Il mio blog preferito

mercoledì 25 dicembre 2019

Buon Natale 2019



Felice Natale 
a tutti voi della Contea 
(in onore della partenza della Compagnia)

martedì 24 dicembre 2019

Notte di Natale 2019


Accendete l'albero, 
scartate i panettoni, 
innevate i pandori, 
preparate i biscotti e il fieno per le renne: 
i regali stanno arrivando!

lunedì 23 dicembre 2019

Haeretica - Sulla mancanza di autonomia de' giovani d'oggi (e dove andremo a finire di questo passo, signora mia)


Qualche giorno fa una collega mi ha chiesto assistenza mentre compilava una nota da dettare a tutta la classe perché si ricordassero di portare sempre il libro e il quaderno della sua materia. Voleva che fosse una nota assolutamente chiara.
Non capivo il problema: ogni insegnante compone con una certa regolarità avvisi di questo tipo, alla seconda o terza volta che i suoi alunni sbagliano sistematicamente a portare quel che gli è stato detto di portare (e che magari risolvono il dubbio non portando alcunché); e tutte quelle che mi sono capitate per avventura sotto gli occhi erano sempre di una chiarezza cristallina, anche se non sempre sortivano gli effetti miracolosi sperati da chi le dettava.
Dopo qualche cauta domanda ho scoperto che la nota era  rivolta ai genitori, che erano richiesti di controllare che i ragazzi avessero presente la questione.
Ho fatto presente alla collega che, per come la vedevo io, non era un problema che spettasse ai genitori risolvere, ma che dovevano farsene carico i ragazzi stessi, a ciò incoraggiati da un accorto uso del voto 4 in caso di eccesso di distrazione, e che anzi un intervento dei genitori era da evitare il più possibile.
Mi ha guardata un po' perplessa, ma alla fine la nota non l'ha scritta (oppure l'ha scritta senza il mio aiuto, non so). Comunque io ho continuato a rimuginare sulla cosa e ne ho tratto una serie di conclusioni, non so quanto sennate, che vado adesso a esporre.

Il modello culturale di questi anni tende a proteggere i ragazzi il più possibile. Le leggi sulla sorveglianza dei minori sono applicate in modo sempre più oppressivo: le creature vanno sorvegliate minuto per minuto, seguite e tampinate per ogni dove. La stessa mattana della Preside Fudge sull'intervallo da fare in classe nasce dal terror panico che i ragazzi muovano qualche passo per i corridoi della scuola, notoriamente colmi di trappole e di insidie, senza adeguata sorveglianza - anche se ad occhio l'unica cosa che avrebbero seriamente da temere è che il cielo cada loro sulla testa. 
Questo demenziale atteggiamento si estende anche alla vita di tutti i giorni, e dai genitori ci si aspetta altrettanta maniacale persecuzione: il folle caso della madre che fa la cartella al figlio di otto o dieci anni, controllando anche che sia provvisto di merendine è tutt'altro che raro e solo qualche sporadico genitore verso la seconda osa vantarsi con me che il figlio o la figlia "fa tutto da solo, si organizza per i compiti, si fa la cartella, tutto da solo, è molto autonomo e io non intervengo mai"; dal canto mio, solo ricorrendo a tutto il mio autocontrollo mi trattengo dall'esclamare "Vivaddio, mi sembra il minimo!" ricorrendo invece a blande frasette in cui mi dico assai lieta di tutto ciò affermando inoltre che lo spirito di autonomia è una bella virtù che merita di essere incoraggiata.
Non oso indagare su quel che succede alle elementari, dove qualche insegnante premuroso forse imbocca i suoi allievi durante le ricreazioni e gli soffia il naso. Meglio non sapere. 
In queste condizioni, non è strano che qualcuno sbagli a fare la cartella, ma anzi mi sembra degno di grande ammirazione il fatto che molti la facciano senza dimenticare niente.

A questo punto delle mie riflessioni mi è venuto spontaneo ricordare il curioso fenomeno per cui spesso gli alunni sbagliano i compiti (anche quelli in classe) perché "non hanno capito la consegna"* e al momento delle prove Invalsi molti disastri traggono origine appunto dal fatto che parecchi invalsandi non leggono le consegne o credono di leggerle per poi fare inevitabilmente quello che l'esercizio sembra richiedere, o meglio che loro hanno deciso che richiede.
Alcuni insegnanti provano ad ovviare all'inconveniente cercando di semplificare la frase dei comandi, oppure spiegandola in classe, salvo poi meravigliarsi che questi generosi tentativi non sortano gli effetti sperati. In compenso, dalle scuole superiori mandano spesso a dire che i ragazzi "non comprendono i comandi". Chissà, forse perché non glieli spiegano passo passo pensando di avere a che fare con normali ragazzi invece che con dei poveri idioti?
Con l'andare del tempo ho sviluppato la teoria che i ragazzi tendono a staccare l'audio quando gli adulti - anche adulti a loro assai cari, come i genitori - gli danno istruzioni, in quanto ci trovano spaventosamente monotoni e prevedibili. Non alzare la voce, non correre, ricordati di prendere la maglietta, ricordati di respirare... 
E' un uso figlio dei nostri tempi: genitori ansiosi e imbottiti di sensi di colpa, insegnanti ansiosi e imbottiti di sensi di colpa e tutti ripetono, ripetono, ripetono sempre le stesse cose. E la creaturina di turno, che è spesso affezionata al genitore e talvolta perfino all'insegnante, non osa mandarlo a Fanculo o chiedergli di chetarsi per paura di offenderlo; ma deve pur sopravvivere, e per farlo stacca l'audio. Difficile non scusarlo per questo.
Siccome i serpenti tendono a mordersi la coda, gli adulti per ovviare a questo inconveniente di cui, almeno in cuor loro, sono perfettamente consapevoli, tendono a ripetere le istruzioni e le raccomandazioni per un numero esorbitante di volte nella speranza (sempre più tenue) che almeno una volta il messaggio buchi le difese e riesca ad arrivare - il che qualche volta succede, ma è molto più consueto che la continua, esasperante ripetizione delle più banali istruzioni convinca i poveretti a staccare vieppiù l'audio.
Il circuito si spezza con sorprendente facilità in presenza di un trauma (il quattro di cui sopra, ad esempio; anche solo il quattro dato al compagno di banco). Naturalmente il quattro andrebbe dato solo dopo una o due possibilità di redenzione offerte pacatamente (e che non saranno colte, di solito, perché nessuno le ascolterà); tuttavia si potrebbe perfino spezzare una lancia a favore del quattro dato subito, sin dalla prima volta, in osservanza al vecchio adagio "via il dente, via il dolore". È un metodo un po' brutale ma efficace, come gli antibiotici.
Un altro rimedio, più semplice, più efficace e del tutto indolore, sarebbe ricorrere alla tecnica di permettere alle creature di gestire in proprio modeste e semplici porzioni della loro vita quotidiana, abituandolo gradualmente a un po' di autosufficienza - ma temo che un rimedio così spregiudicato risulti troppo avventuroso agli occhi di molti dei genitori, anche se chi lo applica di solito non se ne trova male. Oddio, e se sbagliano a mettersi i calzini? Se li mettono del colore sbagliato? Se li mettono alla rovescia? Se la prima volta che li mettono incorreranno in qualche difficoltà? Penseranno che non li amo abbastanza, ne trarranno gravi danni psicologici, mi vivranno come un genitore trascurato e anaffettivo?
Ecco, forse no. E magari col tempo impareranno a mettersi bene i calzini. Tanto, prima o poi dovranno imparare comunque a far da soli. Non mettergli i calzini e pretendere che lo faccia da solo non è la stessa cosa del mandarli in fabbrica a cinque anni a riannodare i fili dei telai, credo.
In ogni caso la gestione delle istruzioni spicciole delle singole materie mi sembra sia affare in cui i genitori vadano coinvolti il meno possibile, dal momento che a scuola non ci viene il genitore ma il figlio: loro, poverelli, han già troppo da fare a ricordare ogni giorno ai figli di respirare, di aprire gli occhi o di infilarsi le scarpe, e almeno la gestione della cartella del figlio gli andrebbe risparmiata. Tanto, i compiti non li correggiamo mica a loro.

