Goldoni mi è sempre piaciuto, così decisi di dedicargli uno dei "percorsi di lettura" (espressione del significato mai del tutto chiarito, ma insomma noi gli portavamo qualcosa di scritto su un autore e amen) per l'esame di italiano del secondo anno della SSIS.
(commedia di tre atti in prosa scritta in Venezia nell’anno 1750;
prefazione pubblicata alla medesima nel primo tomo
dell’edizione Paperini del 1753)
Siamo nel 1750 e Goldoni descrive la sua riforma come già avvenuta e trionfante in tutti i teatri della penisola, attraverso quella che, per usare le sue parole più che una Commedia, prefazione può dirsi alle mie commedie [...] né altra evvi diversità fra un proemio e questo componimento, se non che nel primo si annoierebbono forse i leggitori più facilmente, e nel secondo vado in parte schivando il tedio col movimento di qualche azione.
A dire il vero il risultato non è un semplice trattato messo in bocca a più personaggi per vivacizzarlo e la naturalezza con la quale i vari argomenti vengono sviluppati in modo chiaro ed efficace nel corso della commedia è davvero notevole.
La trama è semplice: un gruppo di attori prova una commedia, che a sua volta si sviluppa in una vicenda “alta”, dai toni quasi drammatici per il gruppo dei protagonisti borghesi, e in una vicenda “bassa”, decisamente comica e ancora legata ai canoni della Commedia dell’Arte, riservata ai servitori.
L’intreccio “alto” racconta di un Padre (l’intramontabile e onnipresente Pantalon de’ Bisognosi) che corteggia una fanciulla, Rosaura, ignorando che questa si è già promessa al figlio Florindo, il quale a sua volta è combattuto tra la gelosia e l’affetto per il padre. Quando finalmente la verità viene alla luce, il padre si mette da parte e acconsente alle nozze del figlio, ma il sacrificio non avviene senza dolore:
Sì, ben, son un galantomo, son un omo d’onor, voggio ben a sta putta, e voggio far un sforzo per demostrarghe l’amor che ghe porto. Florindo sposerà vostra fia, ma perché vostra fia l’ho vardada con qualche passion, e no me la posso desmentegar, no voggio metterme a rischio, avendola in casa, de viver continuamente a l’inferno. Florindo, fio mio, el Ciel te benediga. Sposa siora Rosaura, che la lo merita, e resta in casa con ela e co so sior pare, fina che vivo mi; e te passerò un onesto e comodo trattamento. Niora, za che no m’avè volesto ben a mi, voggiè ben a mio fio. Trattèlo con amor e con carità, e compatì le debolezze de un povero vecchio, orbà più dal vostro merito che dalle vostre bellezze. Dottor caro, vegnì da mi, che metteremo in carta ogni cossa. Se ve bisogna robba, bezzi, son qua. Spenderò, farò tutto, ma in sta casa no ghe vegno mai più. Oimè! gh’ho el cuor ingropà, me sento che no posso più. (Atto III)
L’intreccio non è nuovo, e i nomi sono rimasti quelli tipici della commedia, ma i sentimenti sono cambiati: il padre benedice la coppia con affetto, provvede alle nozze con generosità, ma la sua sofferenza è autentica, come autentico è l’affetto per Rosaura; né l’uno né l’altro si dissolveranno in due battute com’era buona consuetudine nei finali di teatro comico, e anzi l’autore gli fa trovare una soluzione onorevole e verosimile per sbarcare in qualche modo la situazione: lasciare la casa agli sposi e andarsene. Benedizione sì, soldi sì, quanti ne servono - ma in casa con i due sposi novelli no e poi no, non sarebbe davvero cosa.
Nell’intreccio “basso” troviamo un tipico contrasto tra pretendenti, con i tradizionali nomi delle maschere: il brillante Arlecchino e l’affidabile e solido Brighella si disputano le nozze con la bella Colombina, cameriera di Rosaura (alla fine, sembra di capire, sarà Arlecchino ad avere la meglio, ma il finale resta aperto); l’indecisione di Colombina è autentica, ma già porre il problema come la scelta tra “un marito accorto o un marito ignorante” cambia notevolmente la temperatura emotiva - per non parlare degli argomenti:
COL: Bene, chi di voi mi persuaderà sarà mio marito.
BRIGH: Mi, come omo accorto, sfadigherò, suderò, perché in casa no se manca mai da magnar.
COL: Questo è un buon capitale.
ARL; Mi, como omo ignorante, che no sa far gnente, lasserò che i boni amici porta in casa da magnar e da bever.
COL: Anche così potrebbe andar bene.
BRIGH: Mi, come omo accorto, che sa sostegnir el ponto d’onor, te farò respettar da tutti.
