Il libro che vado oggi a presentare per il Venerdì del Libro di Homemademamma non è esattamente un classico di quelli di cui tutti, ma proprio tutti, han sentito parlare almeno alla lontana.
Anche nella mia vita in effetti è entrato quasi per puro caso - il che gli si addice molto.
Le coincidenze infatti non sono tutte uguali, e ne esistono di particolarmente fortunate e curiose: quando ti avviene di trovare una cosa mentre ne cercavi un altra, per esempio, oppure quando un curioso gioco del caso avvia una strada completamente diversa da quella che intendevi percorrere e dove avrai gran successo e riconoscimenti - ed è una trama molto comune e molto amata.
Tutto ciò ha un nome strano, che a sua volta ha una storia lunga: serendipity (in italiano serendipidità).
Anni fa, nel blog dedicato ai film dello Hobbit, si addivenne appunto a parlare di serendipity - che, se vogliamo, non è proprio il primo argomento che ti viene in mente leggendo quel libro. Eppure, racconta Gandalf nelle appendici del Signore degli Anelli, lui incontrò per caso Thorin Scudodiquercia all'osteria del Puledro Impennato (o del Cavallino Inalberato, nella nuova traduzione): un incontro casuale, diciamo noi nella Terra di Mezzo - e fu così che, cercando di recuperare il tesoro di Smaug, capitò quasi per caso di ritrovare l'Unico Anello, che nessuno stava cercando perché nemmeno si sapeva che era andato perduto: un vero caso di serendipity, se mai se ne vide uno.
Insomma, non ricordo come mai si parlasse di serendipity ma qualcuna spiegò che era una parola che derivava da questo testo del Cinquecento, e raccontò di come lo avesse letto traendone gran piacere.
Rimasi un po' interdetta, perché mai e poi mai ne avevo sentito parlare, e decisi di cercarlo.
L'edizione qui raffigurata al momento è l'unica in Italia (ma una parte del testo si trova anche in rete). Non è un testo economicissimo (35 euro) ma nemmeno improponibile, così lo comprai e questa estate l'ho letto facendo una interessante serie di scoperte: per esempio che non si trattava, come credevo (non so perché), di una storia bizantina di formazione, ricca di avventure: Bisanzio non c'entra niente, di azione non ce n'è poi molta, ma si tratta invece di un classico della letteratura persiana a sfondo assai filosofico.
Anche la nascita della parola serendipity è assai curiosa. Viene da Serendippo, che è l'antico nome... dello Sri Lanka alias Ceylon. D'accordo, in quegli anni avevamo dei problemi piuttosto seri con la traslitterazione dei nomi arabi, visto che abbiamo trasformato Abū al-Walīd Muhammad ibn Ahmad Ibn Rushd in Averroè, ma partire da Ceylon per arrivare a Serendippo mi sembra richieda comunque una bella fantasia.
Ad ogni modo, verso la metà del Cinquecento, il signor Cristoforo Armeno, di cui non sappiamo praticamente nulla, tradusse dal persiano questa storia in un periodo di gran caldo in cui non aveva evidentemente voglia di uscire, e poscia la pubblicò a Venezia per i tipi dell'editore Michele Tramezzino nel 1557.
Si tratta quindi di un testo di letteratura italiana, scritto nell'italiano dell'epoca e può darsi che qualche manuale di storia della letteratura italiana ne parli, ma dubito assai che sia citato nemmen di striscio nei manuali scolastici. Eppure dovrebbe, perché ebbe un certo successo e fu attraverso questa traduzione che giunse per la prima volta in Europa la storia de le Sette Principesse, capolavoro indiscusso del celebre (per i persianisti, si capisce) Nezami di Ganjè, poeta persiano del XII secolo; il Pellegrinaggio comunque traduce e riadatta una fonte successiva dove la storia è un po' diversa.
Lo scritto di Cristoforo Armeno, in barba ai manuali scolastici di letteratura italiana, ebbe la sua brava diffusione, tanto che nel 1719 un tal de Mailly lo tradusse in francese. Questa traduzione qualche decennio dopo finì poi nelle mani di Horace Walpole che inventò la parola serendipity - e va riconosciuto che per arrivare a questa parola partendo dallo Sri Lanka il cammino è stato lungo, tanto più che nel Pellegrinaggio di Serendippo si parla solo per dire che era il regno del protagonista, più esattamente del padre dei tre protagonisti.
Di tutto questo l'introduzione di Renzo Bergamini non dice molto, concentrandosi per lo più su complesse questioni editoriali di cui ho smesso ben presto di cercare di venire a capo. Quanto al commento, non è in alcun modo da considerarsi un aiuto alla lettura ma al più un compendio sulla grammatica del Cinquecento, in quanto spiega con grandissima dovizia di dettagli le costruzioni appunto grammaticali e sintattiche del testo - no, non nel senso che le traduce in italiano corrente, ma che dice come si chiamano in grammatichese stretto - una roba, insomma, che al lettore medio interessa men che zero, tanto più che se con l'italiano del Cinquecento ti arrangi non ti serve a nulla se non ad annoiarti in sommo grado, e se invece l'italiano antico non lo mastichi troppo ti serve ancor meno.
