giovedì 31 dicembre 2009

Smeagol sempre gentile, lui aiuta sempre.



...e questa è Mrs. Gollum...


Sono assolutamente convinta che Gollum sia un grandissimo personaggio, perfettamente riuscito e del tutto indispensabile nella struttura del romanzo; e mi rendo conto che non poteva essere che così com'è, e che certo i due sfigati di turno, ovvero gli hobbit borghesi che se ne vanno a fare il lavoro sporco mentre i più nobili personaggi del libro giocano alla guerra, non potevano ritrovarsi, con quelle premesse e quell'incarico, un accompagnatore simpatico e dalla brillante conversazione. Si va a Mordor, ovvero nel posto più spiacevole della Terra di Mezzo. Si va a distruggere la principale fonte di potere di Sauron, che certo non è un elemento simpatico e con il potere non ha un rapporto solare; e l'oggetto in questione è carico di malvagità e genera la peggiore delle dipendenze, rendendo sommamente infelici e degradati i suoi proprietari, anche quelli buoni e bravi e belli - e Smeagol tanto tanto buono e bravo non era nemmeno all'inizio, visto che per avere l'Anello ha strangolato il suo migliore amico.

Resta il fatto che io Gollum proprio non lo reggo. Mi pesa vederlo apparire e quando parla divento idrofoba, proprio come Sam. Non sono troppo portata alle dipendenze per cui mi fa compassione, gli trovo tutte le attenuanti di questo mondo ma gli darei fuoco senza se e senza ma, proprio come Sam. E trovo che sia un vero strazio averlo tra i piedi, e meno male che a un certo punto arriva Faramir a dare un po' di sollievo all'esasperato lettore.
Eppure quelle pagine ci sono e vanno lette. Ho provato a saltarle, tanti anni fa, ma mi sono resa conto che non funzionava. Per apprezzare tutta l'impalcatura occorre sciropparsi anche tutti i tesssoro della circostanza.

Molto simbolico, a pensarci.

mercoledì 30 dicembre 2009

Aspettando il 2010...




...ricordiamoci prima di tutto di festeggiare san Silvestro, patrono e protettore dei gatti.
Il resto verrà dopo.

lunedì 28 dicembre 2009

Sette stelle, sette pietre e un albero bianco




Si chiamavano palantiri (palantir al singolare) ed erano grandi sfere di pesante cristallo scuro che servivano non tanto a divinare il futuro, quanto a comunicare il presente tra le varie parti del regno di Gondor. Volendo, potevano anche rispondere a domande e far vedere qualcosa del passato (almeno così racconta Tolkien, che è l'unica autorità conosciuta sull'argomento).
Durante la decadenza di Gondor ahimé andarono tutte distrutte, salvo poi scoprire che restano ancora: quella dei Rifugi Oscuri, che guarda verso l'ormai sommersa Numenor e quindi fa vedere soltanto il mare, quella di Minas Ithil finita nelle mani di Sauron che l'ha portata alla Torre Oscura, quella di Orthanc (che ha causato non pochi guai a Saruman), quella di Minas Tirith (regolarmente usata dal sovrintendente Denethor)... insomma, è già tanto se è andata persa quella di Amon Sul.
Purtroppo, visto che c'è di mezzo Sauron, ormai si riesce a vedere soltanto quell'orribile Occhio Rosso. Però le palantiri mi hanno sempre affascinato molto, e mi sarebbe piaciuto usarle nel modo più ortodosso, ai tempi del Grande Regno: una televisione a circuito chiuso, ma molto più attraente.

Ma ora, nobile hobbit, sono io profondamente indebitato verso di te!




