Il mio blog preferito

venerdì 20 luglio 2018

Precious Ramotswe, detective - Alexander McCall Smith

Quel che vado oggi a presentare non è certo una novità per il Venerdì del Libro; o meglio, in un certo senso probabilmente lo è perché in diversi, tra cui la padrona di casa, ma anche Cara Lilli... e Hovogliadichiacchiere (che se non sbaglio è stata la prima a parlarne) hanno presentato Le lacrime della giraffa, che è il secondo volume della serie, mentre questo è il primo e forse, ma solo forse, non l'ha ancora presentato nessuno. In tutti i casi, lo presento io oggi.
Le premesse sono note: Alexander McCall Smith è un bianco di origini scozzesi nato e cresciuto nello Zimbabwe che ha studiato in Scozia e lavorato in Botswana per poi tornare in Scozia. Nel 1998 gli venne anche l'idea di scrivere, e il presente libro è il risultato di questo suo tentativo, che ottenne il suo bravo successo. Da allora ha scritto una caterva di romanzi articolati in diverse serie, ambientati in Botswana ma anche in Scozia - e da quel che ho visto quelli dedicati a Precious Ramotswe sono decisamente migliori degli altri. O almeno, l'unico romanzo a sfondo scozzese che ho letto mi sembrò che lasciasse decisamente il tempo che trovava e non mi spinse affatto a cercare altro di lui (comunque di una di queste serie si è occupata anche MammaAvvocato, in tempi ormai lontani, per chi cerca un parere alternativo).
Quando mi prese il trip africano però decisi di tentare la sorte anche con la serie di Precious, di cui avevo sentito dire un gran bene anche qui sul Venerdì del libro.
Come risultato del primo, diffidente tentativo, adesso mi sto spolpando l'intera serie con grande soddisfazione, con l'unico inconveniente che purtroppo ormai li ho letti quasi tutti - che è un problema perché mi hanno istillato una dipendenza micidiale ed essendo piuttosto brevi ed estremamente scorrevoli vanno via davvero in fretta.
Questo, che è il primo, va via un po' meno in fretta degli altri, anche perché è più denso. Infatti non racconta solo "il primo caso della detective n°1 del Botswana", come recita la copertina, ma, oltre a presentare una vasta selezione dei primi casi della Ladies' Detective Agency n. 1 (un nome che gioca sul fatto che di agenzie investigative in  città c'è solo quella e che è gestita solo da donne, anche se non lavora solo per clienti donne) fondata da Precious, racconta la storia della sua vita fino appunto alla fondazione dell'agenzia, e prima ancora quella del suo amato padre e il passaggio all'indipendenza del Botswana avvenuto nel 1966 (prima era stato la colonia inglese del Bechuanaland).
Il Botswana è uno stato molto particolare dell'Africa: grazie alle miniere di diamanti e a una classe dirigente più sennata di quelle degli stati circostanti è uno stato tranquillo, non eccessivamente povero, in via di costante arricchimento e che non è stato funestato da drammatiche guerre civili o carestie; anche la convivenza tra bianchi e neri risulta piuttosto pacifica e il processo di modernizzazione del paese sta avvenendo senza troppi traumi e senza fratture laceranti con le vecchie tradizioni. Viene insomma presentato un mondo in via di trasformazione ma anche piuttosto tranquillo, dove i casi su cui Precious Ramotswe è chiamata a indagare richiedono spesso molto buon senso e tecniche di indagine piuttosto particolari nonché una notevole capacità di osservazione e di ascolto (senza la quale del resto nessun investigatore ha speranza di concludere un granché) ma dove la violenza scarseggia, le sparatorie e i drammatici inseguimenti mancano del tutto - in compenso abbondano serpenti, scorpioni e strade piuttosto azzardose da percorrere - e solo occasionalmente le indagini riguardano casi di omicidio. Abbondano invece le tazze di tè ma soprattutto le chiacchiere e le indiscrezioni, indispensabili ad ogni buon investigatore da che il mondo è mondo, mentre i moventi e le dinamiche di certi reati possono talvolta lasciare perplesso il lettore europeo - perplesso, ma non incredulo, perché si rende conto di essere in un mondo profondamente diverso da quello cui è abituato.
Con l'andare dei romanzi Precious si fidanza e si sposa, come la sua assistente e poi socia, e il mondo intorno a lei si popola di apprendisti, figli adottivi, amici e parenti e amici di parenti e parenti di amici (perché nel Botswana tutti si conoscono e sono imparentati tra loro, perfino peggio che a Firenze) di cui vengono seguite le vicende nel corso del tempo. Ogni libro presenta quindi una struttura piuttosto composita che comprende almeno due-tre casi di diverso genere per l'agenzia investigativa e almeno un paio di vicende personali dei protagonisti fissi del gruppo. Il tutto è affrontato con un certo fatalismo, molta comprensione umana e una certa fiducia nell'ordinamento cosmico del mondo che conforta il lettore occidentale ed evita di sottoporlo a gravi stress. 
Una lettura rilassante, dunque, che rende molto bene il senso dello scorrere della vita ma dove i drammi non mancano, anche se sono affrontati senza isterismi; una lettura, aggiungo, che funziona per tutte le stagioni e per tutti gli stati d'animo purché non si cerchi uno svolgimento frenetico e una azione senza respiro. 
Consigliabile accompagnarlo con tazze di tè (anche rosso, che è quello preferito da Precious) o, in estate, con spremute di frutta ben ghiacciate.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma, felice di aver abbandonato i pregiudizi verso un autore che avevo all'inizio ingiustamente scartato nonostante i molti buoni consigli ricevuti in proposito.