COL: Mi piace.
ARL: Mi, come omo ignorante e pacifico, farò che tutti te voia ben.
COL: Non mi dispiace.
BRIGH: Mi, come omo accorto, regolerò perfettamente la casa.
COL: Buono.
ARL: Mi, come omo ignorante, lasserò che ti la regoli ti.
COL: Meglio.
BRIGH: Se ti vorà divertirte, mi te condurrò da per tutto.
COL: Benissimo.
ARL: Mi, se ti vorrà andar a spasso, te lasserò andar sola dove ti vol.
COL: Ottimamente.
BRIGH: Mi, se vedrò che qualche zerbinotto vegna per insolentarte, lo scazzerò colle brutte.
COL: Bravo.
ARL: Mi, se vedrò qualchedun che te zira dintorno, darò logo alla fortuna.
COL: Bravissimo.
BRIGH: Mi, se troverò qualchedun in casa, el copperò.
ARL: E mi torrò el candelier, e ghe farò lume. (Atto II)
La commedia provata quindi ha una doppia anima e guarda sia verso la “nuova maniera”, sia verso la tradizione, e si presenta come una descrizione della vita di teatro nel momento del passaggio tra la vecchia e la nuova maniera di intendere il teatro comico.
Ogni personaggio ha dovuto o dovrà cambiare il suo modo di lavorare per adattarsi alla “maniera moderna” - e qualcuno, come il Poeta e la Cantatrice, rischia di rimanere stritolato nel passaggio. Qualcun altro, invece, si ritrova a svolgere un lavoro nuovo: il Suggeritore.
A questa maniera moderna gli attori della compagnia hanno imparato ad adattarsi, non senza fatica:
buttemo le burle da banda, e parlemo sul sodo. Le comedie de carattere le ha butà sottossora el nostro mistier. Un povero commediante, che ha fatto el so studio segondo l’arte, e che ha fatto l’uso de dir all’improvviso ben o mal quel che vien, trovandose in necessità de studiar e de dover dir el premedità, se el gh’ha reputazion, bisogna che el ghe pensa, bisogna che el se sfadiga a studiar, e che el trema sempre, ogni volta che se fa una nova commedia, dubitando o de no saverla quanto basta, o de no sostegnir el carattere come xè necessario (Atto I)
ricorda Pantalone al capocomico, spiegandogli le cause della sua (comprensibile) paura.
Il capocomico gli dà ragione: è vero, col nuovo teatro comico si fatica di più, ma si ottiene anche un successo maggiore.
Xè vero; son contentissimo, ma tremo sempre gli risponde Pantalone.
Più avanti Colombina, richiesta di un parere, se chi ha introdotto queste novità nel teatro abbia fatto bene o male, si disimpegna abilmente:
è una quistione che non è per me. Ma però, vedendo che il mondo vi applaudisce, giudico che avrà fatto più bene che male. Vi dico ciò, non ostante che per noi ha fatto male, perché abbiamo da studiare assai più, e per voi ha fatto bene, perché la cassetta vi frutta meglio. (Atto I)
Il nuovo metodo ha anche dei lati positivi, a dire degli stessi attori: quando Brighella scopre che non deve più improvvisare di testa sua con “paragoni” e “allegorie” approva con un lapidario Manco fadiga, e più sanità.
In realtà lo stesso capocomico non è contrario all’improvvisazione, tecnica italiana per eccellenza, e ricorda che ci sono tuttavia de’ personaggi eccellenti che, ad onor dell’Italia e a gloria dell’arte nostra, portano in trionfo con merito e con applauso l’ammirabile prerogativa di parlare “a soggetto”, con non minore eleganza di quello che potesse fare un poeta scrivendo.
All’obiezione del Secondo Amoroso, cioé che le maschere patiscono a dire il premeditato, il capocomico ricorda che se il testo è buono e adatto al personaggio, qualsiasi maschera lo impara volentieri. E d’altra parte al momento le maschere sono ancora importanti e non vanno assolutamente tolte di scena: Guai a noi se facessimo una tal novità: non è ancor tempo di farla ammonisce.
(Eppure, si accorge il lettore, quel tempo non è poi così lontano).
Durante le prove arrivano un Poeta e una Cantatrice per chiedere lavoro alla compagnia. L’uno e l’altra sono legati ai vecchi schemi del teatro comico e verranno respinti su tutta la linea, pur venendo alla fine assunti come attori.
I due, ridotti letteralmente alla fame, approdano alla compagnia come ultima risorsa. Le loro condizioni, svelate a poco a poco, si rifanno ad un’illustre tradizione comica teatrale di affamati e parassiti - tuttavia il loro problema ha una causa moderna.
