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lunedì 15 maggio 2017

Lunedí Film - Romeo + Juliet (Film per le medie)

Ognuno ha le sue fissazioni. Tra le mie c'è l'assoluta necessità di familiarizzare i giovinetti con Shakespeare, che ai miei occhi è il pilastro portante della letteratura di tutti i tempi e un fondamento culturale imprescindibile.
Nessuna classe che abbia avuto a che fare con me per almeno un  anno è uscita dalle mie amorevoli mani senza essersi sciroppata almeno un film di Shakespeare, accuratamente selezionato in una ristretta rosa. Perché non tutto Shakespeare è facilmente digeribile ad uno stomaco tredicenne, e se io a nove anni trangugiai senza alcuna resistenza e anzi con grande entusiasmo un Re Lear integrale (recitato maluccio, sostenevano i miei, che poi si scusarono molto per la tortura che mi avevano imposto credendo fosse fatto meglio) visto in piedi appesa a una balconata, mi rendo conto che non tutti i giovinetti dispongono della mia totale dedizione alla causa. D'altra parte la cineteca shakespeariana ormai è molto vasta e comprende un ampio ventaglio di possibilità adatte a tutti gli stomaci.
Romeo + Juliet è un film del 1996 di Baz Luhrman che ha una notevole serie di frecce al suo arco, prima tra tutte un ritmo velocissimo che rende giustizia alla vicenda. Non ho mai capito perché tutti amano quegli allestimenti lenti e solenni dove i due protagonisti inanellano pazientemente i loro lunghissimi monologhi, avendo cura che allo spettatore non sfugga una singola sillaba delle varie raffinatissime metafore elaborate dall'autore. Per la lettura in privato va benissimo, ma sulla scena è la storia di due ragazzi tutt'altro che inclini a perdere tempo in raffinate introspezioni. In inglese, si capisce, la velocità della lingua aiuta, ma con una traduzione troppo attenta alle sfumature il ritmo diventa mooolto lento. Troppo.
La vicenda incalza. Nonostante rechi la dicitura romantic play il testo colleziona una serie di morti, duelli e avventure degni delle più tragiche tragedie, e la parte romantic non ha proprio nulla di platonico: al primo incontro i due si baciano dopo un minuto scarso di conversazione, al secondo si scambiano una promessa di amore eterno (e se non ci fosse di mezzo un balcone probabilmente si scambierebbero ben altro); al terzo incontro si sposano, al quarto si amano, e sappiamo tutti come finisce il quinto e ultimo incontro. 
E' la storia di un magnifico colpo di fulmine: la fanciullina, che un attimo e qualche riga prima non pensava minimamente né all'amore né tanto meno alle gioie coniugali, una volta visto Romeo cambia completamente idea sull'argomento e decide che se non potrà averlo, la tomba sarà il suo letto nuziale. Quanto a Romeo, fino a un attimo prima disperatamente invischiato in un amore senza speranza, dimentica tutto appena vede Juliet. Il ritmo infernale del film rende - finalmente! - giustizia a tutto questo. 
La seconda, lussuosa freccia all'arco del film è un Romeo meravigliosamente interpretato da Leonardo di Caprio, che nei primi anni di carriera era di una bellezza travolgente, oltre che già molto bravo.