* "Consegna" è il pomposo termine con cui vengono indicate le istruzioni per fare un esercizio. Sono talvolta denominate anche "comandi". Ma qualsiasi nome usiamo per definirle, è noto che molti ragazzi non le leggono.

venerdì 20 dicembre 2019

Sherlock Holmes: di Natali e abbazie - Enrico Solito


Come tutti gli appassionati di Sherlock Holmes sanno, il magro canone del più famoso investigatore di tutti i tempi si limita  a quattro romanzi e a una sessantina di racconti, e di questo possiamo incolpare solo sir Arthur Conan Doyle, che non ha dalla sua la scusante di una morte precoce né di uno scarso successo della sua produzione holmesiana o particolari problemi del tipo blocco della scrittura o simili: infatti costui ha scritto immani quantità di roba di vario genere e qualità, ma solo raramente e in modo del tutto occasionale si è dedicato alla produzione di storie su Sherlock Holmes.
E tutto ciò è una vera ingiustizia - anche perché. ammettiamolo: non è che trascurava Sherlock Holmes per dedicarsi a scrivere l'Amleto o Guerra e pace, e senza quei quattro romanzi e sessanta racconti molto probabilmente oggi il suo nome oggi sarebbe noto a pochi specialisti del periodo e il suo nome confinato nelle note di qualche poderoso saggio del tipo Vasta analisi della letteratura vittoriana: tutto quel che avreste voluto sapere sugli scrittori dell'epoca e anche molto di più pubblicato in tre tomi nella collana "Nessuno si senta escluso".
Insomma, sin dai tempi in cui Conan Doyle era vivo i lettori hanno scalpitato e rumoreggiato per avere più Holmes, finché alla fine han deciso di applicare il buon vecchio criterio del "Chi fa da sé fa per tre" e si sono messi a scrivere storie in proprio. E nacque così il celebre Canone Apocrifo di Sherlock Holmes, dove si sono cimentate grandi firme del giallo e della letteratura*, scrittori stimabili e gente che se invece di prendere la penna in mano si fosse data all'ippica o alla botanica non avrebbe suscitato rimpianto in alcuno. 
In questo filone molto variegato sono comprese numerosissime storie decisamente stravaganti che il buon Sir Arthur Conan Doyle non si sarebbe mai sognato di scrivere,  nemmeno sotto l’influsso di  generose dosi di cocaina, e che spesso stravolgono completamente il canone attribuendo all’amatissimo detective un’assai cospicua serie di relazioni sentimentali con l’uno e con l’altro sesso  (con eventuali figli), avventure paranormali, viaggi nel tempo e molto altro che mi manca il cuore di riferire, e dove il principale sogno della gran parte degli autori sembra sia mettere a confronto Sherlock Holmes con Jack lo Squartatore la cui possibile identità comprende ormai una vastissima serie dio possibilità che vanno dall'erede al trono di Inghilterra allo stesso Holmes.
Enrico Solito, stimato neuropsichiatra infantile nonché lodevolmente impegnato nel sociale, rientra nella categoria "stimabili scrittori" e, oltre agli apocrifi holmesiani vanta una piccola produzione di romanzi storici ambientati negli ultimi due secoli. Nel fandom holmesiano internazionale gode di eccellente reputazione, in Italia e all'estero.
Il Nostro  ha scelto una strada dall’apparenza comune e scontata, scrivendo una serie di "apocrifi autentici”, per assurda che possa sembrare la definizione: storie perfettamente in linea  col canone di Conan Doyle dove l’ambientazione storica è impeccabile nei minimi particolari e nelle quali il suo Sherlock Holmes (ma anche il suo Watson, e questo è davvero raro) sembra appunto uscito da un racconto di Conan Doyle.
Ne viene fuori un canone parallelo a quello autentico, ricco di citazioni e rimandi di vario tipo, molto amato dagli appassionati ma tutt’altro che facile da reperire se non in formato elettronico. Perfino le mie amate biblioteche toscane, ormai da tempo strettamente collegate tra loro per fornire all’aspirante lettore quasi tutto quello che costui possa desiderare, offrono molto poco; quanto alle librerie, ormai da gran tempo le vecchie edizioni e le vecchie ristampe sono straesaurite.
Finalmente però qualcuno si è preso carico del triste caso. No, non il Giallo Mondadori - che pure ha inaugurato una collana riservata appunto agli apocrifi di Holmes  che racchiude una non modica quantità di materiale davvero orripilante e che a Solito ha offerto ben poco spazio - bensì la casa editrice Teaser LAB che gli ha riservato i primi dodici volumi della collana “I gialli di Crimen”. Il primo volume è uscito nel gennaio di quest’anno e l’ultimo (la collana ha cadenza mensile) uscirà nel gennaio dell’anno prossimo.
Particolare non trascurabile: i volumi arrivano in edicola. Secondo particolare assai gradito: a richiesta spediscono gli arretrati e indicano anche come richiederli su apposito sito.
La collana ristampa tutta la produzione holmesiana di Solito (due romanzi e un buon  numero di racconti, scritti nel corso di più di venti anni) e in ogni volume l’autore racconta nella prefazione i vari e gustosi retroscena che hanno portato alla stesura dei testi. Come chicca aggiuntiva, a puntate nei volumi di racconti c’è anche “L’enciclopedia di Sherlock Holmes”, redatta a quattro mani da Solito e da Stefano Guerra (altro grande esperto del fenomeno mediatico Holmes e tra i fondatori dell’associazione culturale “Uno studio in Holmes” che ha naturalmente anche la sua brava pagina su Facebook) dove con gran cura, ma anche senza alcuna paura, vengono esaminate tutte le questioni collegate o collegabili al grande detective ed esposte le più  varie teorie sulle sue origini, la sua vita, la sua ascendenza e financo la sua la discendenza.

Visto il periodo dell'anno, per presentare questa collana ho scelto il terzo volume della serie, intitolato Di Natale e di abbazie. Quasi tutti i più celebri investigatori del giallo classico (e anche quelli più moderni, mi sa) hanno almeno una storia ambientata a Natale, ma il canone classico liquida la questione col bel racconto Il carbonchio azzurro, che più di una delle mie classi ha avuto il piacere di apprezzare. The Sherlock Holmes Christmas Carol è un po' più crudo (insomma, c'è un cadavere con relativo omicidio) ma come tutti i racconti di Solito contiene, oltre ai vari rimandi al canone classico (compreso il motivo per cui un determinato racconto non poteva essere ignoto alla polizia, che Holmes illustra con garbata autoironia) ci sono altri graziosi ami lanciati al lettore: per esempio uno degli investigatori è il sergente Tibbs, delizioso personaggio felino protagonista della Carica dei 101, film dove l'episodio più importante si svolge appunto nei giorni intorno a Natale. 
Il volume contiene anche la seconda parte dell'enciclopedia di Holmes, ovvero la lettera B - dove, oltre al prevedibile Baskerville abbiamo la possibilità di imparare come burro, brandy e banche vengano utilizzati nel canone di Conan Doyle.
Questo volume, come tutti gli altri dodici della serie, è perfetto per il tempo di Natale, quando stare in casa a riposarsi leggendo una bella storia di Sherlock Holmes è uno dei grandi piaceri della vita, tra un panettone e un pandoro (ma senza sdegnare ricciarelli, panforte, struffoli e torroni).

