sabato 31 marzo 2018

Buon Pesce di Pasqua a tutti!


Quest'anno Pasqua cade proprio il Primo Aprile, giorno riservato per tradizione agli scherzi, ai giochi e alle sorprese.
E invero quest'anno qualche sorpresa qua e là ce la sta riservando.
Inoltre a Pasqua si mangiano le uova di cioccolato, dove c'è la sorpresa.
E per tradizione si mangia anche molto pesce, specie nei giorni di vigilia - anche per ricordare colui che nella sua passione si degnò di diventare per noi un pesce arrosto - e che i pesci li moltiplicava, oltre a garantire pesche abbondanti e frequentare pescatori.
Pasqua inoltre è una festa di primavera, e quale pesce non festeggia la primavera? (cioè, no, qui forse mi sono fatta un po' prendere la mano dal sincretismo a tutti i costi...).
D'accordo, non tutti i pesci vanno in giro sulla terraferma portando nelle pinne cestini di fiori e chiacchierando allegramente; la stagione comunque si presta alle passeggiate e i fiori non mancano, perfino in città.

Auguri a tutti, e possano le sorprese e gli scherzi del destino trovarci preparati e disponibili a coglierne le varie opportunità.

venerdì 30 marzo 2018

Lady Anna - Anthony Trollope


Prometto che dopo questo post per un po' con Trollope mi darò una calmata, anche se in questo periodo non sto leggendo praticamente altro ed è diventato una specie di droga per me. Questo però ci tengo a segnalarlo, perché Trollope lo riteneva il suo romanzo migliore. I suoi lettori non condivisero tanto entusiasmo e pare che nel complesso il plauso non sia stato poi così universale, almeno così assicura l'introduzione. In compenso tutti hanno sempre fatto gran conto di Orley Farm, di cui ha già parlato la povna tempo fa - e che è un romanzo davvero degno di ogni stima. Io però di tendenza sono d'accordo con Trollope e ammetto che Lady Anna mi ha preso in modo particolare, forse per una certa tendenza alla sintesi, forse per la presentazione di una situazione e di un personaggio abbastanza insoliti per l'universo gentry che popola abitualmente i suoi romanzi; o forse addirittura due personaggi insoliti, che guarda caso sono pure la coppia da portare all'altare. Ma andiamo per ordine.

Anna, che forse è lady e forse no (il dubbio non verrà mai definitivamente sciolto, solo dato per ragionevolmente risolto; e qui si potrebbe aprire una interessante parentesi su come veniva vista l'Italia dell'epoca attraverso i romanzi vittoriani, ovvero una specie di terra selvaggia popolata di stranissimi individui regolati da leggi antropologicamente assai misteriose) è figlia di una povera ragazza che ha fatto un matrimonio sbagliato: prima di tutto perché sposarsi un grandissimo stronzo* non è mai una buona scelta coniugale, e in secondo luogo perché, a un anno di distanza da una cerimonia nuziale condotta con tutte le apparenze della legalità e a matrimonio ormai ampiamente consumato, la poverina viene informata dallo stronzo in questione che lui in Italia aveva una moglie vivente e che dunque il loro matrimonio di fatto non esiste...ma senza presentarle prove o documenti.
Se l'educazione inglese dell'Ottocento non fosse stata così rigorosa un paio di doverose pugnalate tirate bene o una bella schioppettata avrebbero prontamente sistemato la   questione. La forse-moglie si ritrova invece a combattere a colpi di carta bollata nel difficile tentativo di dimostrare che lei non è una concubina e la loro figlia, la forse-lady Anna, non è una bastarda; non è un bel vivere, anche perché la faccenda si trascina per più di vent'anni. Nel frattempo le due forse-lady sopravvivono a spese di un rispettabile sarto, che si è preso a cuore il loro triste caso per amor di giustizia... e che ha un figlio, di poco maggiore di Anna.

Passano appunto più di vent'anni e arriviamo alla parte narrata nel romanzo, dove Anna si ritrova a dover scegliere tra sposare un conte bello e simpatico e d'ogni grazia adorno (un matrimonio che appianerebbe ogni problema per tutti, compreso il conte che è un po' squattrinato ma non per questo incline a prendersi quel che non gli spetta di diritto) e il rozzo figlio del sarto con cui ha scambiato una promessa d'amore forzata da circostanze esterne - per lo meno, è così che vedono la cosa nel bel mondo. Quanto al figlio del sarto (che non si considera particolarmente rozzo, pensa un po' la stranezza di certa gente), costui trova invero molto sconsolante la possibilità che l'ingenua Anna si lasci traviare dal falso scintillío di un mondo di parassiti in cui non riscontra alcuna reale superiorità morale.
Il tema dei due rivali per amore si arricchisce dunque di una sfumatura politica: entrambi gli uomini considerano contronatura oltre che sconveniente sul piano morale la possibilità che Anna scelga il rivale. Non si tratta dunque di un contrasto tra gentiluomini, bensì della stomachevole circostanza di vedersi sottrarre la donna amata da uno scarafaggio, fermo restando che la donna amata ha il diritto di scegliersi anche lo scarafaggio (ma in quel disgraziato caso si dimostrerà del tutto indegna della preferenza che le è stata accordata).
Secondo l'autore della postfazione il romanzo non ebbe il successo di cui l'autore lo trovava meritevole perché l'argomento risultò indigesto al pubblico (e sono d'accordo), e anche perché Trollope rifiuta di prendere decisamente posizione per una delle due posizioni politiche possibili, ovvero quella socialista e quella conservatrice - e qui sono decisamente meno d'accordo, perché mi sembra che Trollope la posizione la prenda eccome, ma nel  solito modo discreto e felpato, facendo parlare soprattutto la storia, le circostanze e i personaggi ma senza mai andare apertamente contro le convenzioni sociali. 
Resta il fatto che, prenda o non prenda posizione, di sicuro descrive molto bene una questione sociale che in quegli anni stava diventando di grande attualità, e lo fa attraverso la scelta sentimentale di una fanciulla che, molto femminilmente e secondo le convenzioni dell'epoca, si lascia guidare dal cuore e dal suo senso di giustizia, senza alcuna presa di posizione politica.
Romanzo gradevole, scorrevole, interessante, ben costruito, ma lascia anche parecchio da pensare. L'azione è più compatta del solito, le disgressioni scarseggiano e le seghe mentali sono ridotte veramente ai minimi termini. Addirittura, si chiude con un solo matrimonio - sia pur festeggiato in una certa atmosfera di riconciliazione.
Consigliato per tutte le stagioni e in tutti gli stati d'animo.

*senza offesa per gli stronzi, è solo un modo di dire che in questo caso presenta però il difetto di essere piuttosto inadeguato.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro Buona Pasqua e molto cioccolato  a tutti.

giovedì 29 marzo 2018

Murasaki va al cinema


Visto che ogni tanto ho la sfrontatezza di parlare di film nonostante vada al cinema una media di tre-quattro volte l'anno negli anni di punta ho pensato di rispondere a un grazioso questionario sull'argomento proposto da Kukuviza che a sua volta l'ha preso da qui che permette di costruire una carta d'identità abbastanza completa dello spettatore di turno.
E andiamo a cominciare:

1. Il personaggio cinematografico che vorrei essere?
Ci ho pensato e ripensato ma mi viene in mente solo la principessa Organa.