La terza freccia, a sorpresa, è un ambientazione contemporanea, completamente pazza ma che in qualche modo funziona benissimo. La scena è spostata negli Stati Uniti, in una città dove due ricchissime famiglie a capo di cosche rivali fanno un casino incredibile, con grande disperazione dei poveri cittadini e soprattutto dello sceriffo locale. La prima scena, con la prima zuffa, si risolve in assai spettacolare rogo in un distributore e lo sceriffo che cala a bordo di un elicottero per sedare i due gruppi di litiganti che sembrano indemoniati. Certo, su un palcoscenico non si sarebbe potuto fare, ma a cosa serve avere a disposizione telecamere ed effetti speciali se non a utilizzarli?
La festa dove i due innamorati si incontrano è la più colossale e pacchiana festa in maschera che mente umana possa immaginare: tutto è estremamente sopra le righe, e tutto diventa curiosamente intimista mentre i due ragazzi si scambiano le prime parole, lontano dall'immane frastuono che imperversa nelle grandi sale. Lui è un cavaliere, lei un angioletta con splendide ali.
Un po' di buon senso da parte degli altri, tutti gli altri, porterebbe a lieto fine questo amore - ma il buon senso ce l'hanno soltanto i due innamorati e il povero Mercuzio, che non a caso finisce con la sua uccisione (causata da un incauto tentativo di impedire un duello) per innescare il meccanismo che porterà alla tragedia finale. I pazzi, si sa, nei drammi di Shakespeare sono spesso gli unici personaggi raziocinanti di tutto il mazzo, e per questo destinati ad una pessima e ingiustissima fine, esattamente come succede nel mondo reale (ma sul serio esiste qualcosa di più reale di un dramma di Shakespeare?).
I ragazzi si appassionano alla vicenda e fanno il tifo, pur sapendo benissimo come andrà a finire: perché quand'anche non conoscessero almeno per sentito dire che la storia va a finire male, l'annunciatrice televisiva si premura già nel primo minuto di film di ripetere due volte con grande chiarezza che i due amanti hanno le stelle avverse: nessun rischio di spoiler, in Romeo + Juliet.
Infine il ritmo del film rallenta: finite le sparatorie e le grida disperate la scena si sposta nella pacchianissima cappella mortuaria dei Capuleti, dove tutto potrebbe ancora finire bene e dove tutti sappiamo che invece andrà a finire malissimo.
I ragazzi aspettano, sperando contro ogni logica che Juliet si risvegli in tempo per impedire la morte di Romeo o che almeno i due riescano a parlarsi, quasi che non sapessero dalla notte dei tempi che per uno scarto di tempo infinitesimale questo non succederà - perché la scena dei due amanti che muoiono insieme senza riuscire a parlarsi è parte integrante da almeno duemila anni del nostro DNA culturale: Piramo e Tisbe, certo, ma anche Tristano e Isotta e tanti altri. Credo che davanti a un lieto fine la loro (la nostra) delusione sarebbe immensa: il fascino irresistibile di queste scene è proprio sperare contro ogni logica che tutto vada a finire bene nella felice consapevolezza che il lieto fine non ci sarà. E qui la scena della morte è lunga, lunghissima, con i tempi dilatati dall'ansia dello spettatore.