Con questo post partecipo al Venerdì del libro di Homemademamma e auguro buone feste di Natale a tutti gli appassionati lettori che passano di qua.

* Ellery Queen e Stephen King, tanto per fare due nomi

martedì 17 dicembre 2019

Come imprimer lo sacro amor per la lettura ne' cuori de' fanciulli


Spesso vagando per la rete mi imbatto in consigli e suggerimenti che si propongono di aiutare i genitori e gli insegnanti di ogni ordine e grado nella difficile missione di avviare le nuove generazioni verso l'amore per la lettura; un po' per motivi professionali e molto per curiosità li leggo sempre con attenzione e talvolta con una certa perplessità: a tutt'oggi e nonostante sia lettrice assai entusiasta non sono poi così convinta che i giovani debbano amare la lettura, vuoi perché credo che, per sua stessa definizione, l'amore sia sentimento assai anarchico e vada un po' dove gli pare, vuoi perché mi sembra evidente che, anche senza amare la lettura, si possa vivere benissimo e con grande soddisfazione.
Ritengo invece del tutto indispensabile (e le indicazioni ministeriali concordano con me) che i giovani in questione imparino a venire a capo di un testo scritto senza difficoltà, e sono fermamente convinta che, se non acquistano questa capacità, la felicità o anche lo scorrer sereno della loro vita futura potrebbe incontrare grossi ostacoli.
Si tratta comunque di distinzioni del menga: indipendentemente dal fatto che amino o schifino la lettura come passatempo, alla scuola di base, che è quella in cui lavoro io, i ragazzi devono leggere, e parecchio, per amore o per forza (meglio se per amore, naturalmente).

Tutti questi autori di nobili consigli comunque convergono su un punto, e cioè che la lettura per diletto non vada imposta né debba essere vissuta come obbligo cui adempiere nel tempo libero, e soprattutto che deve essere fine a sé stessa, non oggetto di faticosi compiti, sunti, schede eccetera; e su questo principio base sono assai d'accordo, anche perché di fatto ognuno ama quel che gli pare e solo quello. Insomma, in classe si fa quel che dico io (leggendo parecchio, con una scusa o con l'altra) ma fuori di classe e una volta eseguiti i compiti assegnati, i fanciulletti devono essere liberi di leggere o non leggere come meglio li aggrada.
Nella mia funzione di bibliotecaria dunque cerco di adempiere a entrambe le finalità mettendo a disposizione dei nostri pregiati alunni nella biblioteca letture di ogni genere e tipo e anche letture senza parole, variate e gradevoli, spesso ben provviste di illustrazioni eccetera.

Quest'anno, alla riapertura della biblioteca scolastica della scuola media di St. Mary Mead mi sono trovata però davanti a scene piuttosto curiose. I ragazzi delle prime sono entrati nella biblioteca, hanno ascoltato le mie sommarie spiegazioni su com'era organizzata la suddetta biblioteca e infine hanno proceduto a un esame della medesima, piluccando qua e là. 
Poi hanno cominciato ad avvicinarmi con strane domande.
"Posso non prendere un libro?"
Sì, certo, puoi. Questa è una biblioteca, non una tagliola, se non trovi niente che ti ispira non prendi niente e amen.
"E se poi il libro non mi piace?".
Se non ti piace lo riporti a scuola e ti scegli qualcos'altro, oppure lasci perdere e non prendi un bel niente. Questa è una biblioteca, non una tagliola.
"Questo libro mi interessa, ma ho paura che non mi piaccia tutto"
Non vedo il problema: leggi quello che ti interessa e lascia perdere il resto.
"Ma posso farlo?"
Certo che sì, non vedo il problema.
"Posso prendere Geronimo Stilton?"
Certo che sì, abbiamo messo i Geronimo Stilton appunto perché chi vuole li legga.
"Posso prendere in prestito un fumetto?"
Ehm, sì; in effetti li abbiamo messi sugli scaffali appunto con questa speranza.
(Va detto sono molto fiera della mia sezione a fumetti, perché essa non esiste: i fumetti sono sparsi a seconda dei generi e degli argomenti, per meglio evidenziare il fatto che essi sono letture come tutte le altre.
"Il fumetto è un medium, cioè un mezzo espressivo, e serve a sviluppare argomenti di ogni genere" spiego sempre con grande fermezza a chi mi chiede dov'è la sezione fumetti (e anche a chi non me lo chiede affatto). Sto persino pensando di smantellare la sezione Disney, e solo il fatto che certi volumi di storie non saprei davvero dove infilarli nella bislacca classificazione che ho adottato mi ferma, per il momento).
"Ma dopo dobbiamo portare il riassunto?"
Assolutamente no: questa è una biblioteca, non una tagliola.
Piano piano ha cominciato a svilupparsi nel mio pur fiducioso cuoricino il forte sospetto che, laggiù nelle scuole elementari, i maestri indulgessero a pratiche perverse seviziando dolorosamente i poveri libri della biblioteca scolastica, tanto che mi ero perfino ripromessa di meditare seriamente sulla possibilità di affrontare l'argomento con gli insegnanti in questione - una variante diplomatica del "Scusate, ma davvero fate di queste stronzate quando date in prestito a questi poveri innocenti i libri della vostra biblioteca, fargli fare la scheda, spiegare che devono leggere tutto eccetera? Guardate che non siamo più nell'età della pietra e il povero lettore ha i suoi diritti, garantiti dalla Costituzione, e soprattutto continuando così quei poveri bambini avranno i crampi allo stomaco alla sola vista di un libro!". 

Poi un bel giorno la prof. Therral è arrivata in biblioteca con la Seconda Invasata al seguito. Tutti hanno fatto la confusione che fa ogni classe quando li portano tutti insieme in biblioteca, e tutti hanno preso il loro libro. Alla fine, in mezzo al mucchio di macerie che è di rigore in questi casi* la professoressa ha detto ad alta voce "Bene  ragazzi, per la settimana prossima ognuno di voi esporrà il libro ai compagni e preparerete la scheda".
In cuor mio ho sgranato gli occhioni. Ma come? E i Diritti del Lettore? E lo svincolo da ogni obbligo quando si legge? E...
Comunque non ho aperto bocca: in classe l'insegnante è sovrano e si gestisce la programmazione come meglio crede. Ma, certo, è chiaro che così il discorso dell'approccio ludico alla lettura va a farsi benedire.
Due settimane dopo ero per l'appunto in quella classe.
"Quando ci porta in biblioteca?"
Li ho portati due giorni dopo, utilizzando in tal modo un'ora di supplenza.
Bravi e buoni, si sono presi quasi tutti il loro libretto e poi si sono messi tranquillamente a leggere. Intorno a loro, il casino era molto blando. Alcuni sfogliavano la Storia d'Italia a fumetti, altri spulciavano la sezione della mitologia; qualcuno leggeva qualcosa insieme a qualcun altro. Siamo ritornati in classe in modo quasi disciplinato (che con quella classe è evento abbastanza insolito).
A quanto sembra, il loro rapporto con la lettura non è dei più schifidi.
Succede spesso, con le classi della prof. Therral.