Quando lessi il Signore degli Anelli per la prima volta avevo undici anni, e non fumavo ancora; comunque non capivo cosa c'era di tanto strano se alcuni protagonisti fumavano, tanto da dover spiegare nella premessa cos'era l'erba-pipa. Beh, era tabacco. Cosa c'era di tanto strano nel tabacco, da dover giustificare il fatto che ci fosse tabacco nella Contea?
Col tempo mi resi conto che qualche problema c'era, anche se Tolkien non sembrava averci pensato ai tempi de "Lo Hobbit", che si apre proprio con una gara di anelli di fumo tra Gandalf e Bilbo (dove il buon Bilbo viene surclassato).
Ad ogni modo il Signore degli Anelli è un libro dove si fuma, con voluttà e sentimento, soprattutto nei paesi settentrionali: fumano gli hobbit e i nani, fumano i Raminghi e fumano gli stregoni, Gandalf apertamente e Saruman di soppiatto (solo pipa, si capisce, niente sigari né sigarette. Indovina un po' cosa fumava Tolkien?).
Ma è anche un libro di gente che passa gran parte del tempo a vagare per contrade brulle e desolate, senza l'ombra di un tabaccaio o di un negozio di articoli da fumo, e dopo un po' tutti finiscono le scorte. A Lorien, dove vengono provvisti dei più vari aiuti, nessuno pensa a dar loro un po' di tabacco perché gli elfi non fumano.
L'autore però, che pure non si fa scrupoli di ficcare i suoi personaggi nelle più incresciose situazioni, riserva loro un piccolo intermezzo sulle macerie di Isengard, dove i due hobbit hanno scovato un barilotto della riserva segreta di Saruman e Pipino tira fuori a sorpresa un paio di pipe che si è portato dietro nonostante tutto. Tra una battaglia e un inseguimento, una parte della Compagnia si ristorerà fumando piacevolmente.
Una scena che al giorno d'oggi è diventata quasi trasgressiva.

giovedì 24 dicembre 2009

L'ultimo esercito degli Eorlingas è partito. Non tornerà senza aver combattuto.



Al Fosso di Helm avviene la prima, vera battaglia del libro. Tolkien descriverà solo questa e la grande battaglia di Minas Tirith. Entrambe gli vengono molto bene.
Ricordo una eccellente postatrice di it.arti.fantasy che spiegava come gli unici autori di cui sopportava le descrizioni di battaglie erano Tolkien e Tolstoj. Sono d'accordo, anche se di Tolstoj ho letto solo quella di Austerlitz in "Guerra e Pace", una sola volta. In compenso ho letto diverse descrizioni di battaglie in vari cicli fantasy e - onestamente - sono di una noia assoluta, soprattutto quando cercano di essere accurate.
Tolkien sembra non perdersi troppo in descrizioni di truppe e scheramenti, ma chi legge sa sempre cosa sta succedendo e perché, anche se apparentemente la battaglia non è quasi mai davvero descritta. Ma va detto che Tolkien (come Tolstoj) la guerra l'aveva fatta e come funzionava una battaglia aveva avuto ampiamente modo di sperimentarlo.
Lo schema seguito nelle due battaglie è all'incirca lo stesso: c'è un assedio, gli assediati sono bravi e coraggiosi e la fortezza assai ben fatta, ma gli assedianti sono talmente tanti e con tali mezzi che solo un aiuto inaspettato nel momento più cupo riesce a capovolgere la situazione. In questo caso l'aiuto insperato e da tutti imprevisto (tranne che da Gandalf che è andato a cercarlo) sono gli Ucorni, che con perfetta coscienza ecologica provvedono anche a smaltire i corpi dei nemici.
La battaglia serve anche a dare una rinfrescata a Theoden, re di Rohan, che dopo essere stato reso ipocondriaco dall'assai viscido Vermilinguo viene risvegliato da Gandalf e da allora non perderà più un colpo in tutto il libro, mostrandosi un sovrano assai cortese e sempre all'altezza della situazione, che ci sia da parlare con Ent, hobbit, stregoni traditori o Uomini Selvaggi oppure da affrontare il nemico in campo aperto.