Finito il film, è assai opportuno lasciarsi un quarto d'ora buono di decompressione emotiva prima di consegnare le giovani creature nelle grinfie del teorema di Pitagora o del futuro inglese.

venerdì 6 maggio 2016

Boschi nella Terra di Mezzo - 4 - Fangorn



Fangorn NON E' una foresta dall'aspetto verdeggiante (illustrazione di Alan Lee)


La Foresta di Fangorn si trova nei pressi della terra di Rohan, e tanto per cambiare è circondata da una fama piuttosto sinistra (perfino Celeborn e Galadriel consigliano di scansarla prudentemente perché nemmeno loro sanno bene cosa c'è dentro. Barbalbero, al contrario, conosce benissimo Lothlorien).
Tanto per cambiare però, quando Merry e Pipino si trovano ai suoi bordi non hanno molta scelta e nascondersi lì dentro sembra l'unico modo per sfuggire alla battaglia che si combatte alle loro spalle.
Pesti e ammaccati dopo tre giorni di prigionia nelle mani degli Uruk-hai, i due hobbit si inoltrano cautamente sotto gli alberi. Sono ormai soli e abbandonati a loro stessi, senza armi né generi di conforto e non hanno nemmeno idea di cosa sia successo a Frodo e a Sam. Ma sono hobbit, e dunque prendono il buono che c'è, ovvero di essere nuovamente liberi.
Dunque Merry "condusse il suo compagno sotto gli immensi rami degli alberi. Parevano inconcepibilmente vecchi. Da essi pendevano lunghe barbe strascicanti di licheni, che dondolavano al soffio della brezza. Gli Hobbit sbirciarono giù per il pendio dalle tenebre in cui erano immersi: piccole figure furtive che nella fioca luce sembravano elfici bambini di tempi immemorabili intenti ad osservare, dal Bosco Selvaggio, pieni di stupore, la loro prima Alba".
La foresta di Fangorn è vecchia, vecchia oltre ogni immaginazione. Quando ci entrerà, Legolas si sentirà di nuovo giovane, per la prima volta da quando ha intrapreso il viaggio con i ragazzini della Compagnia, dove nemmeno Gimli arriva a 150 anni. 
Pipino paragona l'atmosfera (soffocante) che la permea alla stanza degli Smial di Tucboro dove il suo bis-bis-bisnonno Gerontius Took è vissuto per anni e anni diventando trasandato e vecchio insieme con essa e mai più toccata dopo la sua morte; ma ammette che non è nulla al confronto: "Guarda tutte quelle barbe, e quei baffi di licheni, spioventi e ciondolanti! E la maggior parte degli alberi pare ricoperta di foglie secche e avvizzite che non sono mai cadute. Molto disordinato. Non riesco a immaginare l'aspetto della primavera in questo posto, ammesso che vi giunga mai; e, meno ancora, di una pulizia generale". Merry invece osserva che è  un po' buia e terribilmente vegetale. Ma basta un raggio di sole per far cambiare aspetto al vecchio bosco: 
"Là, dove tutto era parso grigio e squallido, ora il bosco splendeva di colori bruni e caldi e di lisce cortecce grigio-nere simili a lucida pelle. I tronchi brillavano di un verde fresco come erba tenera" tanto che Pipino osserva, dopo che il raggio di sole se n'è andato, che per un attimo aveva quasi avuto l'impressione che quella vecchia foresta squallida gli piacesse - e dopo un sì sperticato elogio possiamo comprendere come Barbalbero (in elfico Fangorn; da lui prende il nome la foresta, dove abita da tempo immemorabile), che da un po' li stava osservando, decida infine di intervenire nella conversazione.
Il lettore incontra così il primo Ent del romanzo: una novità a cui nulla l'aveva preparato fino a quel momento perché lo stesso Tolkien aveva scoperto che esistevano gli Ent solo scrivendo quel capitolo - e infatti anche nel Silmarillion troviamo solo un paio di accenni infilati dopo la stesura del romanzo.