*normalmente ci vuole almeno mezz'ora per risistemare la biblioteca, dopo il passaggio di una classe. Ma non batto ciglio e, riordinando il tutto, smoccolo solo molto moderatamente.

lunedì 9 dicembre 2019

Morbo inglese (post about the horrible use of foreign words in italian language, expecially in the didattichese)

Pudding inglese o panettone?
Entrambi, potendo. Altrimenti, quello che avete più facilmente sottomano o che preferite, tanto sono entrambi buonissimi

Ordunque, è mia malsana intenzione dedicarmi oggi ad un tema assai serioso, ovvero quello dell'uso dei prestiti stranieri in italiano. 
Premetto che non ho nulla in contrario alle iniezioni, anche in dosi massicce, di parole straniere nella mia lingua nativa. Sono una dama hejan abbastanza acculturata da sapere che nei prestiti stranieri le lingue ci han sempre sguazzato alla grande. 
Quanto all'italiano, lingua di frontiera per antica tradizione di una terra che dalla notte dei tempi si lascia visitare (e anche invadere) con grande facilità, sappiamo che di parole straniere è pieno e ben impastato come un dolce di Natale è pieno di canditi, uvette e zuccherini. Parole di origine greca, longobarda, araba, francese, spagnola, tedesca hanno sempre pascolano felicemente fianco a fianco delle parole di origine italica, e del resto è ben noto che l'incontro con le culture e le mode straniere arricchisce le lingue e le fa crescere, mutare ed evolversi. A volte magari si esagera un po', ma di solito la febbrata passa in pochi anni e il corpo estraneo viene incorporato nella lingua (manga, fan, medley), addomesticato (matriosca, sciantosa, brioscina) e più spesso, dopo qualche anno, tradotto (tramezzinofine settimana).
A volte le ondate sono belle massicce, specie quando l'invasione di parole è stata preceduta da una invasione di truppe conquistatrici - da una di queste invasioni per esempio la lingua anglosassone non si riprese mai più e dal calderone nacque l'inglese, che andrebbe forse chiamato anglonormanno ma che è comunque lingua più che degna e che ci ha regalato una letteratura di grandissimo pregio.
Talvolta però l'impressione è quella di una gigantesca presa di giro.

Morbus Anglicus è un celebre (in alcuni ambienti) articolo pubblicato nel 1987 da Arrigo Castellani, esimio linguista che per vari anni ha insegnato Storia della Lingua Italiana all'Università di Firenze - un eccellente studioso che però molti dei suoi allievi consideravano alla stregua di un pazzo furioso appunto per questa sua paura di una invasione di termini inglesi, che suggeriva di adattare variamente, talvolta italianizzandoli (come nel caso di sanguiccio, che avrebbe dovuto rimpiazzare il sandwich e che oggi è tornato panino o al più tramezzino, oppure il mirabile coccotaglio che avrebbe dovuto sostituire il cocktail) e talvolta traducendoli (come nel caso di entredima, che avrebbe dovuto sostituire week end, sopravvissuto ormai da tempo rimpiazzato dal ben più banale fine settimana nella maggior parte dei casi).
L'articolo comunque suscitò un certo vespaio che andava ben oltre gli scherzi e i lazzi degli irriverenti universitari (nel cui numero mi pregiavo di appartenere) ed esimi linguisti discussero il curioso fenomeno, alcuni convenendo che la nobile lingua italiana stava andando in gran decadenza per colpa di sì dissennati prestiti, altri che il problema era in verità assai contenuto e tante volte si era già presentato e altrettante volte era stato agevolmente superato. Ad ogni modo il sanguiccio (o sanduiccio, a seconda di come si decida di traslitterare il gruppo dw, e in italiano, almeno nei tempi andati, la traslitterazione più corretta era appunto -gu-) e l'entredima non hanno mai attecchito molto, al di là della divertita cerchia degli allievi che si divertivano assai ad offrire coccotagli agli amici in visita, e anche le mission e le vision che usavano molto negli anni Novanta tra i manager rampanti hanno ormai un certo consolante tocco d'antan. 
In compenso però adesso sta piovendo di tutto dall'inglese, o meglio dall'americano, molti dei più convinti sostenitori dell'innocuità del morbus anglicus hanno visto assai indebolite le loro convinzioni e si sono fatti ben più catastrofisti in materia ammettendo di aver sottovalutato il problema e anch'io sto cominciando ad avvertire i sintomi di una certa saturazione.
Il punto è che, mi sono accorta con orrore, sono cominciati a entrare in scena i verbi. E questo non mi piace perché incastrare un verbo inglese in una frase italiana produce risultati atroci per le mie orecchie - anche perché i parlanti che esibiscono sì orripilanti frasi mostrano chiari segno di conoscere male l'italiano e peggio ancora l'inglese. Non ne viene fuori una lingua ancora ibrida prodotta da persone ormai abituate a pensare contemporaneamente in due lingue e a riportare dalla loro seconda lingua la parola o il concetto che nell'altra lingua un vero equivalente non ce l'ha - quello, probabilmente, mi piacerebbe o comunque mi ci adatterei di buon grado perché si sa, la lingua la fa il parlante, e il gergo pure. Ma spesso e volentieri ne viene invece fuori un pastone che gli stessi maiali, per quanto onnivori, faticherebbero assai a mandare giù. 
Non posso farci niente, quando sento parlare di qualcuno che ha fatto outing - o, un minimo più correttamente, ha fatto coming out nel senso che è uscito  allo scoperto, ha rivelato qualcosa di sé (di solito una sua preferenza in fatto di partner, ma ormai si usa per qualsiasi tipo di rivelazione destinata a fare una certa impressione su chi ascolta) mi si attorcigliano abbastanza le budella perché la frase che ne risulta è orripilante sia in italiano che in inglese. Comunque gli anni ci riveleranno se fare coming out diventerà un verbo stabile in italiano, come fare la partenza o far finta di niente, oppure se verrà addomesticato in qualche modo.
Di fatto, molti dei prestiti inglesi entrati negli ultimi tempi in circolazione sembrerebbero presumere una certa dimestichezza con la lingua inglese - che invece in Italia al momento scarseggia - e invece di introdurre concetti nuovi che la nostra lingua ancora non contiene danno l'impressione di una traduzione maldestra improvvisata al puro scopo di dare un tono di distinzione al discorso; senza grandi risultati, peraltro, perché, insomma, come di fa a prendere sul serio qualcuno che ti parla di decision making o di problem solving? E cosa si deve pensare vedendo annunciare trionfalmente sulla copertina di un libro di testo che dentro c'è anche la flipped classroom, che già fa ridere anche in italiano (classe capovolta) e che, insomma, consiste nientemeno che nel mettere in cattedra uno o più allievi a riferire i risultati di un lavoro o di una ricerca - che non  solo è una pratica comunissima oggi in base alle più moderne tecniche didattiche, ma lo era già quando facevo le elementari e ci chiamavano alla cattedra per esporre le varie ricerche sulla taiga, Mozart, Alessandro Volta e Giacomo Leopardi? Quanto a classroom come prestito inglese mi sembra ben al di là del ridicolo e dell'inutile. Se proprio si vuol fare una robusta iniezione anche a livello sintattico di lingua inglese nella lingua italiana giusto per il gusto di infilarci dei concetti che anche in italiano già ci sono, per pietà, non sarebbe il caso di farlo fare a qualcuno che ha un po' la conoscenza di almeno UNA di queste eccellenti lingue che ci si accinge a manipolare, e usare un po' di criterio?

