venerdì 27 novembre 2020

Guida galattica per gli autostoppisti - Douglas Adams


La Guida galattica entrò nella mia vita solo verso la fine dello scorso millennio, quando entrai in rete e cominciai a frequentare ragazzini con dieci o quindici anni meno di me appassionati di letteratura fantastica. Scoprii quindi questo famosissimo oggetto di culto, lo presi in biblioteca e lo lessi con modesto, non so come e non so perché. Storia complicata, piuttosto frenetica, nessuno si fermava mai a prendere una bella tazza di tè - anche se qualcuno, a dire il vero, ci provava con tutte le sue forze - e niente conversazioni tranquille e introspettiche. O quasi.
Tuttavia ho continuato a sentirne parlare, sono inciampata in qualche video del film e alla fine ho deciso di riprovare. Stavolta però mi sono comprata l'intero ciclo, in un comodo volumone di poco più di 800 pagine per la modica cifra di 17.00 euro - altri infatti, al contrario di me, lo apprezzavano assai e dunque viene periodicamente ristampato. Con la riapparizione della micidiale Didattica a Distanza, quando una lettura brillante si imponeva ci ho riprovato, con risultati decisamente migliori. E dunque eccomi qui a presentare un libro per volta l'intero ciclo di una trilogia in cinque volumi più un raccontino.
Il vantaggio di comprare l'intero ciclo, oltre al risparmio di soldi e di spazio, consiste in una deliziosa prefazione della buonanima dell'autore che ne racconta le origini, invero complicate.
Il ciclo della Guida galattica infatti non si limita ai cinque romanzi più raccontino, ma comprende anche una serie radiofonica, una serie televisiva, un film e un videogioco.
"Mbeh?" si dirà "Anche da Orgoglio e Pregiudizio  sono stati tratti tre film e uno sceneggiato più svariati fumetti e chissà quante edizioni radiofoniche, e non c'è niente  di complicato nelle sue origini". 
Vero, ma nel caso della Guida Galattica tutta questa roba è stata fatta quasi contemporaneamente.
In principio era la serie radiofonica, poi arrivò il primo libro che in parte la contraddiceva, poi la seconda serie radiofonica, e insieme i vari libri più il progetto del film e... ripeto, è una storia complicata e non starò a spiegarla perché in fondo io mi limito a presentare i libri. Tuttavia almeno il film (uscito nel 2005, ormai a palle ferme, ma in progetto da più di venti anni) l'ho visto e garantisco che qualche piccola discrepanza c'è, a partire da uno dei protagonisti che ha una sola testa, ed è difficile non rendersi conto che i singoli libri sono collegati tra loro con - ehm - diciamo qualche lieve contraddizione interna. D'altra parte la buonanima dell'autore dichiara con fermezza nella sua introduzione che grazie all'edizione completa del ciclo adesso il tutto si contraddice come vuole lui e solo con l'autorizzazione dell'autore che è poi lui stesso medesimo. E vallo a contraddire, se ti riesce.
D'altra parte non si tratta certo di cinque romanzi appiccicati con la colla: non solo i protagonisti sono e rimangono sempre gli stessi dall'inizio alla fine, ma vediamo spesso piccoli inserti, dettagli di contorno, graziosi intermezzi che un romanzo o due dopo si rivelano in tutta la loro importanza e diventano la trama portante - caso classico i delfini che appaiono e scompaiono e a metà del quarto libro sto ancora aspettando che facciano qualcosa di rilevante per guadagnarsi i loro salmoni.
A proposito dei delfini, eccoli in apertura del film (unico momento in cui compaiono ma è una comparsa davvero spettacolare):