Fangorn dunque è una vecchia foresta dall'aspetto trasandato e con un anima molto vegetale. Come vedremo più avanti ospita alberi che si muovono senza darsene l'aria (gli Ucorni) e alberi che sono in grado di comunicare tra loro e che sono diversi per inclinazione, carattere e aggressività; ma, soprattutto, a Fangorn ci sono i pastori d'alberi: gli Ent, appunto, che oltre a muoversi a piacer loro (seppure talvolta un po' legnosi nei movimenti) parlano, di solito con voce bassa e grave, e sono vecchi - molto, molto vecchi - e saggi, estremamente saggi. Ma, soprattutto, gli Ent non sono frettolosi.
Il folklore e le leggende ci hanno dato gran copia di alberi incantati di vario genere, e soprattutto un bel po' di personalità divine e semidivine trasformate in alberi e piante di vario tipo*, nonché alberi di grande importanza, che tengono su il cosmo e compiono altre azioni di gran rilievo; l'albero con un tocco antropico però, per quel che mi risulta, lo ha inventato Tolkien - se pure l'ha davvero inventato e non semplicemente descritto.
Partiamo dall'aspetto: fermo restando che gli Ent sono diversissimi tra loro, costoro sono una razza senziente, di aspetto vagamente antropomorfo e dimensioni ragguardevoli: più grandi dei troll (di cui sono brutte copie, forse ottenute dall'Oscuro Predecessore di Sauron torturando dei veri Ent - come aveva ottenuto gli orchetti torturando gli elfi), molto alti e assai longilinei, lunga testa quasi senza collo, pelle assai robusta simile a corteccia, piedi con sette lunghe dita che all'occorrenza rompono la terra, barba (e capelli, si suppone) con radici come ramoscelli e punte fini e muscose.
Vestiti, manco a parlarne. Niente armi, perché non gli servono (il pugno di un Ent accartoccia il ferro come fosse latta).
Gli Ent parlano: gli elfi, negli anni antichi, parlandogli fecero nascere in loro il desiderio di fare altrettanto. 
"Sono stati gli Elfi a incominciare: sono stati loro a svegliare gli alberi, a insegnar loro a parlare e ad apprenderne per primi il linguaggio. Hanno sempre desiderato conversare con ogni cosa".
Gli Ent si crearono così una lingua propria: "lenta, sonora, agglomerata, ripetitiva, serpeggiante da tutti i punti di vista, formata da una molteplicità di sfumature fra le vocali e di distinzioni di tono e intensità che persino gli Eldar più eruditi non avevano mai tentato di trascrivere. Essi lo adoperavano soltanto fra loro, benché non fosse certo necessario tenerlo segreto, dato che nessun altro sarebbe mai riuscito ad apprenderlo"; è soprattutto una lingua lenta, che narra la storia di ogni cosa di cui si parla - perché secondo loro una cosa non vale la pena di essere detta se non si è disposti a spendere molto tempo per parlarne; tuttavia gli Ent imparavano anche volentieri le altre lingue, soprattutto quelle degli elfi.
Hanno vita assai lunga, che si misura in molto e molte migliaia di anni, e sono pastori di alberi: li educano, li tengono a freno se necessario, li aiutano a svegliarsi e soprattutto li amano appassionatamente. Sorvegliano i boschi, tengono lontani temerari ed estranei, insegnano, allenano, camminano
Anche Barbalbero, come il Vecchio Uomo Salice, ricorda con nostalgia il tempo in cui il mondo era degli alberi: "Quelli erano giorni in cui ogni cosa era più ampia e spaziosa! Vi fu un tempo in cui camminavo e cantavo tutto il giorno, e non udivo altro che il suono della mia voce echeggiare nelle caverne dei colli. I boschi erano come quelli di Lothlorien, ma più fitti, più giovani e forti. E il profumo dell'aria! Impiegavo una settimana soltanto per respirare". Il suo però è un rimpianto senza veleno: gli Ent non sono aggressivi (purché non siano gravemente provocati, si capisce).

Sono una razza vegetale e il loro è un punto di vista vegetale: non sono dalla parte dio nessuna delle altre razze senzienti perché nessuna di loro (nemmeno gli elfi, in fondo) può essere davvero dalla loro parte, non tanto per cattiveria quanto per impossibilità tecnica. Ma naturalmente odiano gli orchetti, e hanno una serie di conti aperti con Saruman, che da qualche tempo si è messo in testa di usare Fangorn come cava di legna. Il loro atteggiamento verso il mondo esterno però non è aggressivo. Barbalbero si mostra in realtà molto cortese con i due hobbit, la cui estrema giovinezza (i due in effetti sono molto giovani anche da un punto di vista hobbit, e addirittura Pipino non è nemmeno maggiorenne) lo riporta ai tempi remoti in cui gli Ent avevano ancora dei piccoli**. 
Come tanti prima e dopo di lui, anche Barbalbero non conosce l'esistenza degli hobbit. Al contrario di tutti però prende la questione molto sul serio: come mai non sono nelle liste, quelle fatte dagli elfi in tempi remoti? E infatti la prima questione affrontata dall'Entaconsulta sarà proprio quella di aggiornare le liste, seguendo il frettoloso ma sensato suggerimento di Pipino.