In conclusione: non credo che il peer learning (apprendimento tra pirla? Ma non mi sembra molto gentile, detto così) e il cooperative learning (imparare alla Coop? Perché no, organizzando delle attività anche molto valide per le scuole) metteranno a serio rischio la struttura e l'essenza della lingua italiana, ma finché le mie povere budella sono ancora fragili e delicatine farò bene ad accostarmici con molta cautela, applicando insomma un indirizzo (way) di cautive learning.

venerdì 6 dicembre 2019

Astrobufale - Luca Perri

L'ho occhieggiato alla Mostra del Libro della scuola. Mi guardava con fare tentatore e sembrava dire "Prendimi, prendimi!".
"Per la biblioteca di scuola, perché no?" mi sono detta allungando la manina "Quest'anno l'astronautica va di moda, la lotta alle fake news è obbiettivo trasversale per tutti noi... vediamo un po' com'è fatto". 
L'ho aperto e mi sono messa a leggere. Quando ho rialzato gli occhi perché arrivava una classe in visita avevo giù letto una trentina di pagine. Piuttosto scorrevole, tutto sommato. 
Ci sono otto coppie di affermazioni, alcune all'apparenza folli, altre dall'aspetto molto ragionevole. Sì, poi risulta che quelle dall'apparenza folle di solito sono vere, e quelle ragionevoli false. Non sempre, però. In mezzo c'è la storia dell'astronautica a partire dagli anni 40, ovvero quei bei tempi andati in cui gran parte della ricerca aeronautica era finalizzata alla costruzione di bombe e bombardieri - come anche adesso, del resto.
Luca Perri è un brillante e spigliato giovinetto (classe 1986) dottorando in astrofisica nonché astronomo, che da qualche anno lavora anche nella divulgazione, soprattutto quella per ragazzi. Questo non è il suo primo libro dedicato all'arduo cammino della ricerca scientifica e delle trappole in cui costei si caccia continuamente suo malgrado. 
Siccome non ero del tutto sicura che il libro fosse adatto ai ragazzi, intanto me lo sono comprato per me, così potevo ponderare la questione con più calma.
È stato una lettura assai gradevole che mi ha aiutato a rispolverare le mie scarse cognizioni astronomiche - per esempio, finalmente ho capito quando e come mai il povero Plutone è stato brutalmente declassato da "pianeta" a "pianeta nano" (e sembra che non sia affatto una questione di dimensioni ma di massa, anche se non sono sicura che Thorin Scudodiquercia sarebbe completamente d'accordo con tutto ciò), ho chiarito in cuor mio la questione del lato oscuro della Luna, ho scoperto che la Grande Muraglia Cinese non è affatto visibile dallo spazio, qualsiasi cosa affermino le didascalie dei manuali delle scuole medie e tante altre cosarelle più o meno interessanti e più o meno sorprendenti. Inoltre ho letto ampi stralci del discorso che il presidente degli Stati Uniti allora in carica si era fatto preparare nel caso in cui, ahimé, gli astronauti dell'Apollo 11 non ce l'avessero fatta a tornare indietro dalla Luna, ed è stato divertente ora che tutto è finito bene.
Com'ero messa con le bufale? Di alcune giù sapevo che erano bufale prima di leggere il libro, per cui ho risposto bene, ma in vari casi ho abboccato come una carpa - vedi appunto la Muraglia Cinese.
Ho anche compreso che la Misteriosa Questione degli UFO si era andata chiarendo via via col tempo quando avevano desecretato un po' di documenti militari - per lo più sembra che si sia trattato di esperimenti dei vari centri aerospaziali. Del resto, è noto persino a me che la vera prova del fatto che siamo stati individuati da intelligenze superiori è che queste intelligenze, proprio perché di superiore levatura si sono ben guardate dal cercare di contattarci. 
E ho anche trovato un bell'elenco chiaro ed esaustivo delle varie prove del fatto che sì, siamo davvero andati sulla Luna. Io, per la verità, non ne ho mai dubitato nemmeno per un istante - non in base alle mie raffinate conoscenze scientifiche bensì per il semplice motivo che l'URRS non ce lo ha mai contestato -  che motivo avrebbe avuto per non contestarcelo, qualora avesse avuto l'ombra di una possibilità di dimostrare al mondo che non c'eravamo stati? E chi altri mai se non l'URSS era a un tale livello di conoscenze sullo spazio da poter controllare se davvero avevamo raggiunto o meno la Luna?

Rimane la Grande domanda: è adatto a uno studente delle medie?
Sì, senza dubbio. Qualsiasi tredicenne di media formazione ne viene a capo senza difficoltà, quindi se caso mai qualcuno che passa di qui fosse in cerca di un suggerimento per un regalo di Natale sotto forma libraria, direi che va bene per chiunque dai dodici anni in su. Non è economicissimo (la versione su carta viene diciotto euro, ma quella liquida costa poco più della metà e funziona altrettanto bene perché nel libro c'è solo testo, senza altra illustrazione che quella di copertina) ma alla fine il rapporto qualità/prezzo mi sembra piuttosto buono.

Con questo post di alto valore scientifico partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro a tutti comete luminosissime per la notte di Natale.

mercoledì 4 dicembre 2019

A cosa serve il registro elettronico? - 7 - Davvero a troppe cose, se non ti ricordi di chiuderlo

Uno dei molti problemi di Argo anni fa era che la seduta scadeva subito, nel giro di pochi minuti, e il tapino di turno che voleva usarlo per un po' di tempo era costretto a fare e rifare l'accesso una infinità di volte, con suo grande disappunto & giramento di palle estremo. Una lagna da non dirsi.
Sembra però che questo inconveniente sia stato eliminato. Sì, davvero sembra.

Alla seconda ora di Lunedì entro nella Terza Zuzzurlona. 
"Avete fatto il registro?".
"No, a Spagnolo ci ha portato giù in laboratorio".
Cose che capitano. Accendo il computer. O meglio scopro che è giù acceso.
E aperto sulla pagina del registro.
Visto che è aperto sui compiti di Matematica ne deduco che è stato lasciato aperto dall'insegnante appunto di Matematica... all'ultima ora di Sabato.
E mo' che faccio? Esco e poi rientro notificando così che il registro era ancora aperto?
Davvero non mi par cosa. I nostri alunni sono tutti angeli, questo lo do per scontato, ma è cosa nota che anche gli angeli possono cadere in tentazione, se provocati - e insomma lasciare scodellato il tutto con tanto di voti a disposizione mi sembra un pochino pericoloso, anche se, ripeto, i nostri alunni sono tutti angioletti provvisti di regolamentare aureola e grandi ali spiegate.
Per fortuna il male stavolta ha in sé il suo rimedio: Matematica là dentro è anche il coordinatore e quindi può mettere le assenze quando vuole anche se quel giorno non ha lezione.
Apro la schermata dell'appello, segno le assenze, segno le giustificazioni, poi chiudo il tutto a grande velocità. E speriamo di non esserci fatti troppo notare.
Speriamo.

Non è la prima volta che succede, ma le altre volte l'insegnante che aveva lasciato aperto il registro era quello dell'ora precedente. E insomma non è proprio il massimoi ma la sorveglianza è continua e il rischio che un alunno intraprendente decida di rimediare a qualche voto non troppo buono è minimo - fermo restando che comunque è meglio non indurre in tentazione nessuno. 
Che però l'ineffabile Argo mantenga aperta la sessione per più di sessanta ore mi sembra davvero un po' eccessivo, soprattutto se in queste sessanta ore e passa nessuno ci ha scritto sopra nemmeno "Crepa!".

