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domenica 13 agosto 2023

La censura dei cartoni animati come forma di elementare sopravvivenza (Che strazio, questi finali. Ma dobbiamo proprio trasmetterli?)

Alcor-Rio-Koji, il ragazzo dai molti nomi
Qualche anno fa dedicai un post alla deplorevole vicenda delle censure che Mediaset applicò sistematicamente ai cartoni animati giapponesi negli anni 90, e in quel post proclamavo con gran convinzione che nella prima ondata che arrivò sui nostri schermi alla fine degli anni 70 non c'erano state censure, anche se a volte i dialoghi erano tradotti male.
Non è del tutto esatto - o per meglio dire ho scritto una grandissima stupidaggine. Ad assestarmi infine su questa elementare constatazione rimettendo alfine insieme le decine e decine di piccoli e insignificanti errorucci che mi ero via via resa conto che c'erano negli adattamenti (e che spesso e volentieri sono in realtà licenze e aggiustamenti di dimensioni piramidali) è stata la frequentazione del bel canale Il tempo dei cartoni, dedicato appunto all'animazione giapponese, dove l'autrice non manca mai di affrontare le... ehm... varianti che i suddetti han subito in Italia.
Insomma, di interventi ce ne sono stati parecchi fin dalle primissime serie arrivate alla fine degli anni Settanta e le cause sono state molto varie, ma non per questo meno deprecabili.
C'erano stati prima di tutto degli errori dovuti a ignoranza. Il caso più famoso è quello di Rio-Koji-Alcor. 
Come non è ancora molto noto al di fuori della larga cerchia degli appassionati, nell'universo di Go Nagai Mazinga Z, Goldrake e il Grande Mazinger sono tasselli di una sola, grande vicenda che è proseguita anche dopo con film, episodi vari e quant'altro. Di ciò i vari addetti ai lavori italiani non avevano idea quando comprarono i diritti delle serie, e così si ritrovarono con tre ragazzi davvero molto simili tra loro che in realtà erano sempre e soltanto Koji Kabuto. 
Partiamo dalla prima serie - che in realtà in Giappone non era affatto la prima, e venne da noi ripresa adattano l'adattamento francese, che già ci aveva messo del suo - ovvero Goldrake.
Il nostro Goldrake era stato chiamato Grendizer dai giapponesi (non so perché e nemmeno voglio saperlo). I francesi, dio solo sa perché, lo chiamarono Goldoràk, rigorosamente con l'accento sull'ultima sillaba. Da noi fu deciso di chiamarlo Goldrake, che era un nome che non gettò il minimo sospetto in alcuno spettatore: chiamare sia l'astronave che il megarobot di turno Drago d'oro sembrava perfettamente plausibile, e dava senz'altro l'idea di qualcosa di potente e destinato a trionfare sempre e comunque.
Nella serie del Drago d'Oro c'era anche, a fianco del principe di Fleed che aveva portato il drago in questione sulla Terra e lo usava per difenderci dai perfidi veghiani invasori, un bel ragazzo che i francesi avevano chiamato Alcòr e che noi italianizzammo in Alcor. Costui in realtà si chiamava Koji Kabuto e all'epoca era già famosissimo (in Giappone) per aver combattuto a bordo di Mazinga Z per difendere la Terra da Mikenes, altra popolazione venuta dallo spazio per conquistare la Terra; e vabbé, gli intrecci di Nagai erano un pochino monotoni ma non stiamo a guardare il capello.
Quando venne adattato Mazinga Z, che in Italia venne presentato come una serie del tutto indipendente, si decise - di nuovo dio solo sa perché - di cambiare il nome del pilota di Mazinga da Koji in Rio Kabuto. Nessuno, credo, si meravigliò molto della somiglianza con Alcor, anche perché in Italia stavano piovendo robot di vario tipo ma tutti della Toei Animation e tutti partoriti da Nagai, e i personaggi tendevano a somigliarsi parecchio tra loro, in particolare per delle pettinature piuttosto curiose dove i capelli stavano spesso orientati da una parte e puntavano verso l'alto sfidando la legge di gravità.