2. Genere che amo e genere che odio?
Amo soprattutto le commedie, storie ambientate in paesi che non conosco, storici, e i film delle opere di Shakespeare (ma non so se quest'ultimo si può proprio definire un genere).
Reggo poco e male i thriller, le storie che hanno per protagonisti dei Veri Uomini e i film troppo drammatici.

3. Film in lingua originale o doppiati?

Doppiati, salvo rarissime eccezioni. Sottotitoli per quelli musicali.

4. L'ultimo film che ho comprato?

Quando c'era Marnie, animazione giapponese - anche perché, se non me lo compravo, davvero non so che speranza avrei avuto di riuscire a rivederlo visto che lo conosciamo davvero in pochi eletti.

5. Sono mai andato al cinema da sola?

Certo che sì.

6. Cosa ne penso dei Blu-Ray?

Ne penso poco, perché temo di non aver ancora capito che roba sono. 

7. Che rapporto ho con il 3D?   

Se c'è lo subisco pazientemente. Non ci vedo 'sta gran differenza con i film normali.

8. Cosa rende un film uno dei miei preferiti?


Molto banalmente, la felice combinazione di una bella storia con una bella sceneggiatura - ma immagino che anche la regia e gli attori abbiano il loro peso.

9. Preferisco vedere i film da solo o in compagnia?

Fa lo stesso. L'unico problema è che quando il film parte tendo a concentrarmi solo su quello, e quando hai intorno una o più classi dovresti concentrarti su di loro e controllare che non disturbino e riescano a seguire adeguatamente la storia - cosa che mi riesce molto più facile se il film lo conosco già abbastanza bene.

10. Ultimo film che ho visto?

Mr. Ove, storia di un anziano svedese che si riconcilia con la vita grazie all'amicizia con una condomina iraniana. Un bel film consolante, e c'è dentro anche un bel gatto che sono riusciti a far recitare molto bene.

11. Un film che mi ha fatto riflettere?

Sono in grado di estrarre profondissime riflessioni assolutamente da qualsiasi film, cartone animato o sceneggiato per quanto apparentemente idiota, ed è una caratteristica di cui vado molto fiera anche se non la pubblicizzo. 

12. Un film che mi ha fatto ridere?

L'ultima follia di Mel Brooks. E tanti altri, naturalmente.

13. Un film che mi ha fatto piangere?
La gabbianella e il gatto: sono assolutamente incapace di guardarlo, da sola o in compagnia, senza sciogliermi in lacrime soprattutto quando mamma gabbiana muore e Zorba convince la gabbianella a volare anche per loro, che sono gatti e non potranno volare mai. Mi sono sciolta in lacrime anche al Ritorno del Re, ma era un periodo in cui giravo con le lacrime in tasca - tuttavia certe scene mi fanno piangere sempre e comunque, soprattutto il discorso di Aragorn alle truppe prima della battaglia del Cancello Nero. E l'Aleksander Nevskij, probabilmente anche per l'effetto della colonna sonora ma anche per il pensiero dei milioni di russi che morirono nella seconda guerra mondiale perché "il sacro suolo della Russia non venisse calpestato". Da notare che il film venne girato qualche anno prima - ma credo che in qualche modo Eisenstein avesse previsto quel che sarebbe successo dopo - non la guerra, ché quello era relativamente facile, ma proprio i milioni di morti che sarebbero arrivati.

14. Un film orribile?
Quei disperati che puzzano di sangue, di sudore e di morte, frutto acerbo di una arena estiva quando ero bambina (mio pasre adorava gli western, ma questo non piacque proprio a nessuno di noi): sempre odiato le storie senza speranza dove i protagonisti si limitano a patire. Poi Maria's lovers, che scatenò in me e nell'amica che mi accompagnava il più totale senso del ridicolo: passammo due terzi del tempo a ridere pazzamente. Gli altri spettatori avrebbero tanto voluto ucciderci. 

15. Un film che non ho visto perché mi sono addormentato?
Mai addormentata guardando un film. A scuola poi non sarebbe proprio possibile...

16. Un film che non ho visto perché stavo facendo le "cosacce"?

Naa, c'è un tempo per tutto. Se guardo un film guardo il film.

17. Il film più lungo che ho visto? 
Direi Via col vento.

18. Il film che mi ha deluso?

L'impero colpisce ancora che secondo me aveva una sceneggiatura da plotone di esecuzione. La trama mi stava anche bene, ma non capivo (e non ho mai capito) perché quei bravi personaggi così simpatici si fossero trasformati in perfetti idioti.

19. Un film che so a memoria?
Il primo Hobbit lo so a memoria in inglese e probabilmente anche in italiano. Anche  Jesus Christ Superstar, ma lì sarebbe più esatto dire che conosco le canzoni a memoria. Del resto le ho talmente ascoltate che anche i miei le riconoscevano nel giro di dieci note...

20. Un film che ho visto al cinema perché mi ci hanno trascinato

Piuma, che fa parte del filone delle adolescenti incinta - un filone che mi dà l'orticaria. Ma ci sono persone a cui non posso dire di no quando mi invitano...

21. Il film più bello tratto da un libro?

Ragione e sentimento e Harry Potter e la Camera dei Segreti, che secondo me sono meglio del libro originale. A suo tempo mi sorpresero anche Passaggio in India e Camera con vista, che sono a tutti gli effetti equivalenti al libro - nel senso che guardare il film o leggere il libro è praticamente la stessa cosa. Poi Lo Hobbit, anche se lì la valutazione è più complessa perché il lavoro da fare era veramente più complicato: mi è piaciuto alla follia, ma libro e film restano due entità molto diverse tra loro.
Aggiungo i film tratti dai drammi di Shakespeare: mi rendo conto che partono da una sceneggiatura piuttosto forte di partenza, ma è praticamente impossibile che un film da Shakespeare venga male e lascia sempre qualcosa. Qualcuno è venuto meglio di altri, naturalmente, ma sarebbe davvero difficile fare una classifica.

22. Il film più datato che ho visto?

Un film non è mai datato, al massimo diventa un prezioso reperto storico che aiuta a capire meglio la mentalità del periodo in cui è stato girato!

23. Miglior colonna sonora?

Aleksander Nevskij o come diavolo si scrive. L'ascolto molto volentieri anche a parte, senza film. E Jesus Christ Superstar, naturalmente. E visto che ci ho messo quello aggiungo un altro paio di film tratti da opere: il Flauto magico di Bergman, anche se è in svedese, e il Barbiere di Siviglia diretto da Abbado di Jean-Pierre Bonnelle.