Siamo d'accordo che la Salerno editrice si rivolge agli addetti ai lavori, ma un po' di inquadramento e di analisi dei topi letterari ricorrenti potevano anche darla, in cambio di 35 euro.
Fatta questa micidiale introduzione storicoculturalstoricobocciofila, passo a raccontare la storia, o meglio le storie.
Infatti si tratta di un racconto a cornice; i tre figli del re di Serendippo hanno la loro storia, nel corso della quale gli viene raccontata una seconda storia che a sua volta contiene sette racconti. La storia della seconda cornice, quella che copre la maggior parte del testo, ruota intorno a un re malmesso in salute che, su consiglio dei tre saggi figliuoli del re di Serendippo, decide di curarsi con la cromoterapia: ogni giorno in un palazzo di un colore diverso, appositamente fatto costruire per l'occasione, e tutti i servi, il re stesso, la sua famiglia, la bella vergine incaricata di intrattenerlo per quel giorno in lieti conversari e il saggio incaricato di raccontare una storia, (questi ultimi diversi ogni giorno) tutti quanti insomma, vestono nel colore del palazzo, che naturalmente non è scelto a caso ma richiama un metallo, un pianeta, un giorno della settimana... insomma, lo sappiamo tutti come sono costruite queste cornici, ma quand'anche non lo sapessimo questo racconto è lì a spiegarcelo.
Alla fine della cura il re è di nuovo in perfetta forma, rimedia a un errore del passato e i tre giovani serendippini tornano a casa dove li aspettano belle spose (una guadagnata nel corso della vicenda), un padre affettuoso e ricche prospettive per il futuro.
Le sette storie incastonate nella seconda cornice sono belle e assai varie. Per giunta in appendice abbiamo anche l'originale delle Sette Principesse - tradotto in italiano corrente, e quindi molto più facile da leggere, così possiamo studiare le differenze. Già che ci sono, ne anticipo una: nella versione di Cristoforo Armeno, che era cristiano, i re e principi e protagonisti vari sono tutti rigorosamente monogami, nel racconto persiano un po' meno.
Ad ogni modo è divertente sia leggere le storie originali che quelle alterate, perché entrambe hanno tra l'altro il piacevole gusto della novità: al massimo troviamo qualche vago elemento fiabesco di nostra conoscenza, ma si tratta di sette storie decisamente nuove ad occhi occidentali, e anche molto diverse tra loro.
La serendipità si annida comunque nella cornice iniziale, quando si racconta dei tre bravi e virtuosi figli di del re di Serendippo. Il padre li aveva presi da parte, uno per uno, dicendogli che aveva deciso di lasciargli il regno per ritirarsi a vita privata ché era stanco. Il primo risponde virtuosamente "Padre mio che dite, siete ancora assai prestante e baldo, di succedervi se ne parlerò quando morirete ma non c'è nessun motivo di affrettarvi a farlo, tanto più che io sono ancora giovane, inesperto e assai bisognevole di imparare e non saprei certo gestire un regno", mentre il secondo e il terzo oltre a dargli la stessa risposta aggiungono che il trono spetta al fratello maggiore, che tra l'altro è molto più saggio e adatto a regnare di loro.
Molto compiaciuto della saggezza, modestia e virtù dei suoi tre figliuoli, il re di Serendippo si mostra invece assai adirato e li caccia via dal regno.
Così i tre si avviano, e dopo qualche giorno incappano in un signore che aveva perso il suo cammello. Assai premurosi, i tre giovinetti gli descrivono molto dettagliatamente il suddetto cammello, il suo carico, cosa aveva fatto e dove il signore avrebbe potuto trovarlo: ma siccome la descrizione del cammello e del carico risulta esatta al millimetro ma il cammello non si trova, i tre vengono arrestati per furto.
La storia andrebbe a finire male se non fosse che il cammello, andandosene per i fatti suoi, viene preso, riconosciuto e restituito al suo legittimo proprietario. I tre giovani, una volta liberati, vengono richiesti di come mai avessero potuto indovinare tante cose su quel cammello che non avevano mai visto e passano a spiegare le loro deduzioni - che al lettore occidentale del XXI secolo risuonano talvolta decisamente strane, ma che gli ascoltatori dell'epoca trovano invece assai sennate. Così i tre finiscono a fare i consiglieri del sultano o visir o quel che è del luogo e continuano a fare deduzioni, sempre più strampalate e sempre più confermate dai fatti. Come da una serie di deduzioni basate sulla logica e le credenze del tempo (ma che ricordano molto le tecniche deduttive di Sherlock Holmes, e anche la prima scena del Nome della Rosa, dove Guglielmo da Baskerville descrive mirabilmente un cavallo che non ha mai visto appunto sulla base della cultura dell'epoca - e immagino che Umberto Eco il Pellegrinaggio l'avesse letto) si sia arrivati al concetto di serendipidà proprio non saprei dire, ma insomma è andata così.
Comunque si tratta di una lettura piacevole, insolita e assai acculturata e perciò la consiglio a chiunque per avventura passasse da queste parti.