martedì 17 luglio 2018

Santuzza nei Malavoglia, ovvero amore e contrabbando

Carl Bloch In una osteria romana (1866)

(I Malavoglia mi sono sempre parsi un romanzo molto deprimente e non l'ho mai letto molto volentieri. Tuttavia sono sempre stata costretta ad ammettere che è scritto DAVVERO bene, con un tipo di scrittura corale tutt'altro che consueto nella letteratura italiana... ma molto praticato in alcuni dei miei autori preferiti. Il primo capitolo del Signore degli Anelli per esempio è costruito  esattamente con la stessa tecnica. Scelsi il personaggio di Santuzza perché aveva dei discreti risvolti  da romanzo giallo, e perché ero sicurissima che nessuno dei miei compagni di corso, troppo impegnati a spulciare antologie per avere il tempo di leggere i testi completi con attenzione, se ne sarebbe occupato. Insomma, volevo che fosse chiaro che IO, invece, leggevo sempre il testo in integrale; e volevo che fosse chiaro senza che mi scomodassi a dirlo. I professori che tenevano il corso di letteratura italiana apprezzarono e mi diedero un voto assai alto - e a conti fatti probabilmente non dovetti faticare più dei miei compagni di corso antologizzati, però mi divertii di più.
Di Santuzza si parla nei capitoli II, III, VIII, X, XII, XIII, XIV e XV).


Il personaggio di Santuzza (vero nome Mariangela) viene descritto nel libro poco per volta, con una tecnica non dissimile a quella impiegata da Agatha Christie in alcuni dei suoi migliori romanzi, attraverso un puzzle di voci e pettegolezzi che finiranno per dare un quadro finale molto diverso da quello che è stato fatto intravedere all’inizio: inizialmente sembra solo un personaggio che ha la funzione di fornire un po’ di colore locale allo sfondo di Aci Trezza ma più avanti, pur interagendo solo marginalmente con i Malavoglia, si rivelerà come uno dei perni nascosti del meccanismo che stritolerà la famiglia dei protagonisti.

La intravediamo per la prima volta nel capitolo II, nel corso della conversazione corale al crepuscolo che occupa tutto il capitolo, attraverso le parole di Piedipapera. Si discute sul perché don Michele, la guardia del paese, andasse “a guardare l’interesse dei galantuomini dalla parte dell’osteria”:

Ci va per confabulare di nascosto con lo zio Santoro, il padre della Santuzza. Quelli che mangiano il pane del re devono tutti far gli sbirri, e sapere i fatti di ognuno a Trezza e dappertutto, e lo zio Santoro, così cieco com’è, che sembra un pipistrello al sole, sulla porta dell’osteria, sa tutto quello che succede in paese, e potrebbe chiamarci per nome ad uno a uno soltanto a sentirci camminare. Ei non ci sente solo quando massaro Filippo va a recitare il rosario colla Santuzza, ed è un tesoro per fare la guardia, meglio di come se gli avessero messo un fazzoletto suglio occhi.

I lettori vengono così informati dell’esistenza di un’osteria nel paese e che questa osteria appartiene a una coppia padre-figlia dove il polo più forte, contrariamente alla consuetudine, è la figlia, che anzi grazie alla debolezza del padre riesce a gestire con tranquillità la sua vita sentimentale (in cui partecipa un tal massaro Filippo). 
Solo un certo gusto dell’accumulo può, in apparenza, giustificare la compresenza in un solo paragrafo del gendarme don Michele insieme allo zio Santoro, padre reso forzatamente compiacente dalla sua infermità, alll’ostessa di Aci Trezza e alle relazioni private dell’ostessa medesima. Vedremo invece più avanti che non solo questi personaggi sono legati da una fitta trama di interessi comuni, ma che a questa trama non è estraneo nemmeno Piedipapera.

Il tema di massaro Filippo e della sua relazione con la Santuzza viene ripreso in abbondanza al capitolo successivo, che si svolge sul selciato della chiesa:
Le calze della Santuzza, osservava Piedipapera, mentre ella camminava sulla punta delle scarpette, come una gattina - le calze della Santuzza, acqua o vento, non le ha viste altri che massaro Filippo l’ortolano, questa è la verità.”