Toccò infine al Grande Mazinger, dove Koji fa una comparsata nelle ultime puntate e dove stranamente fu deciso di tenergli il nome originale. 
La notizia che si trattava di un unico protagonista (che non soffriva nemmeno di particolari crisi di identità) cominciò a trapelare diversi anni dopo, via via che le conoscenze su quel misterioso universo della cultura giapponese si andavano ampliando. 
Chi aveva importato quelle serie era rimasto affascinato da quei bei disegni colorati, dall'idea che le armi venissero evocate chiamandole a gran voce al momento di usarle (Lame rotanti!) e dai variegati mostri contro cui c'era da combattere. Nessuno, immagino, al momento si preoccupò dei finali. C'era un invasore dallo spazio da combattere, giusto? Dopo un tot di episodi spesso autoconclusivi gli invasori sarebbero stati sconfitti, giusto? E alla fine tutti sarebbero stati felici e contenti, come da prassi consolidata in questo tipo di storie di avventura. Dove poteva mai essere il problema?
Francamente non lo so, ma è un dato di fatto che l'animazione giapponese vanta ben pochi finali che abbiano un minimo di senso ai nostri occhi occidentali. Nel caso dei Mazinga per esempio i nemici vengono sconfitti, irrimediabilmente sconfitti. E basta, si abbassa il bandone e si va a casa - per le serie che si basano su invasioni aliene in effetti era il finale più consueto e di cosa fanno dopo i vari personaggi, nemici compresi,  nessuno ci informa; un gran riserbo cala inoltre sulle varie storie d'amore che erano state più che abbondantemente prima accennate e poi ben coltivate nel corso dei vari episodi. Niente, lo spettatore resta a bocca asciutta.
Nel caso di Goldrake la cosa fu piuttosto surreale: i veghiani sono sconfitti e nel frattempo ad Actarus è arrivata la notizia che il pianeta Fleed, di cui un tempo era principe e da cui era fortunosamente fuggito a bordo del Goldrake, la vita è di nuovo possibile. Così Actarus e la sorella Maria ritornano sul pianeta per ripopolarlo.
"E come lo ripopolano?" fu la domanda che ci facemmo tutti.
La risposta più immediata lasciava perplessi: sì, in teoria dandosi parecchio da fare... ma Actarus e Maria erano fratello e sorella, non era una soluzione un po' estrema e geneticamente discutibile?
Venne poi spiegato (molto, molto tempo dopo) che la real coppia di fratelli sarebbe stata raggiunta dai numerosi fleediani che erano riusciti a fuggire e si erano rifugiati su altri pianeti. La popolazione di Fleed si sarebbe dunque riformata, sulla base di un patrimonio genetico abbastanza vario; peccato che di tutta questa gente fuggita su altri pianeti nessuno avesse mai sentito parlare: Actarus era partito su Goldrake, che era tra l'altro anche una eccellente astronave ma gli altri come avevano viaggiato, in monopattino? Per quel che se ne era sempre saputo, Fleed era ormai un pianeta irrimediabilmente rovinato dalle radiazioni e tutti gli abitanti erano morti.
Ai nostri occhi c'era poi una questione ben più importante: i due fratelli si erano, per così dire, rifatti una vita sulla Terra. Sin dalle prime puntate Actarus aveva fatto coppia fissa con Venusia, mentre quando era arrivata sua sorella Maria, Alcor dai mille nomi aveva avviato con lei qualcosa di molto simile a una storia d'amore. Ma i due terrestri restarono sulla terra e non si accennò nemmen di lontano alla possibilità che potessero partire con i due principi di Fleed. L'addio tra i quattro è molto struggente, Alcor lancia un mazzo di rose rosse a Maria con una bella acrobazia aerea e... boh?