Non riesco ad immaginare l'aspetto della primavera in questo posto



Il terzo bosco magico è quello di Fangorn, ed è forse il più magico di tutti e il più favoloso. Come la Vecchia Foresta ha un cuore nero ma non si tratta di un vecchio salice rancoroso e filosauroniano, bensì di fitti gruppi di Ucorni animati da giusto e comprensibile rancore verso Saruman e i suoi orchetti.
Ad ogni modo i due principini hobbit, approdati lì per un misto di capriccio del caso, errori di calcolo dei loro nemici e prontezza di spirito di Pipino, ne conosceranno solo la parte buona: prima un bel sorso di acqua del'Entalluvio, risanante, nutriente e corroborante, poi un'occhiata alla foresta polverosa e un po' ingrigita, e subito Barbalbero arriva a prendersi cura di loro. Gli offrirà acque assai energetiche, un comodo giaciglio per le notti ancora fredde e gli farà conoscere un bel po' di mondo, decidendo nel contempo che è il momento di farla finita con Isengard.
Da sempre questo è il punto che preferisco in assoluto di tutto il libro: Barbalbero è un vero gentilalbero, colto, cortese e ospitale, ma soprattutto capace di comunicare anche con entità assai diverse da lui. Da questo capitolo si impara a conoscere il mondo con occhi d'albero e ci si rende conto di quanto il punto di vista animale e vegetale possano differire.
Mi hanno sempre spiegato che Tolkien era cattolico (molto, molto cattolico) - e la religione cattolica è antropocentrica come tutte le religioni rivelate. Pure, davanti all'infinità di alberi e rocce parlanti e senzienti che popolano la Terra di Mezzo, mi sono spesso domandata se non fosse in realtà assai più pagano di quel che lui stesso credeva...

Buon Natale 2009




Con tanti auguri a chiunque passi di qua

(ma anche a chi aveva altro da fare e non è passato, si capisce)

domenica 20 dicembre 2009

Teresina 'n ti ci porto più / quant'è ver che c'è Gesù!



L'eccellente cinghiale Zannablù, un personaggio dello Studio Dentiblù forse ispirato ai miei amati alunni

Sono da sempre una convinta sostenitrice dell'utilità didattica delle uscite, tutte le uscite, anche le più strampalate. Il fatto stesso di uscire dalla scuola ha una valenza didattica, secondo me, e provoca quasi sempre un curioso effetto di "fissaggio" che imprime saldamente i più vari contenuti.
Ad ogni modo l'uscita che io e un'altra collega di seconda avevamo fissato non aveva nulla di stravagante: a Firenze abbiamo la fortuna di disporre del Museo Stibbert, che contiene una splendida collezione di armi e armature medievali e moderne sia europee che arabe e giapponesi, assai ben allestita e montata su statue appositamente preparate e dipinte, il tutto in un palazzo paramedievale dell'Ottocento. Tale museo non è uno dei più noti di Firenze e non è sempre facilissimo da visitare, anche per noi fiorentini, dunque portarci una seconda media dalla provincia sembrava cosa buona e giusta*. Con infinita pazienza dunque siamo riuscite a mettere le mani sui pullmini comunali gratuiti, ad accordarci con il Museo Stibbert, a raccogliere le autorizzazioni e liberatorie necessarie e i pochi soldi richiesti per biglietto e guida e financo a non pagare il ticket di ingresso che  il nuovo sindaco di Firenze (possa qualche anima buona fargli scivolare per sbaglio tre flaconi di Guttalax nel sugo della pasta) ha messo sui pullman che entrano in territorio urbano.
Alla fine la gita è risultata cadere nei Giorni della Neve, ma Lassù qualcuno ha fatto sì che si svolgesse giusto nelle ore di pausa tra una nevicata e l'altra, con le strade ben liberate dagli spazzaneve e un bel sole splendente in un gelido cielo.
Ma non è stato per il freddo che ho trovato l'esperienza agghiacciante e sto seriamente meditando di annullare le prossime uscite a Palazzo Vecchio e al Museo delle Macchine di Leonardo.
Il problema non è stato il viaggio: l'autista guidava discretamente, le strade erano libere da neve e da ingorghi, i ragazzi non hanno fatto troppa confusione in pullman - in effetti li ho sentiti fare ben di peggio in classe. Sì, magari avrei preferito sentir evocare qualche organo maschile in meno, ma infine c'è di peggio nella vita.
Il problema non è stato l'interesse: i ragazzi hanno assai apprezzato il palazzo in stile medieval-ricostruito, le armature e la disposizione dei gruppi di statue. Hanno seguito la lezione della guida con interesse e fatto varie domande assai pertinenti, dimostrando perfino di aver recepito qualcosa dalle varie lezioni di storia impartite dalla sottoscritta. E hanno sopportato il freddo lupestre delle sale senza lamentarsi.
E hanno accarezzato le pareti dipinte, palpeggiato le armature, toccato le gualdrappe, camminato in mezzo ai gruppi di statue, interrotto la guida più volte per fare ognuno la stessa domanda, e le hanno parlato sopra allegramente commentando quel che vedevano o facendo a gran voce domande a me (sempre mentre la guida parlava).
Si sono insomma comportati come il più perfetto gruppo di giovani cinghialetti alla carica, facendomi sentire come il protagonista della celebre (a Firenze) canzone di Riccardo Marasco Teresina; il quale, poveretto, accompagna la sua ragazza nei posti più raffinati della città collezionando grazie a lei innumerevoli figure della peggior specie, tanto che ogni strofa si chiude con "la mi fece scomparir" e il ritornello citato nel titolo del post.