Ma non è solo Piedipapera a sparlare: anche altre donne commentano la relazione tra Santuzza e massaro Filippo l’ortolano come cosa nota urbi et orbi, chi per osservare che l’ostessa non dovrebbe tenere in peccato mortale un padre di famiglia, chi per lamentare che comunque la Santuzza è la superiora delle Figlie di Maria.

Per quasi cinque capitoli cala il silenzio su questa strana coppia. Finché
Nella notte si udirono delle fucilate verso il Rotolo, e lungo tutta la spianata, che pareva la caccia alle quaglie. - Altro che quaglie! mormoravano i pescatori rizzandosi sul letto ad ascoltare. E’ son quaglie a due piedi, di quelle che portano lo zucchero e il caffè, e i fazzoleti di seta di contrabbando. Don Michele ieri sera andava per la strada coi calzoni dentro gli stivali e la pistola sulla pancia!

All’alba troviamo Piedipapera a bere dal barbiere Pizzuto, nervoso con la faccia “di un cane che ha rotto la pentola”, Michele che si lamenta con la Santuzza perché la caccia è andata male, e la Santuzza (pure lei molto mattiniera e già al lavoro) che lo rimprovera affettuosamente “Non lo sapete che se chiudete gli occhi voi, vi portate nella fossa anche degli altri?” assicurandolo che non si era trattato di massaro Filippo “che tentava di far entrare il suo vino di contrabbando” (al che il lettore comincia a sospettare che nella scelta dei suoi amici del cuore la Santuzza non sia guidata solo dalla concupiscenza).

Nel frattempo la trama va avanti, e tra le altre cose Barbara Zuppidda sembra decidersi finalmente, ora che ‘Ntoni di padron ‘Ntoni è diventato decisamente povero dopo il secondo naufragio della Provvidenza, ad accettare la corte di don Michele. E le chiacchiere arrivano fino all’osteria, naturalmente:

La Santuzza, mentre risciacquava i bicchieri, si voltava dall’altra parte , per non sentire le bestemmie e le parolacce che dicevano; ma all’udir discorrere di don Michele, si dimenticava anche di questo e stava ad ascoltare con tanto d’occhi. Era diventata curiosa anche lei, e stava tutta orecchi quando ne parlavano, e al fratellino della Nunziata, o ad Alessi, allorché venivano pel vino, regalava delle mele e delle mandorle verdi, per sapere chi s’era visto nella strada del Nero. Don Michele giurava e spergiurava che non era vero, e spesso la sera, quando l’osteria era già chiusa, si udiva un coro del diavolo dietro la porta. - Bugiardo! gridava la Santuzza. Assassino! ladro! nemico di Dio!
Tanto che don Michele non si fece più vedere all’osteria, e si contentava di mandare a prendere il vino”.

Che ne è stato di massaro Filippo? C’è stato  un cambio della guardia? 
Sembra proprio di no. Infatti:
Massaro Filippo, invece di essere contento che si fosse tolto così un altro cane da quell’osso della Santuzza, metteva buone parole e cercava di rappattumarli, che nessuno ci capiva più nulla. Ma era tempo perso.

Infatti la Santuzza giura che non vuol sentirne più parlare, a costo di dover chiudere l’osteria e mettersi a far la calzetta. Massaro Filippo cerca lo stesso di riconciliarla con don Michele “perché la finisse quella lite con la Santuzza, dopo che erano stati amici! ed ora avrebbero fatto chiacchierare la gente”.
E infatti la gente chiacchiera quanto più non potrebbe. L’unico commento riportato, però, il più scontato, è quello di Pizzuto (nella cui bottega Piedipapera sembra di casa): “Massaro Filippo ha bisogno di aiuto” perché “quella Santuzza si mangerebbe anche il Crocifisso!”.

Siamo ormai in piena commedia all’italiana, manca solo Lando Buzzanca. Avviati su questa strada, vediamo la Santuzza  confessarsi dal parroco per la sua tresca con don Michele (e siccome il tutto era stato narrato “sotto sigillo di confessione” ben presto fa il giro del paese) nonché la madre di Barbara Zuppidda allontanare in gran fretta il corteggiatore della figlia - il tutto fra grida, schiamazzi e sceneggiate.

Due capitoli dopo le cose sembrano rimaste immutate, a giudicare dalla conversazione tra don Franco e ‘Ntoni (“La Santuzza ci ha massaro Filippo; e don Michele ronza sempre per la via del Nero, senza nessuna paura di comare Zuppidda e della sua conocchia!” racconta don Franco). 
Poco dopo scopriamo infatti che don Michele sta facendo il filo alla più giovane dei Malaviglia, Lia. 
‘Ntoni non sembra accorgersene; sta infatti attraversando la profonda crisi che lo porterà al carcere; al momento, comunque, è solo un ragazzo senza niente da fare e con una propensione un po’ troppo spiccata per il vino. Un bel ragazzo, anche, come è stato fatto capire più volte.