(d'altra parte in Mazinga Z Koji-Rio aveva avviato una storia con Sayaka, la qual storia era rimasta totalmente confinata in quella serie. Un po' più di considerazione era stata data alla coppia Tetsuya-Jun nel Grande Mazinger, e i due avevano perfino avuto l'occasione, in un film successivo, di mostrare allo spettatore i figli frutto della loro felice unione).
Già che ci sono, prima di continuare a parlare dei finali aggiungo che col tempo e la pazienza è risultato che praticamente tutte le serie arrivate in Italia nei primi anni vennero trasmesse incomplete: mancavano due, tre, cinque... addirittura più di quaranta episodi, nel caso di Mazinga Z, e il motivo spesso e volentieri non si capisce ma non è del tutto impossibile che c'entri la famosa delega in bianco citata da Valeri Manera molti anni dopo. Personalmente ricordo di aver beccato una puntata di Capitan Harlock a me del tutto sconosciuta sulla televisione francese. Il francese non lo conosco, ma non ebbi difficoltà a venire a capo del titolo Le complexe d'Oedipe e la vicenda si seguiva facilità: una mazoniana aveva assunto le sembianze e la voce della defunta madre di Tadashi, che aveva perciò grosse difficoltà ad affrontarla. Alla fine però riesce a spararle addosso e Harlock si congratula con lui per essere riuscito a superare il condizionamento. La TV francese, come ho detto, aveva trasmesso la puntata senza farsi particolari problemi, ma si sa che in Italia la mamma è sempre la mamma.
L'ignoranza degli spettatori salvò gli adattatori da reclami e lamentele, ma in tanti notammo che a volte in quelle storie c'erano misteriose incongruenze, e che i dialoghi qualche volta erano proprio strani - cose che succedono, quando traduci male.
Il caso di una serie che veniva trasmessa regolarmente dall'inizio alla fine era piuttosto raro e perfino la RAI si rifugiava dietro lo scudo di "Prima serie" "Seconda serie" "Terza serie ma se volete vedere il finale vi riguardate tutto dal primo episodio". Per giunta erano gli anni eroici delle telelibere, dette anche "emittenti locali". A Firenze avevamo la gloriosa Tele Libera Firenze che di tendenza trasmetteva una serie cinque giorni a settimana, a orario fisso, dal primo episodio all'ultimo e qualche replica nel fine settimana, ma appena si usciva da quel cerchio incantato ogni serie si incartava in strani loop dove solo un gruppo di puntate veniva trasmesso e poi ritrasmesso e poi ancora ritrasmesso e dopo qualche tempo (mesi, ma anche anni) ritrovavi la serie su una diversa emittente con un diverso gruppo di episodi. Facevo fatica a capirci qualcosa anch'io che ero ormai al triennio delle superiori, mi figuro i bambini. 
Tutto ciò non era comunque da imputarsi in alcun modo agli adattatori, ma solo alla disorganizzazione di queste emittenti ancora implumi che infatti vennero pian piano assorbite nei circuiti della Fininvest.

I finali si rivelarono comunque un punto assai critico: tanto per cominciare per molte serie il finale non veniva trasmesso e in qualche caso lo si conobbe solo quando arrivarono le edizioni integrali su DVD, molti anni dopo - e a quel punto si capì anche perché a suo tempo non erano stati trasmessi.

Prima di tutto: nella cultura occidentale romanzi, film e sceneggiati specificamente destinati a bambini o ad adolescenti finivano quasi sempre bene - le uniche eccezioni che mi vengono in mente sono Incompreso e I ragazzi della via Pàl. Il giovane spettatore arrivava dunque al finale convinto che tutto si sarebbe risolto a tarallucci e Coca Cola. Il giovane spettatore giapponese, evidentemente, dava il lieto fine molto meno per scontato e si adattava a qualsiasi soluzione gli avessero allestito gli sceneggiatori. 