A questo punto, prima di portarli a palpeggiare gli argenti del Museo degli Argenti o la collezione delle carte geografiche del Cinquecento custodita a Palazzo Vecchio, si impone un esame di coscienza collettivo che inizi con la Grande Domanda:
"Ragazzi, siete mai stati a un museo? E conoscete la differenza tra un museo e un paracarri?".
In compenso ho capito perché, quando suggerii a Musica (collega decisamente sportivo e adattabile) di portarli al Teatro Comunale a sentire il Campanello di Donizetti la risposta è stata "Se vuoi portarli tu, per me va benissimo; ma io sono stufo di andare con quella classe a fare figure di merda".

*da ciò si potrà intuire che la mia scuola non applica alcuna forma di astensione dalle uscite didattiche.

domenica 13 dicembre 2009

Il mio cuore parla infine chiaramente: il destino del Portatore non è più nelle mie mani



A dividere la Compagnia non è solo la malefica influenza dell'Anello, che ha sconvolto il pur ben intenzionato Boromir, ma qualcosa di ancora più profondo, cioè la consapevolezza che la Compagnia ormai non serve più. Tutti in cuor loro sono dispostissimi ad accompagnare Frodo a Mordor, per spiacevole che possa rivelarsi, e tutti sono più che disposti a sacrificarsi per lui; ma in cuor loro sospettano che a Mordor sarebbero più d'impiccio che altro, con tutta la loro disponibilità. Come risulterà sempre più chiaro nello svolgersi della storia, per la missione a Mordor servono hobbit: leggeri, piccoli e silenziosi, disarmati, disarmanti e sguscianti, capaci di gestire Smeagol e di fingersi orchetti, abbastanza piccoli per non farsi notare. Elfi, nani e uomini non caverebbero un ragno dal buco (e che razza di ragno ci sarà da cavare!). La presenza di Aragorn e della sua Anduril sarebbero peggio di una segnalazione con i catarinfrangenti, per l'Occhio.

Andranno i due hobbit borghesi; sentendosi molto inadeguati, ma andranno. Non c'è niente da fare, è un lavoro che tocca a loro.
I due hobbit aristocratici si sono fatti rapire e Boromir è entrato in un corto circuito da cui l'unica uscita decorosa gli pare un'eroica morte in combattimento. Legolas, Gimli e Aragorn gli fanno un funerale di tipo vichingo, caricando sulla barchetta con lui le armi dei nemici uccisi e il corno spezzato perché suonato con troppa forza... e solo davanti a quel corno spezzato ho riconosciuto qualche anno fa il modello letterario di Boromir: Roland, paladino coraggioso ma non troppo capace di gestire le sfumature e le zone d'ombra che tutti ci portiamo dentro.
Suo fratello Faramir, che se lo vedrà passare davanti in quella zona sospesa tra sogno e irrealtà, sotto questo aspetto si dimostrerà molto più capace.
(Sotto tutti gli aspetti, in verità).

Chiunque avesse preso le mie orecchie è pregato di riportarle


Anche le Yavanna avevano delle belle orecchie ma, non so perché,
a X Factor non hanno avuto pace fin quando non gliele hanno fatte togliere