Comunque da allora ho preso da parte un paio di colleghi e gli ho fatto un garbato discorsino. 
E quando faccio l'ultima ora ho sempre gran cura di spengere il computer prima di lasciare la classe.
Resto comunque un po' perplessa.

venerdì 22 novembre 2019

Queen Opera omnia. Le storie dietro le canzoni - Roberto De Ponti



C'è sempre qualche scriteriato che accusa gli appassionati di questo e di quello di farlo solo "perché è di moda" (che poi, quand'anche fosse vero, non capisco proprio cosa ci sia di male. Quante cose belle e piacevoli ho scoperto solo perché "erano di moda" e altrimenti non avrei mai nemmen saputo che esistevano?).
A tutto però c'è un limite, e ammetto di essere rimasta parecchio perplessa e anche un po' scandalizzata quando su Facebook ho trovato qualcuno che deprecava "tutti quei fan dei Queen che prima che uscisse il film nemmeno sapevano che cos'erano i Queen".
In Italia, non su Marte.
Giù, proprio vero, prima che uscisse il film Bohemian Rhapsody i Queen in Italia non se li filava nessuno, e infatti tutti dissero "Oh guarda, un film che parla di gente sconosciuta mai sentita nominare e di cui non mi importa un bel nulla, mi precipiterò a vederlo", e tanto lo dissero che il film su questa gente sconosciuta di cui nessuno si interessava diventò campione di incassi in un batter d'occhio e lo rimase per un pezzo.
Quando il film uscì io ero all'ospedale (in quel periodo ero sempre all'ospedale) e ricordo benissimo torme di infermieri e assistenti vari che si proponevano di vedere il film quella sera o l'indomani, o lo avevano visto la sera prima e ne riferivano a colleghi e pazienti, i quali a loro volta se erano stati ricoverati pochi giorni prima ed erano sotto gli ottanta anni si informavano su com'era e se valeva la pena andarlo a vedere una volta usciti da lì (tranne me uscivano quasi tutti in pochi giorni e già pronti ad affrontare il mondo) - e senza alcuna difficoltà lessi tonnellate di recensioni assai entusiaste e discussioni varie sulle licenze che si erano presi gli sceneggiatori, la bravura degli attori eccetera, e tutti a parlare dei Queen come se ci avessero preso insieme il latte da bambini. 
Sostenere che i Queen prima dell'uscita del film erano un fenomeno di nicchia, apprezzati da un piccolo manipolo di fedeli fan è davvero assurdo. Io che scrivo li seguivo con un certo interesse sin da ragazzina e ho diversi dischi su vinile più qualcosa su CD, ma gran parte dei fan dei Queen sono molto, molto più giovani di me e i Queen li hanno conosciuti e ascoltati dopo la morte del compianto Freddie Mercury - che ormai ci ha lasciato da quasi trent'anni.
Semplicemente, i Queen hanno bucato le generazioni e sono sempre stati ascoltati. Non è un culto di nostalgici, è un fenomeno che ormai imperversa da una cinquantina d'anni: il loro primo disco è del 1972, ma in Italia arrivarono un po' più tardi, nel 1976, con Somebody to love
e da allora hanno continuato a imperversare con grande regolarità - ho già raccontato il mio sbalordimento quando per la prima volta trovai una classe che batteva sui banchi il ritmo di We Will Rock You, ma posso aggiungere il mio ulteriore sbalordimento quando lessi su Facebook il post di un mio alunno che citava "l'unica canzone che puoi scrivere anche senza le parole" (sempre We Will Rock You, che infatti riconobbi facilmente dal tum-tum-clap scritto dal ragazzo in questione. O era una ragazza?).
E, tanto per continuare a ricordare episodi che mi hanno sbalordito, di questo libro ho avuto notizia... da Radio Radicale, che a volte presenta libri, ma di solito si tratta di raccolte di saggi sulla Costituzione, analisi di movimenti politici o simili,  perché non è esattamente una emittente accentrata sulla musica rock.
Comunque presentarono il libro, con una bella chiacchierata di mezz'ora. E visto che all'epoca (poco più di un mese fa) ero ormai ampiamente uscita dall'ospedale, mi precipitai a telefonare alla mia libreria di fiducia perché me lo procurassero a gran velocità perché - dissi testualmente - DOVEVA essere mio nel più breve tempo possibile.

Come si può evincere dalla foto, non è un picciol libro: cm. 24x17, 480 pagine scritte a caratteri non molto grandi e belle fitte, di cui meno di una decina dedicate a indici e bibliografie, sovraccoperta rigida bordeaux con sopra stampata la celebre corona inglese, niente fotografie o illustrazioni, solo testo, il tutto per 24 euro che mi sembra un ottimo rapporto qualità/prezzo.
Niente testi delle canzoni, solo chiacchiere - ma tanto i testi li trovi con la massima facilità in rete, perfino quello di Mustapha ´(testo in inglese, arabo e gujarati, che è una lingua indiana, e nemmeno l'informatissimo Di Ponte sa di che accidente parli. Sembra che lo sapesse soltanto Freddie Mercury).

Si parla delle canzoni e solo di quelle, e dei relativi dischi, in ordine cronologico. Ogni canzone ha la sua storia, le sue curiosità, le sue discussioni (i Queen discutevano parecchio, in sala di incisione, senza lesinare sui litigi, ma in una ventina di anni di onorata carriera non si separarono mai né cambiarono formazione, e questo è un record). Abbiamo canzoni nate letteralmente nella vasca da bagno, canzoni partite da una base ritmica o una frase (no, non una frase musicale  - cioè sì, anche quello. Ma alcune sono nate proprio da una frase che continuava a ronzare in testa a uno dei quattro; canzoni dedicate ai gatti (no, non solo Delilah) eccetera eccetera.
Nel libro sono compresi anche i dischi ufficiali dal vivo e un inserto di diverse pagine dedicato alla loro esibizione al Live Aid che, ho scoperto per l'occasione, è considerata da molti la più grande esibizione dal vivo di tutti i tempi di una rock band.
Ho così scoperto come sono nati i titoli e le varie copertine, come i Queen curassero attentamente ogni dettaglio, come in certe canzoni gli autori sono genericamente "i Queen" perché certamente l'idea è partita da uno di loro quattro, ma alla fine dell'incisione ci avevano lavorato talmente in collegiale che nemmeno loro ricordavano chi l'avesse fatta partire, che il bassista John Deacon è l'unico che non ha mai fatto un disco da solista perché non sapeva cantare, che la bellissima Show Must Go On, canzone autobiografica di Freddie Mercury scritta poco prima di morire  non è stata scritta da lui pur essendo indubbiamente il suo testamento e che i mitici falsetti di Bohemian Rhapsody non sono cantati da Freddie ma da Brian May e tante altre cose.

Si può leggere dall'inizio alla fine, ma anche dalla fine all'inizio, per carotaggio, a spizzichi, saltellando qua e là. Per l'appassionato medio come me si tratta di un pasto abbondante e assai gustoso, anche se probabilmente i fan più specializzati conoscono giù buona parte del contenuto. Per tutti comunque c'è qualcosa da scoprire.
L'accento è molto più sulla musica che sulle vicende umane e i ricordi d'infanzia e le vicende private sono veramente ridotte al minimo. In compenso alla fine su quelle canzoni sappiamo veramente tutto quello che avremmo voluto sapere e anche molto di più.
Infine: una lettura perfetta se avete accanto un qualche cosa per ascoltare le canzoni di cui si parla, come faccio io con il tablet.