La Santuzza, dopo che l’aveva rotta con don Michele, aveva preso a ben volere ‘Ntoni, per quel modo di portare il berretto sull’orecchio, e di dondolare le spalle camminando che aveva preso da soldato; e gli metteva in serbo sotto il banco tutti i piatti coi resti che lasciavano gli avventori; e un po’ di qua e un po’ di là gli riempiva anche il bicchiere. In tal modo lo manteneva grasso e unto come il cane del macellaio. Al bisogno poi ‘Ntoni si disobbligava
e si disobbligava per l’appunto con funzioni analoghe a quelle di un buon cane da guardia, affrontando gli avventori più difficili da gestire, sorvegliando il banco quando la Santuzza andava a confessarsi e mostrandosi allegro con gli amici della taverna. Tutti perciò “gli volevano bene come se fosse a casa sua” tranne lo zio Santoro che “borbottava, fra un’avemaria e l’altra, contro di lui che viveva alle spalle di sua figlia” - il che era verissimo.
Alle rimostranze del padre Santuzza però risponde che, infine, era padrona di fare come voleva, perché “non aveva più bisogno di nessuno”.

Sì, sì! brontolava lo zio Santoro, quando poteva acchiapparla un momento a quattr’occhi. Di don Michele ne hai sempre bisogno. Massaro Filippo m’ha detto dieci volte che è tempo di finirla, che il vino nuovo non può tenerlo più nella cantina, e bisognerebbe farlo entrare di contrabbando.

Improvvisamente il misterioso triangolo assume tutt’altro aspetto agli occhi del lettore: a quanto sembra, più che l’amore c’è di mezzo il contrabbando. La complicità dell’uomo di Stato, don Michele, era indispensabile perché il traffico si svolgesse senza problemi, e massaro Filippo aveva ben il suo interesse nell’amicizia tra l’ostessa e la guardia.
Peccato che l’ostessa si sia stufata: per ‘Ntoni, che ha ormai raggiunto un notevole stato di passività, la Santuzza rappresenta una qualsiasi sponda cui attaccarsi senza troppa convinzione; Santuzza invece sembra mossa da una simpatia piuttosto forte, o da un altrettanto forte rancore verso don Michele (o forse da un misto di entrambi): “Dovessi pagare il dazio due volte, e il contrabbando, don Michele non lo voglio più, no e poi no!” perché “’Ntoni Malaviglia, senza galloni, valeva dieci volte don Michele”.
Insomma, per una volta Santuzza segue il suo piacere più che gli interessi dell’osteria. Ma l’idillio ha breve durata, anche per colpa delle continue recriminazioni dello zio Santoro: senza il vino di massaro Filippo gli avventori non vengono più volentieri, e trovandosi davanti “quell’affamato di ‘Ntoni” vengono ancor meno. Volendo, ci sono perfino degli scrupoli di coscienza:
Ora che non c’è più lui [don Michele], non viene nemmeno massaro Filippo. L’altra volta è passato di qua, e io volevo farlo entrare; ma ei dice che è inutile venirci, giacché il mosto non può farlo passare più di contrabbando, ora che sei in collera con don Michele. Una cosa che non è buona né per l’anima né pel corpo. La gente comincia perfino a mormorare che a ‘Ntoni gli fai la carità pelosa, giacché massaro Filippo non ci viene più, e vedrai come andrà a finire! Vedrai che arriverà all’orecchio del vicario, e ti leveranno la medaglia di Figlia di Maria.

La Santuzza tiene duro, anche per puntiglio “perché in casa sua voleva essere sempre la padrona”, ma i capricci non sono eterni e in cuor suo la ragazza sa che suo padre non ha tutti i torti. ‘Ntoni viene gradualmente messo alla porta, e infine lo zio Santoro avvia la riconciliazione con don Michele. “Farò le cose con giudizio” assicura alla figlia “Non ti lascerei fare la figura di tornare a leccare gli stivali a don Michele: sono tuo padre o no, santo Dio?”.
‘Ntoni non la prende per niente bene, e minaccia piazzate (“Voglio svergognare lui e la Santuzza davanti a tutto il paese quando vanno alla messa! Voglio dir loro il fatto mio e far ridere la gente.”). 

Quanto al resto del paese, capisce quel che vuol capire e parla di conseguenza:
Vuol dire che ci era sotto qualcosa per tenersi il broncio. E come massaro Filippo era pure tornato all’osteria: - Anche quell’altro! Che non sa starci senza don Michele? E’ segno che è innamorato di don Michele, piuttosto che della Santuzza. Certuni non sanno star soli neppure in paradiso.