Qualche anno fa vennero di moda le orecchie di pelouche da aggiungere al casco da motociclista. In quel periodo andavo a scuola in motorino e naturalmente non potevo farmi sfuggire un accessorio così squisitamente demenziale.
Meditai con cura l'acquisto: scartai le orecchie rosa da maiale (padronissimo chiunque di darmi di maiala, se crede, ma pretendere che me lo dia da sola mi sembra un po' eccessivo) e le cornine da cerbiatta o da renna (reputo le eventuali corna un affare strettamente privato, da non drammatizzare ma nemmeno da comunicare per forza anche a chi potrebbe non essere minimamente interessato) e optai infine per delle orecchie da tigre, che avevano il vantaggio di poter essere considerate anche orecchie da oni giapponese (come Lamù, per intenderci); arancioni e nere, facevano una splendida figura sul mio casco blu oltremare.
Le mie orecchie diventarono subito popolarissime nella scuola perché entravo sempre alla prima ora e percorrevo su due ruote la stessa strada che molti dei ragazzi facevano in autobus o a piedi; in pratica la mattina il mio tragitto somigliava a una marcia trionfale scandita da festosi saluti, soprattutto in prossimità delle fermate dell'autobus (di solito salutavano le orecchie, più che me). Anche i colleghi sembravano trovare la cosa piuttosto divertente.
Durante le ore di lezione il casco-con-le-orecchie troneggiava in Sala Professori, perché all'epoca non avevo un bauletto portabagagli al motorino.

Venne primavera e venne Pasqua. Poi le vacanze di Pasqua finirono e tutti tornammo a scuola. Il primo giorno avevo fissato un tema per le tre ore che avrei passato insieme alla seconda.
Lascio il casco appena arrivata, rientro in Sala Professori alla fine della terza ora con il fascio dei temi (neanche venuti granché, ma naturalmente in quel momento non potevo saperlo) e scopro che il mio casco era senza orecchie.
Inorridisco, trasecolo, mi indigno e via dicendo. Provo anche a chiedere ai colleghi, ma nessuno sa niente.
La scuola aveva una struttura curiosa e molto comoda: aule e bagni erano concentrati vicino all'entrata e per arrivare il Sala Professori si doveva percorrere un corridoio laterale molto lungo che portava solo lì. Inoltre vi era totalmente sconosciuta la barbara abitudine di mandare ogni due per tre i ragazzi a prendere oggetti e registri vari nella suddetta Sala Professori, e la zona delle classi era adeguatamente sorvegliata da un congruo numero di custodi. Che un allievo potesse raggiungere indisturbato la Sala Professori senza che nessuno sapesse che c'era andato era del tutto inimmaginabile. Inoltre si trattava di una scuola con una disciplina dall'apparenza molto soft, più reale che apparente, e gli allievi, vuoi per loro naturale mitezza d'animo, vuoi perché non costretti a scontrarsi minuto per minuto contro le regole più demenziali, mostravano uno scarso gusto per la trasgressione.
Insomma non si capiva proprio chi potesse essere stato, ma certo era un caso in cui le apparenze deponevano contro gli adulti. Che interesse potesse però avere un adulto a rubare due orecchie da tigre-oni che non avrebbe potuto sfoggiare pubblicamente e il cui valore materiale era veramente minimo, proprio non si capiva.
Naturalmente tutti mostrarono di partecipare accoratamente al mio triste caso, ma nessuno cavò (o volle cavare) un ragno dal buco. Lasciai un avviso sulla lavagna in Sala Professori (all'incirca quello del titolo) ma le orecchie non si rividero più.
I ragazzi mi consigliarono dove trovarne di nuove. Purtroppo non le trovai davvero uguali e dovetti ripiegare un un paio di orecchie tondeggianti, dall'interno bianco, che sembravano (e probabilmente erano) un'imitazione scadente delle orecchie di leopardo.
Non era la stessa cosa. Niente affatto.

venerdì 11 dicembre 2009

In Dwimordene, in Lorien



Barbie-Galadriel
(no, non me la sono inventata. Esiste davvero)