e per la versione in lingua originale della canzone basta guardare qui.
Stabilito che i delfini ci sono (forse) solo per fare un po' di scena, parliamo invece della Guida. No, non del romanzo, ma del libro che dà il titolo al romanzo: uno strumento davvero essenziale per ogni il viaggiatore dello spazio, ma soprattutto per chi vuole girare per la galassia in... no, autostop non è una buona parola, e temo che il traduttore abbia fallato nel tradurre la parola hitchhiker, che è parola che sta ad indicare chi viaggia grazie a passaggi ottenuti gratis - i quali passaggi, chiaramente, per viaggiare nello spazio non sono su automobili o camion; e allora è più esatto dire che la Guida si rivolge a chi sceglie di girare la galassia spendendo poco e risparmiando soprattutto sulla spesa dei biglietti. Il pubblico di questo libro è vasto, e il libro ancor più vasto, tanto che passa il milione di pagine ed è dunque contenuto... sì, oggi lo chiamiamo tablet,  ma quando uscì la serie radiofonica, nel 1978, il tablet non c'era nemmeno nei telefilm di Star Trek. E dunque abbiamo questa amplissima pubblicazione che tratta un argomento invero assai vasto ed è composta e costantemente aggiornata da molti redattori, che accompagna il ciclo fornendo informazioni sui più vari argomenti - e, come capita molto spesso nelle guide, raramente sono informazioni di rilievo.

Dicevo, siamo nel 1978 (più o meno) e la galassia vive e brulica di infiniti pianeti abitati da infinite specie. Di tutto questo la Terra nulla sa, anche se ospita un redattore della Guida che è bloccato lì da svariati anni e smania di andarsene via (in astronavestop, si capisce) per ritornare nell'universo civile.
La Terra, oltre a non sapere molto della galassia sa poco anche di sé stessa, e gli uomini poi sono a uno stato di ignoranza addirittura patetica. Molto più esperti del viver dell'universo sono i delfini, e tuttavia anche loro sono solo la seconda specie più evoluta. La prima la scopriremo abbastanza avanti nel romanzo, ed è quella che la Terra l'ha fatta costruire, per un complesso esperimento di gran portata, ovvero scoprire una domanda (no, non la risposta. La risposta non serve, se non  hai la domanda giusta). Proprio cinque minuti prima di avere la domanda però la Terra viene distrutta, per far posto a una strada speciale per astronavi - giusto un attimo prima che una nuova grandiosa scoperta scientifica rendesse del tutto inutili le strade per astronavi. 
Si salveranno solo due terrestri: una bella e saggia ragazza, che incontreremo solo dopo diversi capitoli,  e il protagonista principale, Arthur Dent, interpretato nel film dal mio amato Martin Freeman e che è un eroe abbastanza simile a Bilbo Baggins, prima tra tutte una singolare capacità di ritrovarsi portato dalla piena. I due si incontreranno, dopo qualche galattico incidente, su una astronave di nome Cuore d'oro che ha una caratteristica davvero speciale: un motore ad improbabilità assoluta che permette viaggi particolarmente veloci e spericolati. Tra gli altri membri dell'equipaggio contiamo un robot vagamente antropomorfo di grandi capacità intellettive ma assai portato alla depressione e all'autocommiserazione, un computer terribilmente giulivo e ciarliero e, naturalmente, il capitano, tal Zaphod Beeblebrox, che in sintesi è il classico personaggio apparentemente frivolo che riserva grandi sorprese, e che è il capitano dell'astronave... perché l'ha rubata il giorno del varo. E ha due teste.
Da sinistra: Zaphod, la fanciulla, il robot depresso, il compilatore di guide e Arthur Dent.
Non è un caso se gli ultimi due hanno grossi asciugamani.
Dunque abbiamo un gruppo di personaggi apparentemente un po' di maniera e uno sfondo avventuroso. Non è che per caso magari c'è anche una trama?
Sì che c'è, ed è anche complessa. Si sviluppa in modo abbastanza diverso dal solito, con una tecnica narrativa particolare che dopo Adams ha avuto una certa fortuna tra gli scrittori di letteratura  fantastica, ma che richiede una particolare abilità per non lasciare il lettore confuso, stordito o annoiato per il troppo rumore di fondo. Al contrario di molti suoi colleghi Adams azzecca il ritmo giusto e la lettura scorre molto bene, col solo inconveniente che non sempre si memorizza a dovere quel dato essenziale che servirà di lì a cinquanta pagine perché questo dato importante non è preannunciato da trombe, timpani e tamburi e segnalato da cinquanta frecce illuminate ma, come nei migliori gialli, inserito in silenzio col più sornione dei modi.
Per dirla in sintesi: la Terra viene distrutta e si scoprirà che distruggerla è stato un grave errore che rischia di avere ancor più gravi conseguenze. Alla fine del romanzo poi tutti vanno a cena, in un ristorante al termine dell'universo. Che guarda caso è il titolo del romanzo successivo.
Consigliato nelle quarantene e nei lockdown, ma anche nei momenti in cui si desidera una lettura vivace ma diversa dal solito che sia nel contempo piuttosto profonda.