Con questo post partecipo al Venerdì del libro di Homemademamma e auguro a tutti buone letture per questo fine settimana.

mercoledì 20 novembre 2019

È ufficiale: Stefano Cucchi NON è morto di noia



Contrariamente a quanto ci avevano ufficialmente comunicato 5 anni fa, altrettanto ufficialmente da qualche giorno è stato stabilito, dopo lunmgo processo, che Stefano Cucchi non è morto di noia, di mal di vivere o di altro malessere esistenziale, bensì a seguito delle percosse ricevute nel corso della sua pur breve detenzione. Tutta la complessa vicenda giudiziaria è stata estremamente dolorosa, non solo per amici e parenti della vittima ma anche per chiunque avesse a cuore la situazione dei diritti civili in Italia, ma alla fine il tutto si è risolto secondo giustizia, anche se ci è voluto davvero molto tempo.
Da quando Stefano è morto ho festeggiato dieci compleanni, sono entrata di ruolo, ho comprato casa, ho sepolto una gatta amatissima e ne ho adottate due, ho comprato due moto, sfiorato la morte, riletto due volte il Signore degli Anelli, partecipato al funerale di una nonna, uno zio e di mia madre, scritto svariate centinaia di post su questo blog (di cui uno solo dedicato a lui, ma questo è il secondo), licenziato sette classi con relativo esame e ho vissuto tante altre cose, piccole e grandi, di quelle che compongono il tessuto della nostra esistenza; ho anche seguito da lontano le alterne vicende dei processi sulla sua morte. 
Dieci anni sono lunghi da passare. Ma magari a lui sarebbe piaciuto passarli da vivo. Oh sì, aveva i suoi problemi. E chi non ne ha? Ma i problemi si affrontano, si superano, a volte si risolvono. In dieci anni possono succedere tante cose.
Ecco, a lui invece non è successo niente.

E niente sarebbe successo di collegabile al suo nome se la sua famiglia, soprattutto la sorella, non avessero tenuto duro con le unghie e con i denti insistendo nel dire che Stefano non era morto di morte naturale (o di sonno, o di noia).
Adesso qualcuno sta cercando di spiegare che la sorella non è stata mossa da purissimi sentimenti di ricerca della giustizia o simili, ma da smodato desiderio di fama ed eccessivo esibizionismo.
Il che, quand'anche fosse assolutamente vero, non sposterebbe di mezzo millimetro la questione: per qualsiasi oscuro motivo abbia eventualmente agito la sorella, sta di fatto che la sua risoluta insistenza a capire come come mai il fratello, vivo al momento dell'arresto, una settimana dopo era morto in pessime condizioni fisiche, ha portato a scoprire che diverse leggi erano state violate.
Del che io le sono assai riconoscente e fermamente credo che tutti noi cittadini dovremmo esserlo.
Le chiacchiere degli orchetti passano, i morti non ritornano, ma le sentenze restano. E per noi comuni cittadini resta anche la speranza di un paese migliore e la fiducia nel futuro.

lunedì 18 novembre 2019

Siam giunti, ecco la torre dove di stato / gemono i prigionieri (post sulle forme di didattica innovativa)

In questi giorni gli insegnanti di St. Mary Mead sono lievemente irritati (e io molto più della media)


Non so perché, ma i Dirigenti Scolastici da noi non durano mai a lungo: pochi anni e spariscono nel nulla. La Preside Reggente, che tutto sommato non ha lavorato male, è andata in pensione l'anno scorso accompagnata dal tradizionale mazzo di fiori con regalino e tutti eravamo assai curiosi di vedere cosa sarebbe arrivato di nuovo, ché ormai il concorso per Dirigenti Scolastici stava sfornando le prime mandate.
A Settembre è arrivata una simpatica signora che ci ha ammanito un bel discorsetto: lei era per il dialogo, solo per il dialogo, la sua porta sarebbe stata sempre aperta per noi, voleva conoscerci, voleva capire, voleva collaborare...
Già questo avrebbe dovuto metterci sull'avviso. Ma noi siamo una scuoletta di provincia, con insegnanti assai ricchi di buona volontà ma un po' sprovveduti, e insomma abbiamo abboccato come tante carpe.
Dopo i primi sopralluoghi Cornelia Caramell ha osservato che c'era stato un certo calo negli iscritti. Qualcuno aveva provato a farle notare che la notizia dei nuovi, Grandi Lavori di ristrutturazione della scuola e la prospettiva di veder passare ai figli un anno nei container poteva avere avuto una qualche responsabilità nella decisione di certi genitori di non iscrivere da noi la loro prole. Lo spettro dei lavori si era poi allontanato, venendo sostituito dalla prospettiva di un misterioso Cappotto Sismico (?!?) che dovrebbe essere eseguito durante la prossima estate, ma c'è il caso che qualche genitore non avesse avuto troppa fiducia nella reale conclusione dei lavori durante l'estate, e chissà se tale sfiducia si rivelerà davvero infondata, alla resa dei conti.
Qualcun altro invece sosteneva che molti avessero deviato verso Pietraforata (da sempre la nostra grande rivale per le iscrizioni) perché lì si faceva scuola con la didattica DADA.
"Icchell'è i' Dada?" è stato chiesto da più parti da noi insegnanti campagnoli, che al più ricordavano il leggendario Dadaumpa delle gemelle Kessler


Le spiegazioni sono state piuttosto vaghe.
"Funziona come il sistema inglese, l'insegnante sta fermo e si spostano le classi".
"Ah, come in Harry Potter".
"E poi si usa una didattica laboratoriale".
"Ah..." (cosa sia esattamente una didattica laboratoriale nessuno di noi l'ha ancora capito bene, anche se in effetti abbiamo un laboratorio scientifico che è laboratoriale assai e un po' di laboratori sparpagliati, uno pure per la cibernetica, di cui viene fatto grande uso).
"Capisco che ai ragazzi faccia piacere essere loro a spostarsi" osserva alla fine qualcuno "Ma non mi sembra poi questo gran cambiamento. Possibile che sia tutto qui?"
Chiediamo dunque un po' di materiale esplicativo alla Preside Cornelia, che ci manda un quartetto di pagine che spiegano che DADA è buono, bravo e bello e rappresenta la soluzione a tutte le difficoltà di apprendimento, le quali al suo arrivo spariscono per incanto. Scopriamo anche che si mettono i banchi in posizione diversa, a gruppi.
Il tutto ci sembra un po' autoreferenziale e non ci chiarisce affatto le idee.
Nel frattempo qualcuno ha raccattato un po' di informazioni dai colleghi di Pietraforata, che, scopriamo, per imparare a far spostare i ragazzi hanno fatto tre anni di formazione.
"Tre anni di formazione? Ma la Cornelia vuol cominciare l'anno prossimo".
Certo, per imparare a far spostare i ragazzi qualche mese dovrebbe essere più che sufficiente, ma in molti di noi alberga il sospetto che la didattica DADA comprenda anche qualcosina in più.
Ciò nonostante al Collegio votiamo per il DADA dall'anno prossimo. Qualcuno però è perplesso. Molto, molto perplesso.
In quel Collegio, detto per inciso, la Preside Cornelia ci annuncia anche l'arrivo di una circolare, molto dettagliata, sulla sorveglianza e la sicurezza.
Nessuno commenta, anche perché non abbiamo nulla in contrario alle circolari molto dettagliate, specie se ci aiutano a tenere i ragazzi al sicuro.
Un pomeriggio di pochi giorni fa me ne stavo buona buona nel mio cantuccio, tutta assorta a leggermi un libro sulla triste storia di Napoleone II, quando mi chiama la Referente di Plesso.
"Murasaki, ho spedito una circolare ma non a tutti è arrivata. Tu l'hai ricevuta?"
"No, ho aperto la posta alle tre e non c'era nessuna circolare" rispondo assai paciosa. La Responsabile è persona assai garbata e cortese e sarebbe una vergogna essere men che cortesi con lei.
"Te la rimando. È la circolare sulla sicurezza. Dice che da domani i ragazzi faranno l'intervallo in classe".
Segue da parte mia un ruggito informe accompagnato da una frase che non riporterò perché, davvero, era del tutto sconveniente per una dama hejan, sia per il contenuto lessicale sia, soprattutto, per l'intonazione della voce e il volume della suddetta. Come sempre in questi casi, le gatte mi guardano perplesse ma non troppo preoccupate.
"Ma non si dovrebbe cominciare il DADA l'anno prossimo?" articolo quando alla fine ritrovo una barlume di autocontrollo.
"È quel che le ho detto, ma mi ha risposto che è anche meglio, così i ragazzi si abituano ad essere responsabili".
"Ma ci prende per il culo oppure ci prende per il culo?" mi informo. Considerando le circostanze va riconosciuto che è stata una risposta davvero signorile ed educata.
D'altra parte mi rendo conto che la cortese Referente sia rimasta troppo spiazzata per risponderle nell'unico modo possibile, ovvero che non era il primo di Aprile.
"Non lo so" ammette la Referente "Comunque ho pensato di avvisarti. Qui sul gruppo stanno dicendo di tutto, e tra l'altro i genitori non sono stati avvisati anche se la circolare sarebbe indirizzata anche a loro".
"Quindi domani alla prima ora i poverini si sentiranno dire che sono murati vivi nella classe e nessuno di loro sarà minimamente preparato alla notizia?" mi informo.
"Sì, più o meno dovrebbe andare così" conferma la Referente. Certo, in un paesello come St. Mary Mead, con due insegnanti che sono pure genitori, la possibilità di una fuga di notizie è piuttosto consistente, ma questi son dettagli.