Qualche volta, come ho detto, il finale era semplicemente il protagonista che diceva "Abbiamo sconfitto gli invasori!" oppure, nel caso delle cosiddette maghette "Oh, i miei poteri sono esauriti, devo tornare sul pianeta della magia", e questo era quanto. In questi casi a volte c'era una puntata finale versione gadget con un riassunto della vicenda. Non so che effetto avesse sui giovani spettatori  giapponesi, ma per lo spettatore occidentale risultava piuttosto frustrante perché non gli forniva alcun nuovo dettaglio.
Tutt'altro che raro era poi il caso del protagonista che dopo l'ultima vittoria... moriva. Così. La morte, vista in quei casi come la degna conclusione e apoteosi di tutta la vicenda lasciava spiazzati prima di tutto gli adattatori, e c'era allora il problema, piuttosto serio, di passare quel finale a una torma di bambini che da sempre era abituata al lieto fine. Il caso più famoso credo sia stato Rocky Joe, ma negli anime sportivi se ne contano diversi. A volte, come in Baldios, il finale era decisamente catastrofico e si prevedeva una pessima fine per la Terra anche dopo aver sconfitto gli alieni (che erano in realtà i nostri discendenti). Anche gli anime a sfondo storico, come Lady Oscar avevano una certa qual tendenza a chiudere la vicenda facendo crepare tutti i protagonisti - e nel caso appunto di Lady Oscar la cosa risultò particolarmente dolorosa perché proprio due puntate prima della fine tutto sembravano finalmente mettersi bene per la coppia di innamorati - e non a caso la prima volta che la serie fu trasmessa si fermarono proprio in quel punto. Quando arrivò la nuova serie, risultò composta di appunto due episodi due, uno che si chiudeva con la straziante morte di André e l'ultimo dove moriva anche Oscar - più l'avvertenza finale che sarebbero morti anche Luigi XVI e Maria Antonietta, ma  quello fu un trauma minore perché la maggior parte degli spettatori era preparata a ciò grazie ai manuali di storia letti alla scuola media.
Le varie serie di Gundam, a quanto ho capito, finivano di punto in bianco, senza darci notizie sui vari protagonisti che rimbalzavano da una serie all'altra infilando una serie di vicende una più lugubre dell'altra (comunque le serie di Gundam erano tutte estremamente lugubri dall'inizio alla fine, che avessero un finale tutt'altro che foriero di felicità per tutti ci stava e per lo spettatore era più facile adattarsi).
C'erano anche i cosiddetti finali aperti: la vicenda si ferma a un certo punto e cosa succede dopo non si sa. Qualche volta il finale vero e proprio è confezionato in appositi episodi destinati alla vendita (caso classico Lamù).
Per lo spettatore occidentale la cosa era piuttosto destabilizzante: segui un personaggio per svariate decine di episodi, dove il personaggio in questione affronta le più varie traversine uscendone sempre vittorioso... e poi la storia si chiude lasciandolo in mezzo al guado. Oppure lo vedi morire. Oppure gli innamorati, dopo essersi rincorsi per centonovantasette puntate, si ritrovano improvvisamente separati da qualche impedimento sorto due puntate prima. Perché sì, uno dei problemi più seri risultarono proprio i finali degli anime a derivazione shojo, quelli destinati a un pubblico in prevalenza femminile e incentrati su una storia d'amore... e che spesso sono senza lieto fine. Spesso, ma non sempre. Anche qui, gli spettatori italiani non erano per niente preparati. 
Anche qui c'era un equivoco di partenza dovuto alle nostre scarse conoscenze della produzione giapponese: le storie shojo non sono storie romantiche destinate a chiudersi con la felice unione delle coppie che han popolato la vicenda, bensì storie ad alto, altissimo contenuto emotivo, a volte davvero strazianti, e possono finire malissimo - come appunto nel caso di Lady Oscar - oppure così-così, con le coppie che non si formano oppure che si dividono giusto nel finale. Qualche volta, vivaddio, capitava anche che finissero bene.