Dopo aver inconsapevolmente ostacolato il contrabbando di Aci Trezza, ‘Ntoni decide di parteciparci, con molte esitazioni e scarsa convinzione. e nel modo più maldestro e appariscente possibile, nonostante i saggi avvertimenti di don Michele che, nel tentativo di avvisarlo tramite sua sorella aveva impostato la questione con grande chiarezza, svelando qualche ulteriore retroscena:
ditegli pure che non bazzichi tanto con quell’imbroglione di Piedipapera, nella bottega di Pizzuto, che si sa tutto e nei guai poi ci resterà lui. [...] Gli altri [Cinghialenta e Rocco Spatu] sono volpi vecchie [...] Vostro fratello si fida di Piedipapera, e non sa che le guardie doganali hanno il tanto per cento sui contrabbandi, e per sorprenderli bisogna dar la parte a uno della combriccola, e farlo cantare per chiapparla.

Don Michele si rivela buon profeta, e ‘Ntoni si ritroverà incastrato in un meccanismo che non ha nemmeno cercato  di capire. Tra una disgrazia e l’altra dei Malaviglia, la Santuzza scompare fino alle ultime pagine, quando scopriamo che ha (quasi) cambiato vita:

La Santuzza aveva ragione di baciare la medaglia; nessuno poteva dire nulla dei fatti suoi; dacché don Michele se n’era andato, massaro Filippo non si faceva vedere più nemmeno lui, e la gente diceva che colui non sapeva stare senza l’aiuto di don Michele. Ora la moglie di Cinghialenta veniva di tanto in tanto a fare il diavolo davanti all’osteria, coi pugni sui fianchi, strillando che la Santuzza le rubava il marito”.

venerdì 6 luglio 2018

Il fucile da caccia - Yasushi Inoue

Sono debitrice per questo romanzo breve (o racconto lungo?) a Dante del blog Esserino e Balena, che un bel giorno ha deciso di leggerlo ad alta voce facendo secondo me un lavoro davvero egregio perché gli ha dato esattamente la scansione e i tempi che un testo del genere richiedeva. Tanto mi è piaciuta questa sua lettura che me la sono ascoltata due volte di fila e non so se avrò mai voglia di leggere il testo scritto. A fine post lascio i link per chi vuole ascoltare la sua versione (e sono una infinità perché ce lo ha letto a puntate. Io naturalmente ho aspettato che avesse finito per ascoltarlo tutto di seguito, ma ognuno può regolarsi come meglio crede).
Prima che Dante avesse questa eccellente pensata non avevo mai nemmeno sentito nominare quest'opera, pubblicata in Giappone nel 1949 ma che in Italia si sono degnati di tradurre solo nel 2003; ma quand'anche ne avessi sentito parlare sarebbe stato con le consuete formule che si usano per i romanzi giapponesi, di cui si lodano sempre la raffinata raffinatezza della raffinatissima struttura e la squisita rarefazione della scrittura senza mai entrare nel merito - perché di fatto entrare nel merito vorrebbe dire spiattellare la storia senza riuscire a spiegare esattamente in cosa consista esattamente la bellezza dell'opera (che sì, è effettivamente anche molto raffinata).
Insomma, come in quasi tutti i romanzi giapponesi c'è una storia, ma non è facile da riassumere. Qualcosa tuttavia dovrò ben dire, perché per l'appunto la mia intenzione è proprio quella di provare a far venire in chi passa di qua la tentazione di leggerlo.

Al centro della storia c'è una lunga relazione d'amore, vista con gli occhi delle tre donne che vi sono più direttamente coinvolte. Oppure, a scelta, è un personaggio maschile (il protagonista della relazione) che riesce a restare nell'ombra pur venendo accuratamente descritto da tre donne che con lui vivono a stretto contatto. Lui stesso prova appunto a descriversi attraverso le parole di queste tre donne per meglio farsi capire dall'autore del racconto, che sembra aver afferrato la sua essenza e averla messa su carta attraverso una poesia dove fa una fuggevole comparsa anche il fucile da caccia che dà il titolo al racconto.
Un gioco di specchi piuttosto complicato, insomma, e non è strano che alla fine questo protagonista che sembra vivere solo attraverso le parole degli altri continui a restare in ombra, e che la luce finisca per essere puntata in tutt'altra direzione che verso di lui.
La prima lettera, scritta dalla Nipote, descrive quest'uomo come lo Zio Perfetto, il pilastro cui da sempre tutta la famiglia si appoggia, l'uomo che sa sempre cosa deve essere fatto e qual è il modo migliore per farlo.
La seconda lettera è della Moglie, a sua volta Zia Perfetta, ma anche donna ricca di ogni talento e su cui parimenti si può sempre contare. E questa mirabile donna ricca di virtù descrive la curiosa essenza di un matrimonio che è durato formalmente nel tempo ma nella realtà è stato abortito sul nascere, strozzato in culla da un piccolo episodio di cui il marito non è stato mai messo al corrente ma che in qualche modo ha intuito.
Nella terza lettera infine parla l'Amante, che ripercorre la sua lunga relazione col protagonista cercando di fare la cosa più difficile tra quante cose difficili si possano fare: mostrarsi veramente per quel che è, essere davvero sincera - anche, finalmente, con l'uomo che ama ormai da decenni e a cui è legata da sentimenti ambivalenti.