Dopo una prima, frettolosa conversazione, Barbalbero porta i due hobbit in una delle sue case per parlare con più comodo. Gli Ent infatti infatti hanno delle case, e sono forse gli inventori della bioarchitettura, ancor prima e ancor meglio degli elfi: le loro case sono altamente ecosostenibili e in realtà non sono proprio costruite, bensì create utilizzando elementi naturali: quella di Barbalbero, per esempio, utilizza una roccia incavata preceduta da una lunga navata di alberi disposti in due file con le chiome che si toccano - una cosa molto simile a una cattedrale gotica, per intendersi. All'interno, comodi giacigli di foglie secche e muschio, un tavolo di pietra e qualche anfora piena d'acqua.
L'acqua viene dall'Entalluvio, il fiume che attraversa la foresta, le cui acque hanno una vasta serie di poteri. Le anfore nella casa di Barbalbero possono produrre luce, se l'Ent lo vuole - una bella luce dorata e naturale, che si estenderà gradualmente alle foglie degli alberi della navata. Ma l'acqua è usata prima di tutto per bere, e una delle poche suppellettili della casa è un bacile che raccoglie l'acqua di un ruscello che passa all'interno dell'abitazione. Ci sono acque di vari tipi - Barbalbero non beve la stessa che dà agli hobbit, la sua è una specie di tisana notturna rilassante, e infatti per ascoltare il racconto dei due hobbit si distende per impedire che la tisana faccia effetto (naturalmente gli Ent dormono in piedi).


Treebeard - Inger Edelfeldt

I due hobbit invece ricevono una bevanda assai nutriente: in essa "vi era una qualche ineffabile fragranza o sapore, che ricordava loro il profumo di una foresta lontana trasportato da lungi sulle ali di una fresca brezza notturna. L'effetto dell'elisir incominciò a manifestarsi nelle punte dei piedi, quindi invase man mano ogni parte del corpo, portando seco nell'ascesa freschezza e vigore sino alla cima dei capelli. Gli Hobbit sentirono anzi sulle loro teste i capelli rizzarsi effettivamente, ondeggiare, risplendere e crescere".
Il primo sorso dell'Entalluvio, bevuto appena entrati nella foresta, li aveva già assai rinvigoriti. Dopo qualche giorno di acqua entesca i due hobbit si ritroveranno cresciuti, tanto da raggiungere una statura inconsueta per la loro razza e pur avendo, per quanto giovani, passato da tempo l'età dello sviluppo.



Dopo aver sentito la storia degli hobbit - o meglio, la parte che gli hobbit scelgono di raccontare, e che naturalmente non contiene alcun cenno all'Anello - Barbalbero decide che per gli Ent è il momento di agire. Il giorno dopo convoca dunque un Entaconsulta, ovvero l'unica magistratura di cui gli Ent dispongono: un consiglio che si tiene in una bellissima conca verde dove si parla e si discute in entese fino a raggiungere l'unanimità, naturalmente con i tempi enteschi. Dopo aver sistemato l'importantissima questione dell'aggiornamento delle liste si parla di Saruman, degli orchetti di Saruman e di Isengard, ovvero la fortezza di Saruman, che è giunto il momento di distruggere. Scopriamo così che gli Ent sono una sessantina, e che una volta svegli possono essere assai attivi: la stessa differenza che passa tra una vecchia mucca sdraiata che rumina pensierosa e un toro alla carica. Cantando una fragorosa canzone di guerra assai allitterata gli Ent si mettono in marcia verso Isengard, con Marry e Pipino sulle spalle di Barbalbero che guida la marcia... ma non sono soli.
"Pipino si voltò a guardare. Il numero degli Ent era aumentato... o che altro stava accadendo? Là dove avevano attraversato squallidi e spogli pendii, gli parve di distinguere grovigli di alberi. E gli alberi si muovevano! Possibile che le piante di Fangorn si fossero svegliate, e che la foresta ascendesse il colle marciando verso la guerra? Si strofinò gli occhi, dubitando che sonno e tenebre l'avessero ingannato; ma le grandi ombre grigie avanzavano inesorabili. Si udiva un rumore, come il fruscio del vento in un mare di foglie."

