Come tutti gli scolari italiani anch'io ho conosciuto Francesco d'Assisi in tenerissima età attraverso la suggestiva leggenda della conversione del lupo di Gubbio e solo molti anni dopo ho scoperto, con grande dispiacere, che era apocrifa*. Come molti personaggi di enorme popolarità infatti, anche Francesco è famoso soprattutto per quello che non ha fatto e detto, e tra tutte le citazioni che circolano sui social a malapena un paio sono autentiche**, o almeno attestate nelle fonti ufficiali: ma anche se non risulta che abbia addomesticato lupi predatori, mantiene tuttavia un buon numero di frecce al suo arco.
Come tutti gli scolari anch'io in seguito ho approfondito la conoscenza attraverso la lettura del Cantico delle creature, e tanto l'ho apprezzata che nullu scholaro vivente che passa dalle mie mani pò scappare dall'accurata analisi di tal poesia, nonostante da sempre io proclami e dichiari che non faccio letteratura.
Più avanti arrivò il ritratto tanto bello quanto fedele che Dante ne fa fare nel Paradiso a Tommaso d'Aquino. E, come ogni essere vivente, anch'io ho visto il film di Zeffirelli, anche se con scarso entusiasmo la prima volta e con autentica crisi di rigetto la seconda, come andrò a raccontare più avanti.
Io però sono andata anche oltre, nella cinoscenza di questo affascinante personaggio, perché all'università ci ho fatto un corso, dedicato appunto alle fonti francescane, e da allora mi considero una autorità in materia***.
Fu un gran bel corso. Partimmo dal Testamento, continuammo con le due Regole ma approdammo poi non solo alle due biografie ufficiali di Tommaso da Celano e a quella di Bonaventura da Bagnoregio ma anche a un testo meno conosciuto, ovvero gli Scripta Leonis, Rufini e Angeli, opera redatta da tre compagni di Francesco della prima ora al tempo in cui l'ordine era a caccia di memorie e racconti di episodi sconosciuti, allo scopo di redarre una biografia adeguata e completa del loro illustre fondatore. Come molti altri della letteratura latina medievale, gli Scripta all'epoca non avevano una traduzione in italiano, e dovemmo ripiegare, su una edizione inglese con testo a fronte, coniugando così il verbo "arrangiarci" tanto caro a tanti studiosi, medievisti e non.
Il corso si concluse poi con una serata di proiezioni al cinema: partimmo con Zeffirelli per poi vedere lo sconosciutissimo sceneggiato fatto da Liliana Cavani per la televisione italiana e mai trasmesso per motivi che dopo il corso e l'analisi delle fonti più antiche ci fu abbastanza chiaro: infatti era fatto benissimo, con un Lou Castel in stato di grazia, fedelissimo alle fonti e trasmetteva un ritratto di Francesco decisamente meno zuccherato di quello di Zeffirelli. Il passaggio dalla sontuosa fotografia di Frate Sole, sorella Luna**** al bianco e nero un po' smiciato dello sceneggiato televisivo degli anni 60 fu inizialmente traumatico, ma ben presto seguire Francesco nel suo originalissimo percorso interiore ci piacque immensamente. Gli organizzatori della serata non erano riusciti a procurarsi il film di Rossellini e tutto sommato fu un bene perché dopo quei due lunghi film eravamo piuttosto cotti e, dopo il capolavoro della Cavani , difficilmente quello che non è certo il capolavoro di quell'onorato regista sarebbe riuscito a colpirci.
In quel corso imparai davvero molte cose, prima tra tutte che tra medievisti i santi si chiamano per nome, senza l'appellativo - e così dopo la prima lezione passata a dire "san Francesco di qua" e "san Francesco di là" noi allievi ce ne demmo tutti per inteso e da allora si parlò solo di Francesco (e di Domenico e di Bonaventura e di Tommaso e di un sacco di altri santi di grande o piccola rinomanza sempre rigorosamente chiamati per nome) quasi fosse stato il nostro compagno di banco alle medie, e a quest'uso sono rimasta spocchiosamente assai attaccata, anche se quando sono nel secolo e non tra addetti ai lavori preferisco dire "Francesco d'Assisi" appunto per precisare che sto parlando del celebre poverello, e non del mio ex compagno di banco delle medie*****.