Al termine della lettura (o, nel mio caso, dell'ascolto) restano aperti non meno di venti interrogativi diversi e la relazione stessa, così accuratamente descritta, ci appare come un diamante dalle mille facce, passibile delle più varie interpretazioni. Tra queste domande e queste interpretazioni ho passato un paio di giorni piuttosto trasognati ma nel complesso piacevoli, senza però trovare una risposta definitiva - oppure, a scelta, trovandone più di una. Mi sento quindi di consigliare caldamente la lettura (o l'ascolto, o entrambi) a chiunque passi per qua e senta una certa inclinazione per questo tipo di narrazione tra l'introspettico e il descrittivo.

Ed ecco i link dalla prima all'ultima puntata per chi desidera ascoltare la lectura Dantis:
Prima puntata

Seconda puntata

Terza puntata

Quarta puntata

Quinta puntata

Sesta puntata

Settima e ultima puntata

Con questo post insolitamente multimediale partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma.

giovedì 5 luglio 2018

L'Angelo della Sala Insegnanti (sono me)

(l'immagine di questa splendida torta ai mirtilli viene dalla pagina Facebook di Foto che soddisferanno il vostro senso dell'ordine)

Sin dai primi tempi in cui ebbi il piacere di frequentarla, l'ampia e luminosa e accogliente Sala Insegnanti della scuola media di St. Mary Mead si presentò ai miei occhi come spaventosamente ingombra di cartame. Tavoli e tavolini e scrivanie e cassetti e scaffali e rastrelliere e qualsivoglia contenitore o piano d'appoggio ne traboccava, letteralmente.
Sono una persona disordinata e pure un po' trascurata, un po' di ciarpame intorno non mi ha mai dato noia; da studentessa ho vissuto in un brodo primordiale di appunti mescolati e libri spersi per ogni dove, niente in me si è mai segnalato per soverchia organizzazione apparente, ma il mio era il classico disordine dove, io almeno, trovavo tutto. Invece in quella sala non si trovava mai nulla. Mi domandavo come facevano i colleghi a tollerarlo. Io ne soffrivo un po', anche se i miei pochi libri e le mie poche carte, regolarmente spurgate del superfluo, vivevano tranquille e sempre a mia disposizione nell'unico cassetto che ero riuscita a ricavarmi - decorosamente ampio, per fortuna - tanto che tra i colleghi finii per farmi la reputazione di persona ordinatissima, cosa che non mancava di far sganasciare la mia famiglia e chi mi conosceva bene.
Ordinata io?!? 
Ebbene sì, sul lavoro lo ero abbastanza. Rispetto all'insegnante medio anzi ero praticamente un prodigio. 
Con tutto ciò, il casino che c'era in quella stanza non l'avevo mai visto in nessuna delle venti  scuole dove avevo fatto le mie supplenze, brevi o lunghine che fossero.