24. Migliore saga cinematografica? 

Ne ho viste ben poche. Stabilito che non riesco a considerare Lo Hobbit una trilogia perché lo vedo come un film in tre parti, al massimo posso citare la prima trilogia di Star Wars.

25. Miglior remake?  
Mai visto un remake e il suo originale. Mi sfugge proprio il senso dell'operazione, tra l'altro. 

martedì 27 marzo 2018

Di cose che non vorresti mai sentire: perché si chiama prima guerra mondiale?

(Per il titolo, sono in debito con Dolcezze)

La Terza Amichevole è una classe gentile, di buon cuore, simpatica e ci lavoro sempre molto volentieri. Giunta però in prossimità dell'orlo della fine dell'anno, quando i giochi sembrano ormai fatti, tocca però prendere atto - a me come' a tutto il Consiglio - che lavorarci o non lavorarci è un po' la stessa cosa e se alla fine hanno imparato qaulche nozione (e un buon gruppo ha sviluppato per conto suo un rispettabilissimo metodo di studio) i più vivono cristallizzati in un limbo che era lo stesso in cui vivevano all'inizio della prima media: per assurdo che possa sembrare, nell'età in cui tutti cambiano a velocità vertiginosa e non riesci a stargli dietro con la migliore buona volontà del mondo, loro sono cambiati pochissimo.
Tra le altre cose, sono rimasti praticamente invariati (e si partiva da un livello basso) sia il lessico che la comprensione del testo. 
Né l'una né l'altra sono cose su cui si intervenga in modo diretto, se non proponendo testi via via più complessi e insistendo perché i ragazzi usino parole più precise: in pratica, è un processo che avviene quasi per via subliminale e attraverso strade solo in parte conosciute; ma insomma arrivano in prima e parlano come bambini e vanno via in terza e quasi tutti sono in grado di parlare in modo congruo, corretto ed esauriente, indipendentemente dal numero di "cazzo cioè" che usano nelle conversazioni private.
Di solito. 

La prima domanda del compito sulla prima guerra mondiale era "Perché venne chiamata    guerra mondiale?". Se n'era parlato, naturalmente - e quando dico "se n'era parlato" non intendo dire che io lo avevo detto e ripetuto mentre loro ascoltavano pazienti e rassegnati, ma che avevano fatto domande e ascoltato con attenzione le risposte (danno sempre l'impressione di ascoltare attentamente le risposte e di custodirle gelosamente e con gran cura in cuor loro).
E poi c'era il libro, il mio amato libro di testo. Che spiegava La guerra fu definita mondiale, o Grande Guerra, perché vi furono coinvolte anche le colonie degli Stati belligeranti e potenze di diverse parti del mondo, come la Turchia, il Giappone e, da ultimi, gli Stati Uniti". E siccome belligerante non è parola che si adoperi tutte le mattine mentre prendi il tè, nella colonna a lato, dedicata a sintesi, riepiloghi, concetti-chiave e glossari viene specificato che belligerante "si dice di un paese che è in stato di guerra". 
Il risultato di tanto lavoro collettivo è stato che più di metà della classe ha scritto con grande serenità che la guerra si è chiamata mondiale perchè ci hanno partecipato gli stati belligeranti, e davanti alle mie legittime e doverose rimostranze sono insorti spiegandomi assai offesi che il libro diceva proprio così; solo quando ho cominciato a ruggire e li ho obbligati a riguardare il passo incriminato hanno abbassato un po' le orecchie.
Sia chiaro che non mi lamento perché non studiano: posso ben capire e scusare che un giovinetto di quattordici anni abbia in testa ben altro che la prima guerra mondiale; ma confesso che il pensiero che per loro sia normale scrivere serenamente che una guerra si chiama mondiale perché ci partecipano i paesi che la combattono mi agghiaccia. Voglio dire, non erano obbligati a rispondere a tutte le domande (come gli ho spiegato prima del compito e come spiego sempre prima dei compiti scritti di storia e di geografia): potevano saltarne qualcuna o concentrarsi particolarmente su alcune.
Ma no, hanno risposto perché erano convinti di sapere la risposta giusta, e perché scrivere che a una guerra partecipavano gli stati che ci partecipavano gli sembrava avere un senso.

"Si avvicina la settimana di Pasqua" ho detto alla fine "So che non tutti siete praticanti, ma è una settimana in cui può capitare di avvicinarsi a una chiesa. Secondo me sarebbe doveroso da parte vostra entrarci e accendere il tradizionale cero, come segno di ringraziamento perché quest'anno la prova Invalsi non fa media per il voto d'esame. Non ho mai avuto motivo di preoccuparmi per i risultati dell'Invalsi delle Terze che ho portato all'esame, ma sono convinta che nella parte della comprensione del testo molti di voi troveranno qualche difficoltà".
Mi guardano perplessi. È chiaro che i più non capiscono dove stia il problema, esattamente - e in effetti la parte più grave del problema è che non sono consapevoli di avere un problema con una delle competenze base richieste (ragionevolmente) dalla scuola.
Si spera che crescano, loro e le loro foglie, durante l'estate - altrimenti alle superiori la situazione rischia di evolversi in modo non necessariamente favorevole alle loro truppe.

domenica 25 marzo 2018

Cronache dall'armadio


Lezione tranquilla, in un lento rutilare di periodi a base di coordinate, fatti invero piuttosto bene; tra un periodo e l'altro affiora un lieve sottofondo, come un sospetto di suoneria di cellulare. Arriva e se ne va, come sfuocato.
Poche coordinate dopo ritorna, più netto ma sempre con qualcosa di strano nel suono.
"C'è un cellulare acceso" si decide ad ammettere qualcuno. E comincia la caccia al colpevole, in un gran frugare nelle tasche e negli zaini. Ma, niente, il colpevole non si trova e il cellulare continua il suo suono anemico.
"Prof, forse è il suo".
"Impossibile" assicuro: il mio cellulare dorme il consueto sonno di piombo nella borsa in Sala Insegnanti, senza contare che ha una suoneria completamente diversa.
"Forse viene dal corridoio?"
"No, è qua dentro" ammetto "Ma è come se fosse schermato, dentro qualcosa".
Guardo i cassetti della cattedra, ma niente. Tutti rifrugano zaini e banchi.
Finalmente, in mancanza assoluta di altre possibilità, Confucio raggiunge l'armadietto vicino alla cattedra, e quando lo apre la suoneria si fa improvvisamente più chiara.
Confucio guarda e riguarda, ma non c'è traccia alcuna di cellulare.
"Un cellulare fantasma?".
"Forse non viene da lì".
"Ma sì che viene da lì, si sente benissimo!".
Confucio espora e fruga con pazienza. Infine estrae il cellulare incriminato da sotto un libro di matematica.
Tutti siamo perplessi. Parecchio. 
"Non è il mio".
"Nemmeno il mio".
"Il mio è qui".
"Chiedo scusa" mi decido infine a chiedere "Ma quale istinto perverso può spingere uno studente all'apparenza mentalmente sano a portare a scuola un telefonino e lasciarlo acceso nell'armadio sotto un libro? Quale utilità può venirvene?".
Nessuno sembra in effetti vederci utilità alcuna. A St. Mary Mead non siamo molto fiscali con i cellulari, chi vuole lo porta, basta che non suoni durante la lezione, e se anche suona non è che attiviamo la tortura della ruota, glielo facciamo spengere e amen.
"Quello è il telefonino della prof. Margherita" stabilisce infine Rocky.
Questo non cambia granché la questione: che vantaggio c'è a seminare telefonini negli armadi per una docente?
"Deve averlo lasciato lì quando ha preso il libro di scienze".
In cuor mio medito un sacco di cose sul fatto che gli insegnanti non dovrebbero entrare in classe col cellulare in mano, tanto meno acceso, ma mi guardo bene dal dirle. In fondo è già un sollievo scoprire che il cellulare è stato solo abbandonato in un momento di distrazione e non in un attacco di alienazione.
Spedisco Rocky in cerca della prof. Margherita per renderle il prezioso oggetto e faccio un sorriso a trentasei denti alla classe:
"La fine dell'anno si avvicina, ormai siamo tutti un po' stanchi..." azzardo.
Con la consueta gentilezza, la classe prende per buona la scusa e torniamo alle proposizioni coordinate.