Esistono gli alberi, esistono gli Ent, esistono alberi che vanno risvegliandosi e comunicano con gli Ent muovendo le fronde, esistono gli Ent che vanno alberizzandosi fino a vivere immobili nei boschi; e poi ci sono gli Ucorni:


ovvero Ent quasi trasformati in alberi, almeno all'apparenza (e di cui gli Ent non amano molto parlare); si possono trovare anche ai bordi o all'interno dei vari boschi, ma abitano più volentieri nelle valli più buie. E sono tanti.
"Una grande poptenza è latente in loro, e sembrerebbero capaci di avvilupparsi nelle ombre: è difficile vedere i loro movimenti. Eppure si muovono. E se sono incolleriti avanzano assai veloci. Mentre tranquillo guardi il cielo o ascolti il sussurro del vento, ti può capitare improvvisamente di trovarti in mezzo a un bosco, circondato da grandi alberi. Hanno ancora la voce e sanno parlare con gli Ent - è per questo motivo che li chiamano Ucorni - ma sono diventati strani e selvaggi. Pericolosi. Sarei terrorizzato se li incontrassi da solo, senza la compagnia di veri Ent che li sorveglino" spiega Merry.
Gli Ucorni si muovono in fretta, soprattutto al buio, scricchiolando e frusciando. Circondano Isengard (che distruggono in poche ore) e pochi giorni dopo circondano anche il Fosso di Helm, dove ingoiano migliaia di orchetti terrorizzati per non risputarli mai più, né vivi né morti - nemmeno Gandalf sa esattamente che cosa gli fanno, ma soprattutto evita di approfondire la questione.

Conosciamo storie di boschi che si muovono? Sì, almeno una è abbastanza conosciuta: quella della foresta di Birnam nel Macbeth di Shakespeare; è infatti stabilito dal destino che Macbeth non sia sconfitto fino al giorno in cui la foresta di Birnam gli  muoverà incontro, e nessun nato di donna potrà ucciderlo. Entrambe le profezie sono aggirate dal Grande Bardo con degli espedienti: l'uccisore di Macbeth, Macduff, è stato tratto dal grembo materno con una specie di taglio cesareo, e la foresta di Birnam contribuisce generosamente con le sue fronde a mascherare un esercito di soldati che si avanzano, ognuno nascosto da un ramo. Pare che Tolkien abbia molto disapprovato questo modo sciatto di liquidare una profezia, e che abbia inserito l'episodio degli Ucorni (nonché l'uccisione del re stregone di Angmar ad opera di un Mezzuomo e di una donna) per togliersi la soddisfazione di dimostrarew che si poteva fare ben di meglio - o che comunque si sia divertito a rielaborare il tema in modo più completo.

Fangorn è dunque il bosco antico e misterioso per eccellenza, nonché una bellissima impersonificazione della vecchiaia che porta con sé la saggezza; ma è anche un bosco in declino, perché gli Ent ormai sono rimasti in pochi, e la loro sorte sembra quella di addormentarsi in mezzo ai boschi mescolandosi con gli alberi. Anche qui, riusciamo a dare un ultimo fuggevole sguardo a un mondo che va estinguendosi e rimane la curiosità di conoscere qualcosa dei tempi passati, quando gli Ent erano giovani e meno rassegnati e il mondo era ancora degli alberi.

*la mitologia classica praticamente non parla d'altro: praticamente non c'è un erba né un fiume né un albero né un torrente che siano stati semplicemente creati così come sono.
**come mai non ne hanno più sarà argomento del prossimo post.