A quanto ho capito il gruppo degli insegnanti su What's Up è incandescente, e per la prima volta rimpiango di non farne parte. D'altra parte, cosa ci potrei trovare se non ululati di indinniazione seguiti da altrettanto indinniate repliche? Provo a telefonare a un paio di colleghe con cui mi sento particolarmente in sintonia ma trovo misericordiosamente occupato. E dopotutto, cosa potrebbero dirmi se non che sono indinniate eccetera eccetera? Per il momento le cose stanno così e basta.
Non mi preoccupano le reazioni dei ragazzi: non se la prenderanno con me visto che non spenderò nemmeno un quarto di parola in difesa della circolare ma anzi aprirò loro il mio cuore senza infingimento alcuno ed esporrò senza remore i vari dubbi legali, oltre che educativi, legati a quella che ai miei occhi sembra una scelta del tutto sconsiderata, sia nei modi che nei tempi.
Esistono scuole che fanno fare l'intervallo in classe, anche dove c'è l'orario di sei ore per mattinata. Non a caso, sono scuole dove spesso la disciplina è piuttosto difficile da tenere (classico caso del serpente che si morde la coda). Ma se non altro, i genitori che iscrivono lì i loro figli sanno che c'è questa regola e implicitamente la accettano. I nostri hanno iscritto la loro prole ad una scuola dove vige una disciplina piuttosto soft, per antica tradizione, e dove la progressiva riduzione dei custodi e delle ore a disposizione ha finito per incoraggiare l'uso dei ragazzi come corrieri - per avvisare che qualcuno si è sentito male, per chiedere una riga una squadra una penna un pennarello bordeaux a strisce giallo senape una calcolatrice tre fotocopie per chi ha dimenticato il libro a casa  chiamare il prof. Jorge perché non parte la LIM e per tutta l'infinità di casi dabili in cui in classe si presenta un problema. In più abbiamo una buona parte dei contenitori per la raccolta differenziata in corridoio, la biblioteca dove alla terza ora i ragazzi possono andare a prendere e restituire libri, le raccolte per i buoni dei vari supermercati - e naturalmente c'è l'andirivieni dei ragazzi in bagno, che certo non può essere risolto con la demenziale procedura di far uscire i ragazzi uno per volta nei dieci minuti di intervallo, anche perché per alcune classi i bagni sono relativamente lontani. Poi ci sono pure io, che talvolta quando vedo un alunno un po' troppo effervescente lo invito ad andare in corridoio a farsi un paio di vasche su e giù e rientrare quando si sente un po' meno esagitato (non sono l'unica, ed è un piccolo accorgimento che ho trovato molto efficace perché quando rientra l'alunno di turno è di solito molto più tranquillo e disponibile ad occuparsi dei fiumi della Ruritania o dell'incoronazione di Ermenegildo III). In conclusione, gli alunni vanno e vengono nei corridoi e da ciò non risulta che a nessuno venga danno. Non risultano particolari incidenti, dall'inizio dell'anno non ci sono state risse né insulti né feriti o infortunati, se non per incidenti imprevedibili e del tutto involontari (e pochi anche di quelli). Non c'è stato insomma qualche evento che ci abbia spinto a prendere atto di una qualche mancanza di sicurezza, e il fatto che un povero bambino a Milano sia caduto dalla tromba delle scale della scuola è notizia che ci riempie di dolore e di angoscia, ma non ci risulta avere niente a che fare con noi. L'intervallo in classe, fino a pochi giorni fa, era una misura cui si ricorreva solo nel caso di (alcune) prove scritte o come grave punizione per fatti gravi. 
Questo modo di vivere la scuola fa parte del modo di vivere di St. Mary Mead, un paese  che come tutti i posti ha i suoi pregi e i suoi difetti, ma dove non vige un gran culto dell'autoritarismo, anche se l'autorità in generale è piuttosto rispettata. E non è un caso che a quella scuola io sia abbarbicata come una cozza e intorno a quella scuola abbia organizzato la mia vita, a partire dalla scelta dell'abitazione.

Una decisione del genere mi contraria e irrita in estremo grado, prima di tutto per motivi professionali - faccio l'insegnante, non la guardia carceraria, e sono risolutamente contraria a qualsiasi novità che riduca il benessere psico-fisico dei miei amati alunni e gli impedisca di ascoltare le mie preziose lezioni con adeguata attenzione - ma soprattutto mi inquieta, perché l'impressione è di trovare alla guida della mia amata barchetta una scriteriata ignara delle leggi, del buon senso e del viver civile. Non c'è stato il minimo accenno di condivisione, né con gli insegnanti, né con gli alunni né con i genitori - e quest'ultima è una mossa piuttosto pericolosa da fare, specie in un paese che sta meditando di iscrivere altrove i suoi cuccioli e dove i rapporti con i genitori in questione sono tutto sommato piuttosto buoni  e i genitori in questione si sono più volte frugati le tasche per finanziarci cose di non poco conto, ad esempio il nostro grazioso laboratorio di informatica. Al di là di tutte le chiacchiere sulla collaborazione, che vabbé son solo chiacchiere fatte per motivi di marketing, si poteva comunque con poca spesa fare qualcosa di meglio che sbattere nove insegnanti in classe a spiegare il nuovo arrivo di una regola che non condividono senza un filo di preparazione e un tentativo di comunicare preventivamente la bella pensata: di fatto la sostanza (ovvero "io so' io e voi nun siete un cazzo") sarebbe rimasta la stessa, ma almeno le più elementari regole di civiltà avrebbero potuto dirsi salve se per esempio una piccola circolare rivolta agli alunni fosse stata scritta e fatta girare il giorno prima dell'inizio di tale regola.

Io, comunque, a chiusura della piccola conversazione che è seguita all'annuncio della buona nuova, ho fatto guardare il video di Jailhouse rock. E siccome la versione classica di Elvis Presley l'ho già postata su questo blog, stavolta ci metto quella dei Blues Brothers.