Non ho mai visto una raffigurazione di Galadriel che le rendesse giustizia. L'ho sempre immaginata molto diversa da tutte le varianti preraffaelite che ne sono state fatte, e un po' meno perlacea: dietro tutta la loro aura melanconica e di raffinata decadenza gli elfi sono decisamente vitali e concreti, e quelli di Lothlorien lo sono in modo particolare: il Bosco d'Oro è immerso come una punta di freccia in una regione scialba, anzi al confine tra due o tre regioni scialbe, sbiadite e scolorite, e solo a Lorien tutto è vivo e luminoso.
Il Bosco d'Oro è protetto da una guardia di elfi assai determinati, da due fiumi incantati (che sfociano nell'assai noioso Anduin) e da Lady Galadriel, custode di uno dei tre Anelli degli elfi.
Onde meglio preservarne la sua magica e luminosa vitalità evitano quanto più possibile di farci entrare quegli impiastri detti Uomini.
Per uno di loro, suo lontano parente, Galadriel fece un'eccezione: era Aragorn, che durante una delle visite conquistò la di lei nipotina, una giovanetta elfa sui duemila anni di età. Come il migliore degli innamorati, Aragorn ricorda quel bel giorno mormorando frasi in elfico, lo sguardo perso nei ricordi e fiorellini in mano. Il lettore non ci capisce granché, a meno che non riconosca il nome Undomiel nella frase in elfico. Da notare che la bella Undomiel ci è stata presentata assai di sfuggita... ed è stata quasi sempre chiamata Arwen.
Così, giusto per non tediare il lettore con accenni troppo espliciti.

martedì 8 dicembre 2009

In Moria, in Khazad-dum




Non metto in dubbio che fare un viaggio di tre giorni a tastoni possa spaventare parecchio anche un cuore saldo e intrepido, ma per me che devo solo leggere il resoconto del viaggio, al di là di qualche brivido di convenienza, Moria è soprattutto un posto molto affascinante: questi grandiosi saloni enormi, di pietra colorata o nera, questa città abbondonata, così bella quando era ancora viva e abitata e ancora bella nonostante tutta, questa meraviglia dell'architettura nanesca o nanica...
Moria mi ha sempre lasciato un gran rimpianto. Davvero non si può fare più niente, solo perché scava oggi e scava domani è saltato fuori un balrog?
Ma dopo la morte di Gandalf il balrog dovrebbe (dovrebbe) essere morto... forse il regno è recuperabile? Con un massiccio lavoro di restauro alle due entrate principali e alle Scalinocascate?
In realtà i balrog, come i maiar (categoria di spiriti superiori cui appartiene Gandalf) sono tecnicamente immortali, e tutto sembra indicare che Tolkien considera Moria come un esperimento fallito su cui non si deve più ritornare.

"Ahimé, troppo in basso scavarono le nostre pale, e risvegliarono la paura senza nome".
Peccato, perché a me abitare a Moria, con inclusa la possibilità di qualche passeggiata nell'Agrifogliere e intorno al Kheled-zaram, sarebbe piaciuto assai molto.

Il cancello del Cornorosso



Il Signore degli Anelli è un libro pieno di cancelli, a cominciare dal piccolo cancello che Bilbo fa costruire intorno al suo giardino per accogliere gli ospiti. C'è un cancello che separa la Contea dalla Vecchia Foresta, a Brea ci sono cancelli che vengono chiusi la sera, poi i cancelli di Moria (che in realtà sono porte), i Cancelli di Minas Tirith, i cancelli della cerchia di Isengard, il Cancello Nero della Torre Oscura a Mordor...
Di solito tutti questi cancelli sono varcati, magari a caro prezzo - ma il Cancello del Cornorosso, che in realtà è un passo di montagna, pur esigendo un prezzo piuttosto alto, nessuno riesce a passarlo. La Compagnia gioca il tutto per tutto, rischiando la morte collettiva per congelamento, ma non c'è proprio verso. Ghiaccio e neve hanno la meglio e alla fine la Compagnia si arrende e gira i tacchi (o i talloni, nel caso degli hobbit).
L'alternativa non sarà indolore: dovranno abbandonare il povero pony Billy (che comunque se la caverà benissimo) all'entrata dei Cancelli di Moria, e il povero Gandalf (che comunque se la caverà benissimo) all'uscita dei Cancelli in questione.

Misteriosamente, durante la tempesta sul Caradhras, anch'io stavo per arrendermi - o comunque interruppi la lettura per un paio di mesi, proprio mentre la Compagnia era a un passo dalla morte bianca. Mai capito perché.