sabato 7 marzo 2015

Cita-un-libro - #ioleggoperché - 4

La settimana volge al termine, dopo che molta acqua e neve è passata sotto i ponti e, qua in Toscana, molto vento è passato sui tetti e sopra e sotto agli alberi. Ma stasera è una serata tranquilla ed è venuto il momento di tirare le fila.
Alla terza sessione hanno partecipato 
(mi auguro con tutto il cuore di non aver saltato nessuno perché davvero non so come potrei scusarmi in quel caso - anche se naturalmente, dopo aver passato anni a leggere vite di eremiti e penitenti, qualche idea pensandoci bene riuscirei a farmela venire)
e lo so che si dice sempre così, ma davvero non è stato facile scegliere e per due giorni sono andata elaborando ben cinque diverse terzine variamente rimaneggiate a seconda del tema, della curiosità che mi ispiravano, della preferenza per gli autori citati, dell'originalità e dell'interesse per gli argomenti trattati.
Alla fine, per il terzo posto, è stata la curiosità che mi ha guidato verso la  citazione scelta da Bridigala: tanti elementi raccolti con cura in un unica frase e l'entrata in scena del primo cadavere scodellata in fondo, quasi per caso. E adesso si era impiccato. Perché, quando, dove, ha lasciato un biglietto? Fa venire voglia di sentire il seguito della storia - o almeno, a me l'ha fatta venire.
Il secondo posto lo assegno a Il gonnellino di Eta Beta per il fascino della scena, con quei bambini che si addormentano con gentilezza per non disturbare e gli ascoltatori che, in qualche caso, perfino capiscono chi sta parlando. Non solo la scena è descritta bene ma ha una sua bellezza, riposante ma piena di energia.
La prima posizione però l'ho scelta guidata dal mio cuore di dama hejan: la crudeltà di Aprile, un mese così luminoso e drammaticamente vivo contrapposta all'azione protettiva e riparatrice dell'inverno, con la sua neve così piena di gentile oblio, che copre e livella e smorza.
Ed è ad Aliceland che passo il testimone dopo aver ricordato il regolamento attualmente in vigore per la quarta sessione, che è preso dal blog della povna, ideatrice del gioco:

1. La domenica, tra le 0.00 e le 23.59 si va sul wall di #ioleggoperché, si sceglie un post-it di citazione e si pubblica sul proprio blog, inserendo nel post il link al portale di #ioleggoperché;
2. Si segnala la pubblicazione sul post del giudice;
3. Durante la settimana si partecipa, se si vuole, alla discussione che (auspicabilmente) da quelle citazioni sarà indotta;
4. Il sabato sera o la domenica successiva, a scelta, il giudice, insieme alla nuova citazione, pubblicherà la classifica delle prime tre citazioni, motivandole;
5. Il giudice stesso passerà dal blog della citazione vincitrice a lasciare il testimone; per far ricominciare il gioco;
6. Il nuovo giudice pubblicherà la sua citazione e il suo post, assegnando eventualmente un tema per le nuove citazioni settimanali;
7. I giocatori possono anche decidere di non seguire il tema: saranno ugualmente partecipanti a Cita-un-libro, ma non potranno concorrere alla vittoria della settimana.

Ed ecco la prima citazione della quarta sessione di Cita-un-libro (gioco collegato a Io leggo perché e alla suo social wall dove chiunque può mettere le sue citazioni preferite) ovvero la mia, svincolata per diritto di giudice dal tema che Aliceland sceglierà (o non sceglierà).
Questa settimana ho scelto un passo dal bellissimo libretto del Falstaff scritto da Arrigo Boito, che traduce fedelmente un passo de Le allegre comari di Windsor  di Shakespeare che a sua volta fa riferimento ad una delle Metamorfosi di Ovidio (ma il mito di Europa è citato anche da molti scrittori greci); insomma, una citazione al cubo che coinvolge Italia, Inghilterra, Impero Romano e Grecia (più Creta, che al tempo era uno stato a sé). Molto musicale, soprattutto.


Falstaff, vestito da Nero Cacciatore (una figura demoniaca legata ad una leggenda ripresa dalla tradizione celtica) aspetta Alice Ford nella notte, piuttosto spaventato. Lo conforta il ricordo di Giove che, pure lui, per conquistare l'amore di Europa si trasformò in toro e come Falstaff accettò di portare corna: dunque portare corna e travestirsi da (o trasformarsi in) bestia per sedurre una bella donna non è indecoroso nemmeno per un cavaliere inglese, se perfino il più grande degli dei l'ha fatto.
(Qui una bella versione cantata, dove Falstaff è il compianto Fischer-Dieskau).