giovedì 15 marzo 2018

Sorry seems to be the hardest word

Genma Saotome, ovvero un uomo (...uomo?) molto, molto convinto della sua intrinseca dignità ma piuttosto portato a rimuovere alcuni elementi che, come dire, sono ormai parte intrinseca di lui

Ci sono cose davanti alle quali la mia debole mente resta fragile e dubitosa, e come in sospeso. 
Una di queste, anche se magari non la più importante, è la constatazione che il politico italiano abbia enormi difficoltà a prendere pubblicamente atto di una sconfitta elettorale, anche quando cotal sconfitta risulti chiara ed evidente. 
Seguendo le elezioni straniere mi sono accorta che i capi politici stranieri, per quanto presumibilmente non molto soddisfatti in cotal circostanze, si affrettano a prendere pubblicamente atto dell'incresciosa circostanza; e lo fanno con parole pacate e ragionevoli, usando brevi formulette in cui ringraziano i loro elettori, deprecano la loro incapacità nell'aver saputo proporre in modo convincente la loro personale offerta (ma senza dar di deficiente a chi non li ha votati) promettono un analisi approfondita all'interno del loro partito e si congratulano con i vincitori augurandogli di operare nel migliore dei modi - elaborando insomma un cortese e scarno discorsetto politicamente assai corretto per poi, suppongo, andarsi a leccare le ferite in privato o con i compagni di partito.
Da noi i partiti vincitori mostrano sedi affollate, persone che giustamente festeggiano e capi sorridenti che ringraziano e salutano, com'è giusto. Le sedi dei partiti sconfitti invece sono deserte, peggio dei supermercati alle otto del 16 Agosto, e solo dopo innumerevoli ore di attesa qualche personaggio di seconda o terza linea arriva alla fine a fare il discorsetto di cui sopra, con l'aria comprensibilmente scocciata di chi si ritrova tra le mani una patata bollente che non sa assolutamente maneggiare. Il Gran Capo latita, e compare in scena solo il giorno dopo, con tutto comodo, per fare un discorsetto piuttosto stizzito dove normalmente si spiega che gli elettori non hanno capito o si sono fatti ingannare o deviare da questo o quel fattore.
Ci sono delle eccezioni? Ebbene sì, ci sono. Mi vengono in mente Fini, Casini e Follini, che ho visto recitare con garbo discorsetti degni di qualsiasi leader internazionale quando si sono trovati in queste deplorevoli circostanze. Immagino che non fossero contenti di dover dire quel che dicevano ma, appunto, sembravano convinti di doverlo fare - un tratto questo, che rendeva loro onore.
Naturalmente non tutti sono arrivati ai virtuosismi con cui Berlusconi straparlava di brogli elettorali senza mai darne la minima prova; ma in generale l'arte di sparire nel nulla quando c'era da comunicare una lampante sconfitta accomuna da noi tutti gli schieramenti politici. Si scappa, si sparisce senza lasciare recapito o all'occorrenza ci si lancia (ma sempre all'indomani, quando non addirittura due giorni dopo) in complessi arzigogoli per dimostrare che in realtà una sconfitta non c'è stata: come il seriosissimo signor Genma Saotome, raffigurato in alto, ci si trasforma in panda giocherelloni e si fa conto di essere capitati lì per sbaglio, o per puro caso:

E tutto ciò non è affatto bello da vedersi né dignitoso da farsi ma sembra far parte di un curioso costume italico che stabilisce che
1) io non ho mai torto
2) quand'anche avessi torto, è tutta apparenza
3) anche se non è apparenza, è comunque colpa di qualcun altro 
ma soprattutto
4) E gli altri allora? Hanno molto più torto di me (segue elenco dettagliato di motivi più o meno validi. Ma quand'anche fossero tutti motivi validi, la figura di palta rimane).
Io non credo che i capi politici stranieri si divertano a perdere le elezioni, o che siano meno scocciati dei nostri italici capi quando ciò gli accade. E, nonostante la fiducia nell'animo umano e la celestiale ingenuità che da sempre mi caratterizzano, non sono nemmeno convinta che credano ogni singola parola dei loro correttissimi discorsi. Li fanno perché sentono di doverlo fare, e perché sanno (o gli è stato spiegato) che una rapida e pronta ammissione di sconfitta, quando detta ammissione si mostra inevitabile né può essere in alcun modo scansata, tappa la bocca all'avversario e ai famelici giornalisti, sigilla l'avvenimento e permette di chiudere lo spiacevole evento e di tirare avanti senza sprecare tempo ed energie ad allontanare l'inevitabile.
Allo stesso modo, un blando discorsetto di scuse e una pacata ammissione di torto placa gli animi, consente di proseguire il dialogo, olia e rende più scorrevole il rapporto umano. Con gli anni, lavorando in un ambiente fitto di esseri umani come la scuola, ho imparato che in certi casi conviene perfino tagliare corto e farsi moderatamente carico di torti che sono solo apparenti: rende tutto più semplice (sì, lavorando negli archivi non era mai stato necessario. Immagino che anche gli archivi siano suscettibili, a modo loro, ma chiedergli scusa non si era mai rivelato necessario). Sarebbe molto bello riuscire a spiegarlo ai nostri permalosissimi alunni che vengono spesso cresciuti dai genitori in base al principio che il torto non si ammette mai, nemmeno davanti all'evidenza più lampante, e la sconfitta propria è sempre da imputarsi ad altri o almeno a circostanze contro cui la nostra povera volontà è stata oggettivamente impossibilitata a prevalere.
In sostanza, il vero italiano non perde mai e non ha mai torto, in politica come altrove (e del resto, i nostri politici sono da noi scelti appunto perché ci rappresentano). E tutto ciò è molto scomodo da affrontare e superare, per tacere del fatto che ci ostacola non poco.