Il Gatto Nero (Perché Odio le Antologie)



Lettura in classe dall'antologia: Il Gatto Nero di Edgar Allan Poe. Per ovvi motivi è un racconto che mi sono sempre guardata bene dal leggere; però la classe sembra non avere a schifo la letteratura dell'Ottocento, così mi attento.
Qualcosa però mi lascia perplessa: la storia c'è tutta, più o meno, ma quando l'ho saltato leggendo i Racconti di Poe mi era sembrato che il numero delle pagine fosse più alto.
In serata sono da persone che possiedono i racconti di Poe, così controllo. E scopro, con il solito empito di indignazione che mi coglie sempre in questi casi nell'indifferenza generale, che il racconto era stato massacrato peggio del povero micio protagonista.
La trama... beh, nei punti essenziali la trama era la stessa - anzi, in effetti restava solo quella. Certo, il fatto che la cravatta bianca sul petto del gatto avesse preso pian piano la forma di una forca mancava; ma soprattutto mancavano quasi tutte le descrizioni degli stati d'animo del protagonista, l'introduzione... insomma mancavano tutti i tentativi del protagonista di spiegarsi.
Sparita la cornice di quieta follia del narratore, se ne andava a ramengo anche quasi tutta l'angoscia della storia, che diventava un triste racconto di maltrattamento di animali e un monito sulle nefaste conseguenze dell'alcolismo ma perdeva buona parte del terrore che avvolgeva l'originale.
In effetti diventava anche meno difficile da seguire, dato che raccontare come cavi un occhio o impicchi un gatto è molto più semplice del provare a spiegare perché diamine hai fatto una cosa tanto assurda; così anche una buona parte delle parole "difficili" restava per strada.
Me ne sono accorta quando ho portato a scuola la versione integrale e l'ho fatta leggere: le interruzioni per avere chiarimenti erano molte più di quelle durante la prima lettura.

Tutto è bene quel che finisce bene: la classe ha apprezzato molto anche la seconda lettura, abbiamo fatto una piccola esercitazione sulle differenze tra le due versioni e due chiacchiere sul verbo "adattare". Con una sola eccezione tutti hanno dichiarato di preferire la versione originale, che gli risultava più chiara e anche più paurosa e molto più ricca di atmosfera. Molti hanno suggerito che forse i tagli erano stati fatti per rendere la storia "meno difficile". Qualcuno ha chiesto se non potevano esserci questioni legate ai diritti d'autore - e immagino sia quello che ha più colto nel segno.

Personalmente non amo molto l'horror, in nessuna forma, e concepisco benissimo l'esistenza di un'antologia priva di tale sezione. Tuttavia, se per qualche motivo (ad esempio il fatto che oggi è un genere assai apprezzato dai ragazzi, e forse lo è sempre stato) dovessi preparargli una scelta di testi avrei cura di lasciare integri i testi in questione. Perché, dico, se a un racconto horror togli nientemeno che l'atmosfera e i dettagli, cosa ne rimane se non un triste elenco di tristi vicende, talvolta un po' misteriose?

(Dimenticavo: se proprio dovessi curare una scelta di testi horror per le nuove generazioni, magari, a parte Poe e Lovercraft - di cui nessuno mette in dubbio il valore - e Dickens e Jerome, la cui fama forse è legata anche ad altre tematiche, magari proverei a estendere il contributo della narrativa novecentesca un po' oltre un brano di due paginette di King...)

venerdì 4 dicembre 2009

Noro lim, noro lim, Asfaloth!



Uno dei miei primissimi Grandi Amori è stato il principe Glorfindel (detto anche, per gli esperti tolkieniani, l'Elfo Che Forse Visse Due Volte). Bellissimo, biondissimo - caratteristica invero piuttosto rara tra gli elfi che sono tutti bruni - salvo la dorata progenie di Finrod Felagund - fascinosissimo, al suo apparire nel libro veste di bianco, monta un candido cavallo con candide briglie ornate di gemme bianche e campanellini d'argento e sia lui che il cavallo brillano leggermente al buio. Un bel contrasto con i lugubri Cavalieri Neri che da varie pagine incombono ad ogni riga, dopo aver accoltellato il povero Frodo.

Purtroppo fa solo una breve comparsata, anche se il suo ruolo è decisamente importante: grazie a lui (e all'eccellente cavallo Asfaloth) l'Anello riesce ad arrivare a Gran Burrone.
Nel film decisero di sostituirlo con Arwen; una soluzione pratica che permetteva di risparmiare sugli attori, di non disperdere troppo il già frastornato spettatore... e di risparmiarsi il notevole incomodo di trovare un attore fisicamente all'altezza del personaggio - e che comunque, lo so con certezza, per bello che fosse non mi avrebbe mai soddisfatto.