Già dopo le prime settimane, quelle in cui non ci si azzarda nemmeno a sfiorare altro che l'eventuale registro delle firme per paura di sbagliare qualcosa, avviai qualche cauto tentativo di sfoltimento buttando via ogni tanto un po' delle carte che ingombravano il tavolo principale, dopo che avevo osservato che erano lì da giorni e giorni e giorni senza che nessuno le avesse minimamente toccate.
Mi dedicavo a questa delicata operazione solo quando mi capitava di essere completamente sola lì dentro. E' un complesso della complottista che mi è rimasto appiccicato anche oggi che lavoro ormai alla luce del sole sgombrando carriolate intere di roba.
Con l'andare degli anni gli interventi si approfondirono: aprii i cassetti delle scrivanie, buttando via infinite copie di circolari di dieci anni prima e di autorizzazioni a gite e simili che datavano al secondo millennio e addirittura ai primi anni '90.
Svuotai alcuni cassetti strapieni, appartenuti in epoca remota a insegnanti ormai in pensione da anni e liberando così un po' di posto per i nuovi arrivi.
Feci una scatola per i cataloghi editoriali, togliendo quelli vecchi e riempiendoli con i cataloghi in corso, via via che arrivavano. Li mettevo anche in ordine alfabetico di editore, ma non ho mai visto nessuno che provasse almeno vagamente a rispettare quell'ordine o che si preoccupasse di rimettere nella scatola il catalogo dopo averlo consultato: imparai a ripescarli dagli strani posti dove erano finiti e a rimetterli nella scatola.
Riempii la scatola destinata ai cataloghi di chi offriva gite solo con il materiale di chi offriva gite (lavoro del tutto inutile: mai e poi mai che abbiamo scelto una gita basandoci su quel tipo di materiale).
Liberai la rastrelliera delle riviste dai bollettini parrocchiali ancora incellofanati che nessuno guardava mai, limitandomi a tenere l'ultimo numero (che nessuno consultava mai. Adesso hanno smesso di arrivare).
Buttavo via i comunicati sindacali più vecchi di tre mesi.
Ogni tanto rimettevo le circolari in ordine cronologico nell'apposito contenitore - c'era in tal senso una certa confusione perché qualcuno li metteva in ordine cronologico e qualcuno con la più recente in alto, e col tempo riuscii a convincere i colleghi che il sistema più usato era proprio quello di mettere più in vista la circolare più recente, ma che comunque era necessario darsi un tipo di ordinamento e rispettarlo, altrimenti non avremmo ritrovato mai nulla (un concetto, questo, che per le custodi e solo per loro era perfettamente chiaro sin dalla notte dei tempi).
Avviai i lavori di sgombero di un armadio che ufficialmente conteneva materiale del laboratorio di scienze, ma in pratica era strapieno di tutto, da vecchi caroselli di diapositive in bianco e nero sui vulcani a modellini di solidi geometrici in compensato a cavi elettrici abbandonati. Non ho ancora finito di liberarlo, anche se non dispero di consegnarlo al Sostegnop entro la fine dell'anno.
Più avanti avviai i lavori per la biblioteca, in occasione dei quali riuscii a liberare molti scaffali, che provvidi a riempire con i libri scolastici che ci lasciavano ogni anno i rappresentanti. Feci una paziente opera di scrematura, naturalmente, e soprattutto eliminai una quantità immane di doppioni. Adesso i libri scolastici sono divisi per materie (indicati da appositi cartellini) e uno scaffale è riservato ai libri al momento adottati dalla scuola, che possono servire ad alunni squattrinati o a colleghi appena arrivati.
Quest'ultimo è un lavoro particolarmente delicato, che va sorvegliato con cura e risistemato con una certa regolarità. Da brava bibliotecaria mi irrito profondamente quando passo nella biblioteca (quella dove ci stanno i romanzi, per intendersi, e dove gli alunni vanno a pescare libri in prestito) e scopro che, dopo il passaggio di una classe, gli scaffali sono pieni di libri fuori posto, riposti a casaccio e addirittura messi capovolti e alla rovescia. Naturalmente un apposito cartello supplica i gentili utenti di lasciare sul tavolo i libri consultati invece di rimetterli a posto, ma mai cartello fu più ignorato nella storia della segnaletica.
E tuttavia son ragazzini, giovani e implumi, disabituati al contatto con i libri, non esperti di ordinamento delle biblioteche. Son giovani e hanno ancora tanto da imparare, mi dico mentre smoccolando faccio il giro degli scaffali e ricolloco i piccoli libri smarriti al posto giusto.
Ma che cosa devo pensare dei loro insegnanti, tutti reduci da studi di livello superiore e assai usi a maneggiare libri, quando trovo gli scaffali, particolarmente quelli delle materie letterarie, confusi e rimescolati oltre ogni dire, con l'ordine alfabetico per titoli completamente ignorato.... e un sacco di libri rimessi alla rovescia o capovolti? Cioè, è davvero così indispensabile e aiuta a risparmiare così tanto tempo mescolare in un groviglio inestricabile sette antologie, per tacere dell'infilarci qua e là un fascicoletto di storia o un bel libro di geografia?
A giudicare dai risultati, così sembrerebbe.
Sta di fatto che quest'anno a malapena sono riuscita ad occuparmi lo stretto indispensabile della biblioteca vera e propria, ma ai libri in Sala Insegnanti non ho badato né tanto né poco, perché ero fin troppo occupata a tenere l'anima coi denti; addirittura, dato che ero all'ospedale,  ho praticamente scavalcato tutta la fase del passaggio dei rappresentanti limitandomi a scorrere qualche libro per le adozioni dell'anno prossimo, mentre gli altri anni tenevo d'occhio i pacchi nemmeno scartati e provvedevo ad accantonarli in un punto isolato dove non ingombrassero; quest'anno invece, in assenza della mia rapace sorveglianza, questi volumi sono stati infilati alla rinfusa in qualsiasi posto libero si presentasse all'occhio di chi desiderava levarseli dai piedi.
Arrivata a Giugno ho cominciato a lavorare il nemico ai fianchi. Complice la partenza di ben due professori che sono andati in pensione, ho colto l'occasione per una bella sfoltitura di una serie di cadaveri inglesi dei tempi della guerra fredda e una vigorosa scrematura dei libri di Scienze Motorie, più la consueta eliminazione dei doppioni e un piccolo scarto di vecchi manualetti per le prove Invalsi (ormai cambiate). Ma soprattutto ho provveduto a una cauta scrematura dei libri di Religione, il cui titolare si stava pericolosamente allargando arrivando ormai a coprire ben tre palchetti. E' bastato eliminare qualche vecchio doppione ancora incartato e tutto è tornato a dimensioni più contenute.
Adesso quattro pile di libri vecchi e nuovi dell'altezza di circa un metro fanno bella mostra di sé dietro al gabbiotto dei custodi, che provvederanno a smaltirli con calma nei giorni della raccolta differenziata della carta e io sono stanca & stremata oltre ogni dire perché non si tratta di un lavoro leggero, soprattutto nelle mie attuali condizioni di salute.