Lo scopo del corso era di mostrarci, attraverso l'analisi delle fonti, come la figura di Francesco fosse stata addomesticata nel corso degli anni (degli anni della sua vita religiosa, intendo - che in effetti sono stati abbastanza pochi, circa una ventina) e nei primissimi anni dopo la sua morte, addolcendo notevolmente sia i suoi insegnamenti che i suoi costumi e soprattutto la regola di vita della sua comunità.
Francesco era partito con l'idea di piccoli gruppi di penitenti che abitavano capanne di legno e paglia, senza possedere niente (e per "niente" si intende proprio niente, inclusi i vestiti che avevano addosso e che Francesco riteneva "dati in prestito, finché non trovavano qualcuno più povero di loro") e che per mangiare andavano mendicando; più esattamente, nei primi tempi i frati andavano a lavorare con i contadini e non chiedevano niente accettando però quel che gli veniva donato "per amor di Dio" (e se i contadini non gli davano niente allora andavano a procurarsi la cena mendicando di casa in casa). Era un progetto decisamente ambizioso e destinato a non durare ma che in effetti non prevedeva la nascita di un ordine su scala internazionale, solo appunto di piccole comunità locali, e all'inizio dell'inizio solo una iniziativa personale: "il Signore mi diede dei frati, ma nessuno mi diceva che cosa ne dovessi fare" ricorda nel Testamento, ma Dio in persona gli dettò lo stile di vita. Insomma, successe perché doveva succedere, non perché lui avesse un disegno preciso in testa o tantomeno tentasse di fondare un nuovo ordine.
I conventi francescani che conosciamo sono in pietra e muratura, le chiese in gotico francescano hanno sì travi di legno al loro interno ma sono decorati con splendidi affreschi e ben presto, quando l'ordine si allargò a macchia d'olio in tutta Europa, fu trovato un escamotage legale per accettare anche donazioni permanenti e formare un ricco patrimonio. D'altra parte non puoi gestire migliaia e migliaia di frati sparsi sul continente (e, molto più avanti, su tutti i continenti) con lo stesso criterio con cui gestisci un gruppetto di cultori della materia.
Di tutto ciò Francesco soffrì molto (nelle fonti si parla di una "grave tentazione spirituale") e i compagni della prima ora gli chiesero più volte perché non intervenisse contro quel che stava succedendo, che andava contro l'essenza dello spirito originario con cui era nato il movimento, quando ancora non sapeva nemmeno di essere un movimento. Ma Francesco, che avrebbe sì potuto intervenire col peso del suo prestigio e della sua autorità rifiutò sempre di farlo, in nome dell'obbedienza che aveva giurato, come tutti i francescani dopo di lui, perché quel cambiamento era stato approvato dalla Chiesa, cui aveva giurato assoluta sottomissione e per tutta una serie di motivi legati in sintesi al non volere intervenire contro quella che ai suoi occhi era la volontà divina, che aveva voluto fare di lui uno strumento******. Il frate doveva essere sottoposto e obbedire a tutti, principalmente alla Chiesa. La sua personale protesta Francesco la portò avanti in modo non violento e senza proclami, continuando a vivere come aveva stabilito a suo tempo e come aveva giurato di fare, considerando l'Ordine come qualcosa che era sì nato grazie al suo intervento, ma in cui lui non aveva il diritto di intervenire. Se anche pensò che c'era qualcosa di sbagliato in quel che stava succedendo scelse di non intromettersi, in nome della sua coerenza personale - più precisamente, perché non poteva essere sicuro che quel che stava avvenendo fosse sbagliato solo perché lui aveva iniziato cercando di fare qualcosa di diverso. Come segnale che stava agendo correttamente sia nel suo personale percorso, sia rifiutando di intervenire in ciò che non gli apparteneva, ricevette le stimmate - un tipo di ricompensa che a lui fu molto gradito ma di cui, di nuovo, non parlò mai apertamente parendogli del tutto fuor di luogo vantarsi di una grazia così grande (che tuttavia, proprio per la sua natura, non poteva essere davvero tenuta nascosta, anche se Francesco ci provò con grande diligenza).