venerdì 16 marzo 2018

Potete perdonarla? - Anthony Trollope

Tanti  anni fa, nel  corso della preparazione di un esame di letteratura  inglese mi   imbattei  in   stranissimo tomo: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura   romantica di tal Mario Praz. Si tratta in realtà di un saggio importantissimo e di grandissima basilarità per lo studio della letteratura inglese, o così sembravano convinti quelli che me lo rifilarono da studiare. D'altra parte era stato scritto nel 1930, più di mezzo secolo prima, e a me dei temi che trattava al momento interessava meno che nulla: ero assai più a caccia di analisi della scrittura al femminile e simili, da brava figlia del femminismo, e soprattutto mi interessavano le sorelle Bronte. Un po' lessi quel gran tomo, parecchio lo spulciai, continuando per tutto il tempo a domandarmi perché diavolo me l'avevano dato da leggere (e me lo domando tuttora, visto che all'esame non se ne parlò affatto); spulcia che ti spulcio, ogni tanto mi soffermavo a leggere le citazioni degli autori e così incappai per la prima volta in vita mia in Trollope.
Mi consideravo abbastanza addentro alla letteratura vittoriana, ma di questo Trollope non avevo nemmeno sentito parlare, fino a quel momento: piuttosto scusabile visto che negli anni 80 non era stato ancora tradotto quasi niente in italiano. In particolare Praz citava diverse volte un romanzo dal curioso titolo: Can you forgive her?
Puoi perdonarla? Nemmeno per un istante mi venne il dubbio che ci si stesse rivolgendo al pubblico dei lettori. Raccontava, o così pareva, la storia di due innamorati che la famiglia di lei aveva sistematicamente divisi per questioni di interesse. Alla fine lei aveva ceduto, per debolezza, e rinunciato all'amore - una cosa di cui si mostrava piuttosto pentita, nei passi citati. Era lei che forse poteva essere perdonata? E com'era finita tutta la storia? 

Passarono dodici anni e le mie conoscenze su Trollope non ebbero  alcuna possibilità di ampliarsi. In compenso i Pet Shop Boys fecero una canzone, che tra l'altro mi è  sempre piaciuta alla follia - e si intitolava proprio Can you forgive her?   
  

E forse non si tratta di un video eccezionalmente vittoriano ma certo la musica ha un attacco che fa pensare moltissimo a una caccia alla volpe - par quasi di vedere i cavalli slanciarsi  nella pista nel bosco - e Potete perdonarla? contiene una splendida scena di caccia alla volpe - cosa che comunque all'epoca proprio non potevo sapere, non avendolo ancora letto. 
Rimasi a lungo incerta sulla questione: la canzone aveva o non aveva qualche rapporto con il libro? Nessuno diceva di no, in effetti, anche perché nessuno sfiorava  nemmeno lontanamente la questione. Il testo non mi fu di eccessivo aiuto: i testi dei Pet Shop Boys non sono, ehm, esattamente narrativi (= non ci si capisce un accidente) ma questo in particolare sembrava riferirsi ad un amore assai conflittuale del passato, qualcosa di  impossibile da dimenticare - o da perdonare, appunto - di quelli che lasciano infiniti strascichi di rancore ma che non possono essere rinnegati. Forse a parlare era l'uomo che la ragazza ricca aveva finito per abbandonare? 
Tuttavia adesso ho la risposta, e l'ho finalmente trovata, come spesso capita in questi casi, quando infine ci ero arrivata anche per conto mio: c'è un riferimento al titolo del romanzo di Trollope, che tra l'altro non è un titolo dei più banali - ma, appunto, ci si riferisce alle suggestioni del titolo e non al romazo dove non c'è la storia di un amore che il protagonista ricordi con rancore agrodolce - anche perché questo tipo di amori irrisolti e mai davvero dimenticati non sembrano essere nelle corde dell'esimio romanziere, forse perché non li ha mai conosciuti, beato lui (o poveretto lui? Chissà).
Passarono vieppiù gli anni e Sellerio cominciò a pubblicare i romanzi di Trollope - un sacco di romanzi di Trollope, di cui non avevo mai sentito parlare. Possibile che col tempo e la pazienza arrivasse anche il turno di Can You Forgive Her? 
Possibile, sì: e infatti questo Natale sono infine entrata in possesso del romanzo. Che aspettavo da ormai più di trent'anni - e subito ho fatto ben due scoperte, entrambe di grande importanza.
La prima è che un libro di più di mille pagine su formato piccolo e quadrato richiede, davvero, una gran pazienza per essere letto. Infatti gli idiotissimi curatori della collana han deciso di farne un volumone unico, invece di due comodi volumetti di 580 pagine    cadauno, e l'inevitabile risultato è che già dopo la prima lettura metà della colla della costola è andata e il libro è già mezzo sfasciato, oltre ad essere stato piuttosto scomodo da leggere. Non voglio nemmeno pensare a cosa succederà quando lo rileggerò (e io rileggo parecchio). Ma alla Sellerio non potrebbero dare un po' di pane e volpe ai loro curatori editoriali?