Per primo il poeta Lelio (molto magro) si presenta alla compagnia per proporre i suoi lavori, ma niente di quel che fa sembra andare bene: dai titoli troppo complicati (Pantalone padre amoroso, con Arlecchino servo fedele, Brighella mezzano per interesse, Ottavio economo in villa e Rosaura delirante per amore), alle protagoniste che dovrebbero uscir di casa e scendere in piazza, per raccontare lì i fatti loro, fino alle scene inverosimili, dove i servi bastonano i padroni.
Alla fine, mentre il poeta declama un inverosimile dialogo in rima tra innamorati, la compagnia si dà alla fuga.
"Ma no sàla che dialoghi, uscite, soliloqui, rimproveri, concetti, disperazion, tirade, le son cosse che no se usan più?” lo rimprovera Brighella prima di spiegargli che oggi si usano solo commedie de carattere, cosa che ha riportato finalmente il teatro comico alla sua antica funzione di correggere i vizi e metter in ridicolo i cattivi costumi. Prontamente allora Lelio offre una sua traduzione da un testo francese, che il capocomico respinge spiegando che
I Francesi nelle loro commedie non si può dire che non abbiano de’ bei caratteri, e ben sostenuti, che non maneggino bene le passioni, e che i loro concetti non siano arguti, spiritosi e brillanti, ma gl’uditori di quel paese si contentano del poco. Un carattere solo basta per sostenere una commedia francese. Intorno ad una sola passione, ben maneggiata e condotta, raggirano una quantità di periodi, i quali colla forza dell’esprimere prendono aria di novità. I nostri Italiani vogliono molto più. Vogliono che il carattere principale sia forte, originale e conosciuto; che quasi tutte le persone, che formano gli episodi, sieno altrettanti caratteri; che l’intreccio sia mediocremente fecondo d’accidenti e di novità. Vogliono la morale, mescolata coi sali e colle facezie. Vogliono il fine inaspettato, ma bene originato dalla condotta della commedia. Vogliono tante infinite cose, che troppo lungo sarebbe il dirle (Atto II)
Dunque solo un italico testo può contentare questo pubblico esigente e raffinato, al quale i tanto rinomati autori francesi hanno ormai poco da dare (d’altronde un savio autore di teatro deve sempre aver cura di blandire il suo pubblico...).
In seguito lo sventurato poeta scopre che è in declino anche la classica unità di scena (di cui peraltro, ricorda il capocomico, Aristotele ha parlato solo per la tragedia, visto che il trattato sulla commedia non ci è pervenuto), molto utile per gli antichi che avevano problemi con i cambi di scena, molto meno per l’epoca moderna, che i cambi di scena li affronta senza problemi. Il concetto di unità di scena non viene in realtà respinto del tutto, solo si raccomanda di osservarlo solo quando l’azione della commedia non ne risulti forzata - che è quasi impossibile con le commedie “di intreccio”.
(Più avanti lo sventurato Poeta apprenderà che anche i precetti oraziani son in declino, e del resto il capocomico è un po’ filologo).
Scoraggiato, il povero Poeta decide di provare il teatro come attore, anche perché comporre sembra diventata un’impresa impossibile: per quel che sento, sono tanti i precetti d’una commedia quante sono, per così dire, le parole che la compongono. L’audizione andrà piuttosto bene anche se, naturalmente, la scelta del testo da lui usato per la prova sarà assai criticata, approfittando dell’occasione anche per fare una tirata sui soliloqui, in base al sensato principio che non è verosimile che un uomo, che parla solo, faccia a se stesso l’istoria de’ suoi amori o de’ suoi accidenti.
Infine, prima di completare la prova, la compagnia riceve una nuova visita: la Virtuosa di Musica, che offre i suoi talenti (a tariffa tutt’altro che modica) per “cantare gli intermezzi”. L’iniziale imbarazzo dei comici, che non sanno come spiegarle che considerano gli intermezzi musicali nel teatro comico alla stregua di anticaglie, viene presto dissolto dalla superbia della Cantatrice (che, spiegherà la donna più avanti, è praticamente un obbligo professionale per un musico).
E’ passato il tempo, signora mia, che la musica si teneva sotto i piedi l’arte comica, proclamano fieramente i comici prima di rifiutare la scortese offerta. Sarà il poeta Lelio, per solidarietà di naufraghi, a portarla a pranzo con la compagnia e a suggerirle di darsi anche lei al teatro di prosa.
Mi lascerò persuadere a far la comica? si domanda la Cantatrice, per poi decidere: Mi regolerò secondo la tavola de’ commedianti. Già, per dirla, è tutto teatro, e di cattiva musica può essere ch’io diventi mediocre comica.