7 commenti:

  1. È una tendenza che scorre nelle vene insieme al nostro sangue e un po' tutti ne siamo vittime e protagonisti. Quando si svolge un ruolo pubblico, ammettere di avere sbagliato può dare l'opportunità di rimediare, stizzirsi e scaricare sugli altri le colpe apre la strada della rovina. Eppure c'è chi ha la faccia tosta di tentare di nuovo.

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  2. Sono sempre un po' scettica sulle spiegazioni unicamente psicologiche e ritengo le situazioni psicologiche collettive assai determinate da cause storiche e socioeconomiche. Diciamo che non ammettere la sconfitta significa anche non essere obbligati a riconoscerne le cause. Ad esempio avere convintamente abbandonato la difesa degli interessi che si era nati per tutelare.

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  3. Ti adoro per essere riuscita a citare Ranma in questo contesto.
    Anche io trovo che spesso si faccia prima a prendersi anche colpe non del tutto nostre per andare avanti . Invece i ns politici si comportano come bambini di tre anni.
    Bah
    Off topic: hai cambiato colore o sto diventando io più cieca? Mauve su rosa lo leggo solo con la luminosità altissima
    Ciao
    V

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  4. @Vanessa:
    No, lo sfondo dovrebbe essere lo stesso, e sul mio schermo risulta perfettamente chiaro e leggibile. A questo punto vorrei sapere se c'è stato qualcun altro che ha trovato difficoltà a leggere, perchéin caso a cambiare colore basta un attimo (per ora traccheggio perché il mauve su rosa è uni dei mei accostamenti preferiti, non scordiamo che sono una dama hejan...)

    @Pellegrina:
    Ma anche tu mi citi una causa psicologica: "Noi non riconosciamo la sconfitta e le sue stupide e insulse cause". Sì, vabbé, ma la sconfitta c'è stata lo stesso. E parlo di causa psicologica perché è un fenomeno assolutamente patetico e trasversale e riguarda ogni partito che ha operato nell'ultimo quarantennio.

    @Mel:
    Assolutamente d'accordo! Ammettere la sconfitta ti permette di lasciartela alle spalle, aggirare i detriti rende molto più complicato districarsi - e immagino che all'estero usino risolvere così il problema proprio per questo motivo, e non perché maggiormente portati all'introapezione o roba del genere.

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  5. Chi ha detto che le cause siano stupide e insulse? Personalmente non credo di averlo fatto.
    Ad ogni modo, non riconoscere la sconfitta implica non cambiare politica; e non cambiare politica, cioè non rivedere gli interessi che si stanno portando avanti, è tutt'altro che psicologia: è brutalmente questione materiale di rappresentanza!
    Ad esempio difendere i salari o distruggerli (generalmente a vantaggio delle rendite), i servizi pubblici o distruggerli (generalmente a vantaggio delle grandi aziende private multinazionali, dall'acqua alle assicurazioni), gli investimenti pubblici o il pareggio di bilancio in Costituzione (a vantaggio degli stessi, ecc.), difendere i diritti economici (lavoro, salario, pensione ferie ecc.) sanciti dalla Costituzione o distruggerli in nome di altri interessi, limitare l'impresa privata a ciò che ha utilità sociale e non viola la dignità umana... .
    Un partito mica sceglie queste cose per "psicologia".

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  6. @Pellegrina:
    Temo di non essermi spiegata bene. Intendevo dire che solo una benemerita fava marzola può credere seriamente che una pubblica ammissione di sconfitta elettorale (che, nota bene, di solito arriva, anche se a distanza di parecchi giorni) implichi una revisione delle linee della politica di un partito - che a volte si fa e a volte no. Implica però l'evitare di coprirsi di ridicolo o di passare per pusillanime - due problemi in cui i nostri politici hanno notevole tendenza ad incappare. Insomma, il mio era un discorso molto più legato alla forma. - a quel tipo di forma però che influenza fortemente non tanto una linea di partito, quanto la psicologia del singolo, e nel caso italiano di parecchi milioni di singoli.

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  7. Effettivamente manca un passaggio, grazie: riconoscere una sconfitta implica ammettere che qualcosa non ha funzionato, e ciò può aprire discussioni in pubblico 1)sui propri sbagli e 2) sulle scelte politiche 3)sulla necessità di cambiarla. Ciò che specie se si lavora su Commissione non si vuole a nessun costo fare, preferendo se mai ridurre il tutto a una questione di correnti da regolare a porte il più possibile chiuse.
    Fave asparagi o agretti che siano.

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