La seconda interessante scoperta è stata che il titolo non va inteso, come vogliono farci credere i Pet Shop Boys "Puoi perdonarla?" bensì "Potete perdonarla?", ed è indirizzato non già al giovane innamorato che la ragazza ricca rinuncia a sposare per debolezza bensí ai lettori, cui viene chiesto se vorranno benignamente perdonare un'altra protagonista , rea della grave colpa di... avere lasciato il fidanzato. 
"Perdonarla? E de che?" si domanda perplesso il lettore. Se lascia il fidanzato saranno cavoli suoi, giusto?
La cosa, a quel che sembra, in età vittoriana non è semplice come negli anni di Jane Austen: da come la mette l'autore lasciare un fidanzato sembra qualcosa di poco meno grave dell'alto tradimento o dello spionaggio internazionale, e anche la protagonista sembra viverla come una mancanza assai seria.   
Per perdonare la nostra eroina, noi lettori dovremmo però riuscire a capire perché lascia il suo fidanzato - un uomo in realtà piuttosto simpatico e che lei ama molto. E qui cascano non tanto gli asini quanto le palle (ai lettori, intendo) perché i motivi non sono affatto  evidenti e si possono facilmente rubricare sotto la voce "seghe mentali". A dire il vero la protagonista sembra davvero specializzata in seghe, facendosene invero un quantitativo sì vasto e abbondante che perfino una classe di adolescenti in piena attività non esiterebbe a definirlo "eccessivo": in pratica il poverino viene lasciato perché lei lo ama troppo. Ebbene sí, leggere per credere.
Dopo questo iniziale passo falso la protagonista, Alice, colleziona una serie di mosse strategiche una più scriteriata dell'altra e per arrivare al lieto fine sono necessari non solo molta determinazione da parte dell'ex fidanzato, ma anche un grande impegno da parte del romanziere, il quale comunque per tutte le mille e cento e passa pagine dà l'aria di pensare che il vero problema di Alice sia di avere troppa libertà ( = troppo tempo per farsi tutte quelle seghe) e troppi soldi a disposizione. Questi ultimi in particolare sembrano essere un discreto problema per una donna.   
Le protagoniste della vicenda sono infatti quattro donne tutt'altro che stupide e discretamente provviste di mezzi. Le meno provviste  - ma comunque benestanti -  Alice e Kate sembrano letteralmente assillate dal problema "a chi la do stasera (la mia rendita)" finendo tra l'altro per convergere su un destinatario che non si rivela proprio una scelta felicissima, tanto per parlare con molta moderazione. Non solo, ma si mostrano beatamente ignare di come funziona il denaro e di come vada gestito, delegandone serenamente la gestione a padri, fratelli, gatti dei vicini - chiunque, insomma, pur di non  sporcarsi le mani.
Anche questa modesta soddisfazione, tuttavia, cioè di scegliersi liberamente a chi regalare i propri soldi, viene preclusa alla giovane Glencora, che delle quattro è la più sfarzosamente provvista di abbondantissimi mezzi: addirittura la poverina, tormentata in  modo indicibile dagli invadentissimi parenti, finisce in virtù della sua estrema giovinezza (e di una debolezza che in seguito si rimprovererà aspramente) per lasciare il giovane, bello e (forse) sciagurato innamorato di sua scelta per farsi fidanzare ad un futuro duca dal brillante destino politico di nome... Plantagenet Pallister - e se il cognome, pur dotato di ricche assonanze per le orecchie italiane, è piuttosto innocente in inglese, non c'è dubbio che ci vuole tutta la forza cieca della più crudele e smodata ambizione per forzare una povera ragazza a sposare qualcuno che si chiami Plantagenet. Tuttavia il  Plantageneto, a sorpresa, pur risultando perfettamente adeguato sia al nome che al cognome che gli sono toccati in sorte e non essendo forse un uomo sul cui senso dell'umorismo si potrà sempre contare per ravvivare una compagnia, a sorpresa si rivela una persona più vivace del previsto e lui e Glencora finiranno in qualche modo per quagliare - anche se per buona parte del romanzo la moglie mediterà seriamente di lasciare il marito... perché gli vuole troppo bene, non è la donna adatta a lui e teme di rovinargli la vita (sì, a quanto pare, è una epidemia).
Quanto alla quarta protagonista, Arabella (usualmente chiamata "signora Greenow") è l'unica che i suoi soldi se li è guadagnati (con un matrimonio, si capisce) nonché l'unica che sa come gestirli e amministrarli - ma naturalmente è anche la più avanti negli anni e l'unica esperta del viver del mondo, né Trollope mostra in alcun modo di disapprovare la sua totale mancanza di candore economico o di ingenuità monetaria.  
Dunque mille e cento e passa pagine per fidanzare una stordita (che era già fidanzata al primo capitolo) e per far superare a una giovane donna il rimpianto per la cieca passione da cui parenti troppo pressanti l'hanno strappata a forza, oltre che per combinare un altro paio di matrimoni. 
Ne vale la pena? Assolutamente sì, l'incastro è avvincente e la storia va giù come acqua di fonte. Consigliatissimo a chiunque ami i romanzi inglesi, si legge bene sia a dosi piccole che medie che massicce.
Con questo post partecipo al Venerdì del libro di Homemademamma e auguro buone letture a tutti perché per le passeggiate nei prati in fiore sembra ci sia ancora un po' da aspettare. 

giovedì 15 marzo 2018

Sorry seems to be the hardest word

Genma Saotome, ovvero un uomo (...uomo?) molto, molto convinto della sua intrinseca dignità ma piuttosto portato a rimuovere alcuni elementi che, come dire, sono ormai parte intrinseca di lui

Ci sono cose davanti alle quali la mia debole mente resta fragile e dubitosa, e come in sospeso. 
Una di queste, anche se magari non la più importante, è la constatazione che il politico italiano abbia enormi difficoltà a prendere pubblicamente atto di una sconfitta elettorale, anche quando cotal sconfitta risulti chiara ed evidente. 
Seguendo le elezioni straniere mi sono accorta che i capi politici stranieri, per quanto presumibilmente non molto soddisfatti in cotal circostanze, si affrettano a prendere pubblicamente atto dell'incresciosa circostanza; e lo fanno con parole pacate e ragionevoli, usando brevi formulette in cui ringraziano i loro elettori, deprecano la loro incapacità nell'aver saputo proporre in modo convincente la loro personale offerta (ma senza dar di deficiente a chi non li ha votati) promettono un analisi approfondita all'interno del loro partito e si congratulano con i vincitori augurandogli di operare nel migliore dei modi - elaborando insomma un cortese e scarno discorsetto politicamente assai corretto per poi, suppongo, andarsi a leccare le ferite in privato o con i compagni di partito.
Da noi i partiti vincitori mostrano sedi affollate, persone che giustamente festeggiano e capi sorridenti che ringraziano e salutano, com'è giusto. Le sedi dei partiti sconfitti invece sono deserte, peggio dei supermercati alle otto del 16 Agosto, e solo dopo innumerevoli ore di attesa qualche personaggio di seconda o terza linea arriva alla fine a fare il discorsetto di cui sopra, con l'aria comprensibilmente scocciata di chi si ritrova tra le mani una patata bollente che non sa assolutamente maneggiare. Il Gran Capo latita, e compare in scena solo il giorno dopo, con tutto comodo, per fare un discorsetto piuttosto stizzito dove normalmente si spiega che gli elettori non hanno capito o si sono fatti ingannare o deviare da questo o quel fattore.
Ci sono delle eccezioni? Ebbene sì, ci sono. Mi vengono in mente Fini, Casini e Follini, che ho visto recitare con garbo discorsetti degni di qualsiasi leader internazionale quando si sono trovati in queste deplorevoli circostanze. Immagino che non fossero contenti di dover dire quel che dicevano ma, appunto, sembravano convinti di doverlo fare - un tratto questo, che rendeva loro onore.
Naturalmente non tutti sono arrivati ai virtuosismi con cui Berlusconi straparlava di brogli elettorali senza mai darne la minima prova; ma in generale l'arte di sparire nel nulla quando c'era da comunicare una lampante sconfitta accomuna da noi tutti gli schieramenti politici. Si scappa, si sparisce senza lasciare recapito o all'occorrenza ci si lancia (ma sempre all'indomani, quando non addirittura due giorni dopo) in complessi arzigogoli per dimostrare che in realtà una sconfitta non c'è stata: come il seriosissimo signor Genma Saotome, raffigurato in alto, ci si trasforma in panda giocherelloni e si fa conto di essere capitati lì per sbaglio, o per puro caso:

E tutto ciò non è affatto bello da vedersi né dignitoso da farsi ma sembra far parte di un curioso costume italico che stabilisce che
1) io non ho mai torto
2) quand'anche avessi torto, è tutta apparenza
3) anche se non è apparenza, è comunque colpa di qualcun altro 
ma soprattutto
4) E gli altri allora? Hanno molto più torto di me (segue elenco dettagliato di motivi più o meno validi. Ma quand'anche fossero tutti motivi validi, la figura di palta rimane).
Io non credo che i capi politici stranieri si divertano a perdere le elezioni, o che siano meno scocciati dei nostri italici capi quando ciò gli accade. E, nonostante la fiducia nell'animo umano e la celestiale ingenuità che da sempre mi caratterizzano, non sono nemmeno convinta che credano ogni singola parola dei loro correttissimi discorsi. Li fanno perché sentono di doverlo fare, e perché sanno (o gli è stato spiegato) che una rapida e pronta ammissione di sconfitta, quando detta ammissione si mostra inevitabile né può essere in alcun modo scansata, tappa la bocca all'avversario e ai famelici giornalisti, sigilla l'avvenimento e permette di chiudere lo spiacevole evento e di tirare avanti senza sprecare tempo ed energie ad allontanare l'inevitabile.
Allo stesso modo, un blando discorsetto di scuse e una pacata ammissione di torto placa gli animi, consente di proseguire il dialogo, olia e rende più scorrevole il rapporto umano. Con gli anni, lavorando in un ambiente fitto di esseri umani come la scuola, ho imparato che in certi casi conviene perfino tagliare corto e farsi moderatamente carico di torti che sono solo apparenti: rende tutto più semplice (sì, lavorando negli archivi non era mai stato necessario. Immagino che anche gli archivi siano suscettibili, a modo loro, ma chiedergli scusa non si era mai rivelato necessario). Sarebbe molto bello riuscire a spiegarlo ai nostri permalosissimi alunni che vengono spesso cresciuti dai genitori in base al principio che il torto non si ammette mai, nemmeno davanti all'evidenza più lampante, e la sconfitta propria è sempre da imputarsi ad altri o almeno a circostanze contro cui la nostra povera volontà è stata oggettivamente impossibilitata a prevalere.
In sostanza, il vero italiano non perde mai e non ha mai torto, in politica come altrove (e del resto, i nostri politici sono da noi scelti appunto perché ci rappresentano). E tutto ciò è molto scomodo da affrontare e superare, per tacere del fatto che ci ostacola non poco.

giovedì 8 marzo 2018

Le nostre istituzioni (e una grossa ciotola di pop corn)

Come mi è già successo di raccontare, ormai da diversi anni tutte le terze che mi sono passate tra le mani si sorbiscono un piccolo corso sul funzionamento delle principali istituzioni italiane con qualche possibile aggancio a quelle estere (repubblica presidenziale ed elezioni del presidente degli USA, per esempio). Il corso cambia di anno in anno a seconda delle circostanze politiche ma tratta comunque alcuni temi principali: il parlamento, il presidente della repubblica, come nasce un governo, come nasce una legge. All'occorrenza faccio ampliamenti su referendum, elezioni degli organi locali e simili, e naturalmente quel che non so me lo vado a cercare.
Tutto questo non nacque per caso, ma dai numerosi strepiti dell'ex presidente del consiglio Berlusconi che amava moltissimo parlare di governi illegittimi perché non eletti dal popolo. Nelle scuole dove insegnavo non è mai stato una figura molto popolare tra gli alunni, pure mi rendevo conto che le sue parole arrivavano con una certa forza. Mi sembrò quindi opportuno chiarire alcuni punti principali e, per non dar l'impressione di voler contraddire il capo del governo, senza citarlo nemmeno di striscio improvvisai appunto il piccolo corso di cui sopra, avendo cura che la classe sottoposta al mio arbitrario capriccio imparasse nel dettaglio quelle lezioni, sia pure per semplice sfinimento.
Sia come sia, queste lezioni hanno sempre sortito un certo tasso di gradimento e più volte hanno innescato discussioni piuttosto interessanti senza mai scivolare nella politica spicciola da bar.
Quest'anno avremmo un po' anticipato, ho spiegato alla Terza Amichevole: infatti avremmo avuto il piacere di assistere in diretta alle elezioni politiche e conseguente nascita del governo. Non solo, siccome tutto sembrava promettere una nascita del governo piuttosto travagliata, avremmo anzi potuto studiare la questione nel dettaglio. 
Ma, addirittura, c'era una ulteriore e fascinosissima possibilità: che le camere venissero sciolte quasi subito per indire nuove elezioni.
"Dovete tenere conto che un governo comunque lo faranno: lo hanno sempre fatto, non c'è motivo che non riescano a farlo proprio questa volta. Non c'è nessun rischio che le cose vadano male. Semplicemente, potrete seguire nel dettaglio un momento particolare. Quindi ci armeremo tutti di sacchetti di pop corn e patatine e cornetti di mais e seguiremo la vicenda a grandi linee".
La prospettiva non sembrava priva di interesse ai loro occhi (soprattutto la parte con i pop corn, immagino) - e quanto a me, adesso son qui che scalpito e maledico la mia mala sorte per essere stamani in malattia invece che a spiegargli il meccanismo delle consultazioni presidenziali. Ma, in effetti, prima ancora sarà bene spiegargli come gran parte delle consultazioni avvengano sottobanco perché consistono in manovre molto simili al corteggiamento - e, sottobanco, con raffinata ars manipolatoria, insinuargli il tenue sospetto che appunto in questo consista la politica: mediare, corteggiare, blandire, contrattare fino allo sfinimento per creare un punto d'accordo - e che in tutto ciò non vi è nulla di riprovevole, anzi è quel che manda avanti il mondo da sempre.