La mia aureola è dunque ripresa a brillare del consueto color dell'oro: l'angelo della Sala Insegnanti veglia sui suoi diletti colleghi perché lavorino in condizioni comode e trovino facilmente quel che gli serve, e perché la Sala Insegnanti sia un posto non troppo ingombro.
Ripeto: quattro pile di libri di circa un metro l'una, più una vera infinità di cartacce d'anteguerra cestinate con determinazione e impegno.
La Sala Insegnanti, dopo questo trattamento, è naturalmente un luogo tutt'altro che vuoto, anzi niente lascia immaginare che sia stato sottratto anche un solo frammento di carta.
E il futuro armadio per Sostegno non è ancora libero. Ma forse quando tornerò a scuola, gli ultimi giorni di Agosto, porterò alfine a termine sì grande impresa. Inoltre sto seriamente meditando di inscatolare una vasta serie di libri e alcune enciclopedie ormai arcaiche (sì, è un lavoro che ho già fatto a suo tempo, ma con la mano troppo leggera, a quel che sembra, visto che a quegli scaffali non ci va mai nessuno né alcun collega in questi ultimi quattro anni li ha mai minimamente consultati).

E qui sorgono spontanee due domande ai miei occhi senza risposta:
- Primo: chi faceva questo lavoro quando non c'ero io? Perché qualcuno l'avrà fatto, almeno con i doppioni dei rappresentanti. Ma non ho mai visto nessuno che ci badava, anzi nessuno in mia presenza sembra nemmeno essersi mai posto il problema.
- Secondo: possibile che ai miei colleghi, tutti i miei colleghi, quell'immane affastellìo di carte inutili non abbia mai dato noia, e che io sia l'unica che preferisce lavorare avendo a portata di mano solo e soltanto quel che gli serve? Oppure la mia è una semplice deformazione professionale da archivista?

martedì 3 luglio 2018

Sigilli incompiuti e insegnanti scontenti

L'esame è finito, una volta tanto senza particolari sorprese. 
La Terza Amichevole l'ha affrontato senza tragedie, ma anche senza grandi risultati. Quasi nessuno ci ha sorpreso con effetti speciali: chi era bravo naturalmente ha fatto un buon esame (buono, non eccellente), chi era stato sciatto e approssimativo durante l'anno ha fatto un colloquio ai limiti del patetico: abbiamo dato una manciata di 5 ai colloqui, e non è cosa per niente comune - anche perché di solito colloqui da 5 all'esame di terza media non se ne vedono, quasi tutti cercano di fare qualcosa di decoroso.
Soprattutto è mancato il guizzo col quale molti improvvisamente, grazie alla misteriosa trasmigrazione alchemica determinata dall'esame, escono con un punto o due più del previsto in virtù di prestazioni che durante l'anno non avevano fatto nemmeno per sbaglio e si scopre improvvisamente che all'occorrenza sono molto più bravi di quanto sembrasse - ed è sempre bello quando succede, e causa di gran gioia sia per gli insegnanti che per gli alunni. In due ci hanno dato il piacere di un colloquio molto migliore del previsto, ma gli scritti erano in linea col loro consueto livello e quindi più di tanto il voto non si è alzato, anche perché con la nuova legge il voto di ammissione contribuisce per il 50% al voto finale - che forse è un po' troppo, o forse no, ci devo pensare. Vero è che la Preside ce l'ha ricordato più volte durante gli scrutini, con l'implicita esortazione ad alzare la media di chi volevamo far uscire con un voto più alto; ma il punto è che i voti dell'ammissione non erano molto alti, e se non lo erano c'era il suo motivo.
Sia chiaro che non c'è niente di male se una classe esce con un solo dieci, o anche senza dieci alcuno, se il suo livello potenziale è quello - ma la Terza Amichevole era una classe con un potenziale molto alto, che però non si è mai degnata di sviluppare. 
Ma dopotutto stiamo parlando del loro esame, della loro vita e delle loro scelte. Al momento hanno quattordici anni e una intera esistenza davanti a sé, e nessuno di noi ha la minima idea di come si svilupperà il loro futuro. L'esame delle medie sembra molto importante a noi insegnanti, che alle medie ci viviamo, ma alla fine è una tappa tra tante di un percorso ben più vasto dove ancora niente è compromesso e niente è garantito. Se è andata così è perché così doveva andare, e amen.