Gli adattatori coniugarono dunque il verbo arrangiarsi, ritoccando i finali, seminando qua e là frasette speranzose sulla felice futura unione delle coppie, sorvolando garbatamente su chi moriva, magari con l'aiuto di qualche fermo immagine (come nel caso di Rocky Joe).
Ad uno di questi casi di finale, diciamo così, ritoccato per occidentalizzarlo dedicherò il mio prossimo post.

venerdì 28 luglio 2023

La divina commedia - Go Nagai


Verso Novembre, quando stavamo ancora vagando per la selva oscura con risultati tutt'altro che commendevoli, Odisseo arrivò una mattina recando seco un enorme tomo. Quando entrai in classe lo vidi in mezzo a un capannello che sfogliava il tomo con grande interesse.
"Prof, ho comprato la versione manga della Commedia" mi annunciò trionfante.
I miei occhi diventarono grandi come tazze da tè.
"Una versione manga della Commedia?" chiesi interdetta.  Ed ero interdetta, sia perché non avevo mai sentito nemmeno vagamente dire che esistesse una roba del genere, con tutte le pagine specializzate che seguivo, sia perché trovavo sbalorditivo che a un qualsivoglia mangaka fosse mai venuto in mente di disegnare la Commedia. D'accordo, Dante è abbastanza famoso anche all'estero, ma insomma era una roba davvero molto occidentale.
Quando poi Odisseo mi spiegò che l'autore era Go Nagai miei occhi diventarono grandi come ruote da mulino.
Nagai da noi è decisamente famoso: dai suoi manga sono state tirate fuori le grandi serie della prima invasione dei cartoni animati giapponesi, ovvero Mazinga, il Grande Mazinga, Jeeg e Goldrake. Ma pur essendo universalmente molto apprezzato (non da me: lo trovavo troppo scuro nel tratto, e infatti di lui non ho niente in casa. Ma credo che presto rimedierò appunto con la sua Divina Commedia) non ce lo vedevo a entusiasmarsi per...
Evidentemente sbagliavo.
Faticosamente presi l'enorme (e pesantissimo) tomo e lo sfogliai. 
"C'è dentro tutta la storia, dall'inizio alla fine" mi spiegò Odisseo.
Ma poi, continuavo a pensare dietro ai miei occhi grandi come ruote da mulino, com'era possibile che non ne avessi mai sentito parlare? C'è stato l'anno di Dante, ci hanno fatto verdi a righe rosa con Dante e ancora Dante e poi Dante, ma forse adesso dovremmo anche parlare un po' di Dante. Avevano ristampato Dante in tutti i modi, possibile che non mi fosse giunta nemmeno una vaga voce...
Evidentemente era possibile. 
Lo sfogliai distrattamente, mi informai sul prezzo (30 euro, praticamente un regalo) e stabilii che quella roba doveva arrivare al più presto nella biblioteca di scuola.
Senza il prezioso apporto di Odisseo avrei continuato a non sapere niente della versione della Commedia di Nagai, perché la pregiata libreria che organizza la Mostra del Libro non ci pensò nemmeno a portarlo. Glielo chiesi io. Con mio disappunto non se lo filò nessuno nei giorni della Mostra, ma lo misi comunque da parte tra gli omaggi e ancor prima di catalogarlo me lo portai a casa per leggerlo con cura. Quella che segue è la presentazione del pesantissimo libro. Un vero mattone, garantisco (ma ben rilegato). 

A un certo punto della sua vita Go Nagai incrociò la Divina Commedia illustrata da Gustave Doré. Come già tanti prima di lui ne rimase molto affascinato, e ne trasse spunto per un paio di opere: prima Mao Dante*, poi Devilman, entrambe degli inizi degli anni 70.