Ammettere di non poter presumere di sapere cosa era giusto e cosa era sbagliato nel disegno divino per gli altri era un pensiero abbastanza insolito, a quei tempi come sempre. Il mondo trabocca e pullula da sempre di persone assai convinte di sapere cosa è bene e cosa è giusto per tutti, ma che assai raramente si scomodano cercando di vivere in coerenza con quel che sentono giusto per loro. La conversione francescana doveva avvenire non tanto con la persuasione o la minaccia delle orribili pene che aspettavano il peccatore nell'aldilà ma prima di tutto con l'offerta della misericordia, della comprensione e del rispetto. Francesco non ammansì il lupo di Gubbio, se non in senso metaforico, ma non è affatto un caso che una storia del genere gli venisse attribuita perché il suo modo di rivolgersi al lupo denota appunto comprensione e umiltà, oltre a una gentile offerta fatta in nome dell'amore. È più o meno la stessa linea che seguì per convertire un gruppo di briganti che vivevano allo stato brado nella foresta assalendo gli sventurati viandanti: i frati si presentano da loro chiamandoli fratelli briganti e offrendogli buon pane e buon vino, che imbandiscono su una bella tovaglia pulita distesa sull'erba, poi li servono alla mensa, gli parlano con dolcezza e quando i briganti hanno ben mangiato gli chiedono di promettere di non assalire più nessuno: i briganti mangiano, ascoltano e promettono. Il giorno dopo la mensa viene arricchita con uova e formaggio e dopo averli serviti i frati li esortano ad abbandonare la scomoda e dura vita nella foresta. Così, ammansiti dalle buone parole, dal buon pasto e dalla gentilezza dei frati finiscono in breve tempo per unirsi all'ordine propter familiaritatem et caritatem dei frati. La gentilezza, la dolcezza e soprattutto l'empatia sono le note che toccano i cuori e suscitano pentimento e conversione. I peccatori vanno avvicinati non con la mìcollera e la minaccia, né con la superbia di chi sa di essere meglio di loro e perciò li guarda dall'altro in basso, ma con l'umiltà di chi chiede che gli sia consentito servirli e aiutarli.
Tutto questo va applicato ai peccatori ma anche a tutti i sofferenti: i poveri, gli ammalati, gli infelici. È la stessa comprensione e la stessa cortesia che Francesco applica per esempio a un frate che, avendo praticato in maniera eccessiva il digiuno, nella notte si lamenta che si sente morire di fame: Francesco lo conforta, lo fa mangiare ma fa di più: perché il poverino non si senta umiliato mangiano tutti insieme a lui. Solo dopo Francesco gli ricorda che il nostro fratello corpo non va eccessivamente maltrattato, negandogli troppo la sua giusta mercede., e che non tutti abbiamo le stesse necessità alimentari. È anche la stessa cortesia che applica con gli ultimi degli ultimi, i lebbrosi, quando mangia con loro (in un caso, addirittura dallo stesso piatto) oltre ad assisterli, fornendogli oltre alle cure un aiuto spirituale e facendogli sentire di essere, nonostante tutto, qualcosa di più che dei poveri appestati. Non a caso è proprio da un lebbroso che inizia la sua conversione, come ricorda nel Testamento, nel momento in cui Dio gli fece misericordia e lui si accorge che l'amarezza di accostarsi a qualcosa di ripugnante si trasformava nella dolcezza di abbracciare un fratello.
Questo tipo di spiritualità, basata non soltanto sull'aiuto ma sulla dolcezza della condivisione è il tratto che caratterizza gli interventi dei francescani nel mondo sin dalla nascita dell'ordine, e il vero lascito che Francesco ha lasciato all'umanità - qualcosa, in effetti, più importante dell'avere una capanna di legno e paglia oppure di pietra intonacata e decorata con affreschi; viene quindi da pensare, almeno a me, che nella sua coerenza, Francesco abbia fatto la scelta giusta non intervenendo a favore della forma ma piuttosto cercando di rispettare la sostanza e prima ancora la sua coerenza e la sua anima, e soprattutto l'anima degli altri.
* apocrifa sì ,a ben costruita. E forse nemmeno tanto apocrifa, se si accetta che abbia la sua base in un evento reale vagamente simile attestato da fonte assai attendibile, vedi più avanti.
** qui una lista delle più famose citazioni prive di riscontro
*** pur ammettendo senza difficoltà che un sacco di gente ne sa più di me sull'argomento, si capisce
**** perché va ben ammesso che in quel film l'Umbria recita meravigliosamente
***** (che peraltro non si chiamava affatto Francesco)
****** Scripta Leonis, Rufini et Angeli sociorum S. Francisci, 1979, Oxford Clarendon Press, capp. 75-6.
L'episodio della conversione dei fratres latrones è narrato al capitolo 90.
Il frate che in piena nitte urla che muore di fame è al capitolo 1.
Il pranzo col lebbroso è narrato al capitolo 22.