Ma siccome la scuola ha i suoi tempi e la politica ne ha altri, talvolta più frenetici ma talvolta più distesi, mi sembra evidente che la Terza Amichevole avrà finito il suo minicorso sulle istituzioni ben prima che il nostro futuro governo abbia la possibilità di insediarsi. Del resto si sa che la vita è breve e non si può trascorrerla tutta a mangiare pop corn - e non si può ragionevolmente sperare che un quattordicenne riesca ad appassionarsi a certi rituali per più di una settimana o due...

mercoledì 7 marzo 2018

Cronache del ghiaccio e del fuoco (pochissimo il fuoco)


Tutto andava normalmente, febbraio febbraieggiava tranquillo e l'azalea dei miei amati alunni stava mettendo su una sterminata quantità di boccioli, quando sulla scuola medi di St. Mary Mead si abbatté come un turbine la notizia: arrivava il freddo, un terribile freddo, con tanto di neve inclusa. Anzi, con tanta neve inclusa.
All'inizio sembrava trattarsi solo di due giornatelle un po' ghiacciate. Poi le previsioni le hanno fatte diventare tre, poi quattro... la neve comunque c'era sempre, solo che doveva venire di pomeriggio e sciogliersi durante la notte quindi sembrava non riguardarci granché.
Un tempo, prima dell'operazione, il freddo mi piaceva: non mi dava noia e bastava poco per coprirmi. Adesso uno sbalzo di temperatura basta a trasformarmi in un essere dolorante e lamentoso; insomma, da pinguina che ero sono diventata una lucertola tremebonda (e lagnosa).
Comunque ho cercato di organizzarmi per essere all'altezza della situazione.
Per l'azalea rimediare è stato facile: via dalla terrazza e dentro l'appartamento. 
Un po' più complicati sarebbero stati gli spostamenti verso la scuola: tutti i giorni dell'anno vado e torno dalla stazione ferroviaria con un pregiato Liberty a due ruote, ma in questi giorni la temperatura sarebbe rimasta ben salda sotto lo zero anche durante il giorno. Uscendo dal suo tiepido garage il Liberty si sarebbe senz'altro messo in moto, ma dopo qualche ora passata sotto zero nel parcheggio della stazione? Chissà...
Meglio puntare sulla corriera. Così, Lunedì mattina a dieci alle sette, decorosamente intabarrata, aspettavo alla fermata.
Ho aspettato mezz'ora: la corriera era in ritardo - probabilmente per colpa del freddo, pensavano gli altri aspiranti passeggeri. Viene giù dalle montagne (beh, insomma, montagne...), le strade sono ghiacciate...
Sta di fatto che mezz'ora dopo, quando la corriera è infine arrivata, avevo ormai esaurito le batterie per tutta la settimana per tacere delle mani completamente congelate - talmente congelate che mentre compilavo il registro elettronico in classe muovevo ancora male le dita - e meno male che almeno il treno aveva fatto il suo dovere, arrivando e partendo con esemplare puntualità.
Decisamente malandata ho adempiuto come potevo alle mie incombenze, sempre continuando a rabbrividire perché la scuola non era sufficientemente calda: infatti il riscaldamento alla scuola media di St. Mary Mead produce una e una sola (moderata) quantità di calore, senza alcuna considerazione di quanto calore servirebbe (o, più spesso, non servirebbe affatto) alla malcapitata utenza. Insomma, era freddino - il che, vedevo bene, non era comunque di eccessivo incomodo nemmeno per i più freddolosi tra i  miei colleghi, nonostante qualche moderata lamentela di sottofondo. Io invece stentavo assai.
Vivaddio, al ritorno un collega compassionevole mi ha preso in carico e portata fin sull'uscio di casa. Da lì infilarmi sotto molte calde coperte è stato affare di tre minuti, ma scaldarmi... ho cominciato seriamente a scaldarmi solo verso le sei del pomeriggio, e non si può proprio dire che stia in una casa fredda.
Per giunta, da qualche parte della mia gola aleggiava un sospetto di infiammazione. Ma ho fatto finta di niente. In sottofondo c'era anche l'amara consapevolezza che ero soltanto a Lunedì.

E venne il Martedì mattina, quando ugualmente entravo alla prima ora ma nell'aria c'erano quei due-tre gradi in più che rendevano l'esistenza tollerabile.
La corriera è arrivata con mirabile puntualità e alla stazione tutto procedeva regolarmente... tranne per i cinque minuti di ritardo del mio treno, che sono poi diventati dieci, quindici e infine venti "a causa delle avverse condizioni climatiche". 
Qui andrebbe aperto forse un discorso (in effetti ne sono stati fatti parecchi, in questi giorni) sul funzionamento dei treni e su cosa si intenda per avverse condizioni climatiche. Sta di fatto che sulla piana fiorentina non c'era un fiocco di neve che fosse uno, eravamo solo moderatamente sotto zero e soprattutto il mio treno partiva da Firenze, dove le condizioni climatiche non avrebbero dovuto avere nulla di particolarmente avverso rispetto al resto della zona.
Ad ogni modo quei venti minuti di attesa al binario si sono rivelati letali, e quando infine il treno è arrivato avevo i piedi letteralmente gelati. Nemmeno il breve viaggetto verso St. Mary Mead è bastato a sgelarli, nemmeno la passeggiatina verso la scuola, e la mia mente ha cominciato a popolarsi di inquietanti e lugubri riflessioni legate al congelamento degli arti, oltre che di ansiose domande su come avranno mai fatto nei campi di deportazione in Siberia (di fatto, per quanto ne so, facevano infatti piuttosto male). Dopo dieci minuti in classe comunque la circolazione è ripresa, prima dolorosamente e poi normalmente. 
In realtà mi sentivo piuttosto bene e, svolte coscienziosamente le due ore che il mio orario richiedeva, ho festeggiato con un bombolone alla crema mentre mi dedicavo a una serie di rogne, circolari, stampe, fotocopie, chiacchiere di corridoio eccetera - insomma al consueto contorno del nostro affascinante mestiere - per poi riprendere il treno più adatto a incrociare una simpatica corriera che mi avrebbe riportato a casa.
Tutto bene, dunque?
Sì e no. Tra l'altro la temperatura era calata, o comunque qualcosa non funzionava più a dovere. Sta di fatto che avevo la febbre, e anche se la tachipirina mi ha garantito una lunga notte di sonno (pesante e non troppo continuato) non mi sono granché riposata, e Mercoledì mattina la mia interiorità era piuttosto dolorante.
C'era il suo perché: a sorpresa, era molto più freddo del giorno prima. La tentazione di ritornare a letto era molto forte, e ripensandoci avrei probabilmente dovuto darle ascolto visto che era piuttosto insolita. Sta di fatto che entravo alla terza ora quindi ho fatto le cose con una certa calma, anche se la prospettiva di andare a piedi alla stazione mi lasciava dubbiosa. A sorpresa però ho trovato una bella corriera scodellata su un piatto d'argento e il resto è venuto da sé. A fine mattinata però ero decisamente scontenta della vita, e per giunta il bollettino prometteva neve per il giorno dopo - come del resto prometteva con grande costanza da una settimana: neve Giovedì, e solo e soltanto Giovedì, ma nel frattempo erano cambiati gli orari: la neve sarebbe caduta copiosa sin dalle ultime ore della notte e per tutta la mattinata.
Già nel primo pomeriggio si sarebbe sciolta, perché le temperature sarebbero risalite, ma che garanzie c'erano di arrivare a scuola, a che ora sarei riuscita ad arrivare, con quell'abitudine balorda di piazzare sui treni mezz'ore di ritardo come fossero noccioline ad ogni fiocco di neve che caratterizza la provincia di Firenze? D'altra parte per me Giovedì è un giorno molto pregiato perché ho tre ore con la Terza, e già so che mi scipperanno il prossimo Lunedì e Martedì con il ponte elettorale...
Il consulto in Sala Insegnanti è animato. Per chi abita a St. Mary Mead naturalmente non ci sono grandi problemi: basterà alzarsi e guardare fuori dalla finestra. Ma gli altri, tutti gli altri? In parecchi veniamo da fuori. 
Infine il Comune decide di sollevarci dall'imbarazzo proclamando la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado per il giorno seguente. Gran tripudio tra le scolaresche, ma anche il corpo docenti è piuttosto sollevato e si ripromette di godersi serenamente lo spettacolo dei giardini e dei tetti innevati guardando dalla finestra con la tradizionale tazza di cioccolata calda in mano invece di arrancare per le provinciali o vagare per le stazioni ferroviarie.
Torno a casa di umore assai festoso, ma anche infreddolita a morte perché nel corso delle ore la temperatura è ulteriormente scesa. Di nuovo sotto le coperte, con la tazza di tisana calda. Il sospetto alla gola ritorna, la febbre pure. Altra notte inquieta nonostante la tachipirina, e il giorno dopo lo passo in uno stato di rincretinimento notevole perfino per i miei standard. 
La neve arriva, la prima neve da quando abito in casa nuova. Molto suggestiva, sui giardinetti e sul prato e sui tetti, molto romantica, ma io la degno a malapena di uno sguardo. Come promesso, nevica generosamente tutta la mattina e i marmocchi del condominio si divertono alla follia; in compenso continua a nevicare con sentimento anche per buona parte del pomeriggio. Quando infine la neve si trasforma in pioggia siamo ancora molto vicini allo zero e la prospettiva di una bella ghiacciata incombe minacciosa.
Per il giorno dopo comunque ci hanno promesso dodici gradi.