Ma venne il giorno, più di vent'anni dopo, in cui decise di disegnare proprio la Divina Commedia, quella dove un tal Dante si ritrovò vincitore di un viaggio premio nei i tre regni dell'aldilà. All'apparenza l'argomento era piuttosto estraneo alle storie dove grandi robot combattevano contro invasori dal passato e dal presente - ma chi ha frequentato anche solo la regina Himika e il suo successore, l'Imperatore delle Tenebre, sa che Nagai si è sempre occupato volentieri di demoni più o meno perversi e sempre da un punto di vista piuttosto partecipe. Ebbene sì, i demoni gli piacciono, e li disegna molto volentieri (in modo davvero efficace, tra l'altro).
La Commedia è un testo molto particolare e, verrebbe da pensare**, poco esportabile: una roba terribilmente cristiana, secondo una religione che si basa su un impianto completamente diverso dalle religioni orientali. Tuttavia Nagai decise di disegnarla e, senza una particolare preparazione teologica e con nozioni relativamente scarse sul medioevo italiano decise di raccontare quella storia, proprio quella.
Ne è venuto fuori un racconto che forse Dante avrebbe seguito con una certa sorpresa, ma nemmeno tanto. Strano ma vero, i concetti base ci sono. Quasi tutti. Magari un po' rielaborati, alla luce di una personalità davvero differente.
Sul piano grafico Dante (intendo proprio il personaggio di Dante) non è molto sorprendente: si sa che a un certo punto qualcuno fece un ritratto di Dante e a quel ritratto Dante si trovò inchiodato per l'eternità.
Questo a sinistra è il ritratto più famoso, di Botticelli (1495) e deriva in parte da un altro ritratto fatto per il Duomo di Firenze da Domenico di Michelino (1465):

 

Da sempre e per sempre Dante per noi è così: perennemente vestito di rosso, col cappuccio,  una ghirlanda di alloro in testa e l'aria fra l'irritato e lo scocciato. Che viene da domandarsi: ma sul serio andava in giro con una ghirlanda di alloro in testa? Davvero non gli capitava mai di portare vestiti di un altro colore? Non sorrideva mai? Proprio mai? E sempre il cappuccio, sempre, sempre, sempre?
D'altra parte dobbiamo pure ammettere che vedere raffigurato Dante con i capelli al vento e con un sorriso smagliante ci lascerebbe tutti un po' traumatizzati. E così Go Nagai - che del resto non è uso a raffigurare personaggi sorridenti, con l'aria allegra e vestiti pastello - ci offre un Dante perfettamente intonato alla nostra immaginazione. Lo fa più giovane, però, con lo sguardo molto intenso e, spesso, con l'espressione sconvolta (considerando quel che vede, ci può  stare). Del resto, anche Doré lo disegnava così, e dalle immagini di Doré Nagai prende diverse tavole. Belle scure, come piace a lui, con tonnellate di linee cinetiche e molte ombre. Insomma, col suo stile.
La prima cosa che mi ha colpito però è stato il panorama di Firenze, con una bella cupola di Brunelleschi ben stagliata sullo sfondo.
La cupola del Brunelleschi Dante non l'ha mai vista, perché è arrivata diverse generazioni dopo di lui. Probabilmente Nagai ha preso il panorama di Firenze dal secondo ritratto - che sta appunto dentro il Duomo, quello della cupola, e dunque è relativamente normale che uno dei più tipici simboli di Firenze venga citato, a costo di confondere un po' le date.
La cupola di Firenze con Dante che la guarda, lo confesso, mi ha divertito molto; che un giapponese non si sia preoccupato di documentarsi più di tanto in proposito mi sembra comunque più che scusabile.

