamente a conoscere nel Signore degli Anelli resta sigillata nel romanzo e nelle appendici e il Professore, sempre pronto a riscrivere un ennesima variante della storia di Luthien Tinuviel o della caduta di Gondolin (o, ancor più volentieri, qualche intricatissima genealogia tripartita di qualche ramo della prolificissima razza  elfica) se n'è occupato solo molto occasionalmente, quasi sempre dietro precisa richiesta.

Tutto ciò non è stato comunque privo di conseguenze: Il Signore degli Anelli ha fatto da modello per molta della letteratura fantastica che è seguita, anche se più nell'apparenza che nella sostanza; così la maggior parte degli autori di genere fantastico venuti dopo di lui - soprattutto quelli americani - si è sentita in dovere di rabberciare un mondo pieno di nomi più o meno complicati, tenuti insieme in un compendio storico da Bignami che viene poi rifilato al lettore (che di solito lo salta, o lo scorre in uno stato di assonnato torpore) in uno dei primi capitoli, privandolo così del piacere di collezionare accenni lasciandosi immergere lentamente in un altro tempo e in un altro universo.