La mattina dopo dei dodici gradi non c'è traccia, probabilmente siamo ancora sotto lo zero. Comunque non c'è ghiaccio, almeno sulle strade, e ci si muove senza troppi problemi. Non sono affatto convinta di stare bene ma ho il mio preziosissimo compito di storia sulla prima guerra mondiale e la rivoluzione russa da fare e la febbre sembra essersene andata. Inoltre il ponte elettorale dovrebbe infine aver ragione della mia stanchezza cronica e condurmi spedita verso un mondo migliore, dove una folta schiera di parlamentari di PiùEuropa ingentilirà con la sua savia presenza un parlamento che si prospetta come piuttosto rozzo.
La pioggia imperversa per tutta la mattinata, il mio stomaco decisamente di malumore si rifiuta di accogliere cibo, la febbre è tornata e sembro la morte in vacanza. Ottengo comunque il mio pacco di compiti e strappo perfino qualche interrogazione più che decorosa nella Terza Cignala.
Strisciando verso casa comunque ammetto perfino con me stessa che andare a scuola è stata una pessima idea e mi propongo fermamente, per Lunedì Mattina, di andare dalla dottoressa e insistere vivacemente perché trovi un modo per riportarmi ad uno stato di salute compatibile con una vita un po' più emozionante di quella di un fungo. La pioggia intanto mi ruscella gelidamente addosso.
Piuttosto sfavata, dopo una lunga seduta con un asciugacapelli mi infilo a letto e scivolo in un inquieto dormiveglia mentre ascolto la rassegna stampa. Combino poco per tutto il pomeriggio, ma sono troppo sfavata per preoccuparmene.

Il giorno dopo però la temperatura si alza davvero e la vita cambia prospettiva, nonostante la vaga sensazione di avere un po' di umori bloccati in gola.Tosse poca, in compenso un raffreddore fluviale mette a dura prova la mia pur consistente scorta di fazzoletti rigorosamente di stoffa. Decido di fregarmene dei compiti di storia e di dedicarmi al romanzo di Trollope che in questi giorni mi tiene meravigliosamente avvinta. Ci sono anche diverse faccende di casa che chiederebbero un certo disbrigo, ma le ignoro risolutamente.
Domenica il raffreddore sembra piuttosto placato, la gola non dà problemi (a parte quella strana sensazione di qualcosa che si è fermato dentro e non riesce a uscire) ma mi sento piuttosto giù di corda - e insomma finisco per ritrovarmi al seggio nell'ora di punta invece che la mattina presto come mi ero ripromessa. Un po' di coda, niente di che, però fa caldo - probabilmente ho messo un golf di troppo perché non ho tenuto conto che la temperatura si è alzata davvero... fa caldo, tanto caldo... e tutto diventa sempre più grigio...
Sto svenendo ma so che potrei anche riuscire a non farlo, perché mi è già successo una volta quarant'anni fa e anche allora riuscii ad evitarlo mettendomi lentamente a sedere per terra.  Fortunatamente si vota nelle scuole, dove una sedia non manca mai. Riesco a procurarmene una e ad accasciarmici sopra con scarsa grazia. Ormai è quasi il mio turno, non sarebbe bene aspettare almeno di aver votato prima di svenire? 
E' una strana sensazione, stare seduti ad aspettare il turno per entrare nella stanza del seggio e non sapere se si riuscirà ad alzarsi, o a fare quei due passi fino alla soglia della stanza. Ma, a sorpresa, una volta entrata nella stanza va subito molto meglio e stare in piedi non è un gran problema. Anche la scheda sembra piuttosto visibile, nonostante qualche zona grigia. Faccio quel che devo fare, riprendo i documenti, ringrazio con un sorriso cadaverico e guadagno l'uscita senza troppi problemi. A casa però mi sento come se fossi passata sotto uno schiacciasassi.
La mattina dopo, in discreta forma, approdo dalla dottoressa. Accenno di sfuggita al mio quasi svenimento, poi attacco a parlare del mio precario stato di salute. Non è che mi fili più di tanto.
"Si faccia sentire" ordina. I polmoni sono senz'altro la cosa che conosce meglio di me, a parte la gola.
"C'è qualcosa in basso" stabilisce "Non è stato un capogiro, lei non respirava".
Oh? In effetti è vero, il corridoio era pieno.
Antibiotico, cortisone, una lastra ai polmoni... "Stia in riposo per una settimana".
"Veramente oggi sto piuttosto bene, penso che potrei andare a sc...."
"Guardi che come le è venuta al seggio le può venire anche in classe".
Decido di rassegnarmi.

Comunque stavolta non è stata questione né di eroismo né di stupidità. 
E' stata pura e semplice sfiga - che, com'è noto, ci vede benissimo.