La Divina Commedia di Nagai è un tomo enorme, spesso cinque centimetri e con diverse centinaia di pagine, 24x17 cm. Non un tascabile di quelli che puoi farti scivolare in borsetta per leggerlo in treno. Mi farebbe piacere anche dire quante sono le pagine, ma per saperlo dovrei contarle una per una: perché in tutto il libro e nemmeno nell'indice c'è un numero che sia uno***. Dallo spessore però garantisco che l'Inferno occupa più di due terzi, il Purgatorio prende a malapena un sesto e per il Paradiso restano gli spiccioli. Che Nagai traesse assai maggiore ispirazione dall'Inferno non mi sorprende, anzi avrei trovato strano il contrario. D'altra parte, per quanto Dante avesse costruito tre cantiche del tutto simmetriche e di lunghezza praticamente identica, nell'immaginario collettivo la Commedia è soprattutto l'Inferno: è più facile da seguire, ci sono un sacco di effetti speciali e il quadro è molto più animato. Io, che di natura non amo molto né le storie di avventura né le tinte fosche preferisco di gran lunga il Purgatorio e mi compiaccio molto delle cascate di luce che adornano il Paradiso, anche se non di rado mi accascio durante certe raffinate disquisizioni teologiche che riesco a seguire solo fino a un certo punto.
Ci sono poi delle differenze. Prima di tutto Beatrice - la più deliziosa e simpatica Beatrice che abbia mai visto. Nagai, dopo che Virgilio l'ha nominata spiegando perché è venuto ad aiutare Dante, parla di lei e spiega al lettore chi è - in pratica riassume la Vita Nova. Non solo, riesce anche a spiegare molto bene l'essenza della storia d'amore tra i due, che è decisamente particolare. Come ho detto, Beatrice è simpatica e gentile: quando ritrova Dante nel paradiso terrestre non gli fa una drammatica piazzata come avviene alla fine del Purgatorio, gli sorride. E sorride anche Dante. Ebbene sì, abbiamo anche delle immagini dove Dante sorride di gioia. Secondo me vale la pena di comprare il volume anche solo per quello.

Provo adesso a scendere più nel dettaglio.
Prima di tutto una nota di demerito: c'è sì un indice. Senza il numero delle pagine, e vabbé, tanto le pagine non sono comunque numerate - che non mi sembra poi questa bella cosa.
Ma non c'è un indice dei nomi. Come nel poema, Dante si ferma ogni tanto a parlare con qualche anima. Alcune sono famose di per sé, altre, come Pier delle Vigne, sono famose principalmente perché Dante ne ha parlato - anche se ne ha parlato perché ai suoi tempi erano molto famose. Perché il lettore non deve avere una lista dei nomi, e magari anche dei personaggi che ci sono e parlano ma il cui nome è stato tralasciato perché tanto ai giapponesi, o almeno a Nagai, non interessava dirlo? Alcune anime sono anonime ma un nome nel poema lo avevano. Altre hanno nome, cognome e magari l'autore ne racconta qualcosa, ma dove sono? E naturalmente non ci sono solo le anime, ci sono diavoli, spiriti malvagi e pure spiriti buoni, e ci sono i luoghi: Cocito, Stige, paradiso terrestre. Uno vede subito che non c'è Bertran de Born e non perde tempo a cercarlo. Manca un sacco di gente ed è normale, altrimenti il volume di pagine avrebbe dovuto averne tremila e forse Nagai starebbe ancora lì a disegnare per finirlo.
Non viene sforbiciata alcuna delle minuziose classificazioni in cui tanto Dante si diletta, e questo in parte spiega perché l'inferno, che è pieno di gironi, cerchi, sottogironi, bolge e non so che altro prende tanto più spazio. No, un momento: nel paradiso vengono indicati solo i cieli, con un vago accenno alla rosa mistica (che però non viene mai nominata), e della Madonna non si fa cenno. Nemmeno di Gesù, ora che ci penso. Il futuro esilio viene gratificato di un solo, piccolo accenno, laddove nel testo originale ogni cinquanta versi Dante trova qualcuno che glielo predice. La parte politica è completamente cassata, come buona parte delle, ehm, spiegazioni scientifiche. E anche le parti dove si parla della redenzione. E', come dire, un aspetto del tutto secondario della questione su cui Nagai non ha ritenuto indispensabile soffermarsi.
In realtà Virgilio dichiara di non sapere cosa succederà dopo il giudizio finale, quando le anime si ricongiungeranno ai loro corpi, ma ritiene probabile che riavere il corpo dovrebbe comunque costituire un miglioramento per loro. In sostanza, l'autore lascia capire (ma non dice esplicitamente) che le pene dell'inferno potrebbero non essere eterne, almeno non con quella intensità.
Virgilio, a proposito, sta nel purgatorio (ma non viene precisato in quale balza del monte) e non nel limbo, che pure esiste e viene rapidamente descritto.
Abbiamo anche una scena aggiunta di tutto punto: quando arrivano da Minosse c'è una donna, molto perbenino, che grida e strepita che c'è stato un errore e che lei non ha mai commesso alcun peccato. Lascio immaginare la reazione di Minosse e la fine che farà la poveretta, ma è una scena davvero efficace, e secondo me a Dante non sarebbe affatto dispiaciuta perché spiega molto bene perché si finisce all'inferno.
Non è l'unico cambiamento: per esempio nel girone dei golosi la pioggia dissolve i corpi e quindi la schifida poltiglia su cui Dante e Virgilio camminano è formata dai corpi dei dannati, che poi riprenderanno forma per continuare a patire - la cosa impressiona abbastanza Dante, e possiamo capirlo.
Ci sono Paolo e Francesca, naturalmente, e la storia è raccontata con molta cura, anche se è saltata la parte letteraria dove i due innamorati leggono. Molto estesa è anche la scena con Brunetto Latini.
Ulisse non parla, anche se Virgilio racconta nei dettagli la storia dell'inganno del cavallo. Il conte Ugolino invece racconta nel dettaglio tutta la sua storia e anche se non racconta esplicitamente di essersi mangiato i figli, si capisce comunque che c'è qualcosa di cui rifiuta di parlare - il tutto è davvero straziante e molto efficace.
Molto forte è anche la scena della città di Dite, avvincente come solo la miglior fantasy sa essere (e io l'ho vista sempre come una scena fantasy, in effetti).
Tra un girone e l'altro Dante e Virgilio parlano molto: del peccato, del peso del peccato, di ciò che porta l'uomo verso il peccato.
Nel purgatorio i due parlano ancora di più, soprattutto del libero arbitrio, del destino dell'uomo, del senso della vita e di tante altre cose molto interessanti, a volte in un modo che mi suona strano - certe discussioni mi suonano un po' diverse da come Dante le ha scritte, ma suonano molto interessanti. Non so se Dante avrebbe sottoscritto tutto, ma certo avrebbe ammesso che non si tratta di discussioni superficiali.
Dante si arrampica su per la montagna, con le sue sette P sulla fronte che via via scompaiono. C'è molta attenzione ai colori, e vengono spiegati con cura sia i colori dei tre gradini della scala che porta all'angelo che incide le P (che indicano la trasmigrazione alchemica dell'anima durante la confessione) sia quelli delle vesti delle fanciulle del paradiso terrestre, mantate nei tre colori di bianco, rosso e verde (che sono le tre virtù teologali, dove la carità, molto correttamente, è tradotta con "amore"). Piuttosto interessante dato che, a parte le due pagine introduttive, il manga è completamente in bianco e nero. Viene descritto molto bene anche il corteo che Dante incrocia e il suo significato.
Con grande dispiacere da parte mia Virgilio non incorona Dante in qualità di anima ormai padrona di sé stessa, ma il mancato addio (Virgilio sparisce senza dir niente) è molto commovente.
Il paradiso, temo, tranne per le parti con Beatrice, è più che altro un compitino ben fatto ma le tavole finali sono davvero belle e probabilmente sono la cosa più gioiosa che Nagai abbia mai disegnato nella sua lunga carriera.

* Mao Dante non è, come qualcuno potrebbe essere portato forse a pensare, la storia di un gatto di nome Dante, bensì una roba assolutamente demoniaca che racconta le vicende di un demone di nome Dante. Altro non so né bramo sapere.
** o almeno a me è sempre venuto da pensare
** a occhio dovrebbero essere tra le ottocento e le novecento