Con questo post ritorno con gioia a partecipare al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro buone letture e un totale stato di negatività a chiunque passi da qui.

sabato 21 novembre 2020

Il magnifico collegamento in rete di St. Mary Mead

 
La Seconda Asserpentata ride allegramente alle spalle della prof. Murasaki
- e per fortuna non sa quanto motivo ha di ridere. L'immagine è di Monokubo.

Quando la Terza Brillante stava per uscire dalla quarantena, l'intera Toscana è passata dall'arancione al rosso, e a quel punto a far lezione in presenza alle medie restavano soltanto le classi prime.
Chi voleva o poteva grazie alla struttura del suo orario comunque poteva fare lezione da casa.
Ma, nonostante mi si offrisse la possibilità di passare da un caldo letto a una postazione informatica munita di tutti i comfort senza soluzione di continuità, non ho esitato a optare per la scomoda postazione nella fredda scuola di St. Mary Mead* in virtù dell'assai migliore qualità del collegamento.
Che però Lunedì mattina non c'era, né buono né cattivo; c'era solo il tradizionale dinosaurino che segnalava l'assenza di collegamento. Cinque insegnanti curriculari vagavano per i corridoi deprecando e ululando, mentre una sesta si arrampicava in Biblioteca, sede della Gran Centralina del Collegamento, dove ha scoperto... che la linea non funzionava, cosa segnalata da una lucina arancione invece che verde, e in mancanza di meglio ha tentato il vecchio Rimedio della Nonna "spengi tutto e poi riaccendi".
I Rimedi della Nonna hanno questo di buono: sono rudimentali ma funzionano; e infatti tutto si è riacceso e il collegamento è partito, ma tutte noi eravamo ormai abbastanza di malumore.
Due giorni dopo tocca alla ex-Prima Asserpentata, ormai passata di grado a Seconda e più Asserpentata che mai.
Il collegamento, davvero, non è stato cosa. Qualcuno non vedeva, qualcuno non sentiva e tra questi Qualcuni c'ero anch'io, che sono entrata e uscita tre volte.
Ieri però la lezione è stata un orrore dall'inizio alla fine. Diluviava, e dunque il collegamento andava male di per sé. GoogleChrome si è rifiutato di fare il suo dovere e quindi ho dovuto ripiegare su Firefox che, nonostante una icona veramente deliziosa, è ormai antiquato e nessuno lo usa più, per cui ho dovuto ridargli le impostazioni. 
Poi, in un attacco di acuta imbranataggine sono riuscita a chiudermi da sola il programma senza preavviso. A quel punto, misteriosissimamente, Google Chrome è ripartito senza batter ciglio.
Con un po' di pazienza la lezione si è riavviata e  avevo appena finito di rampognare Colombelli perché le sue domande sull'Unione Europea non erano state svolte con adeguata accuratezza e coscienziosità quando il collegamento se n'è andato di nuovo e il nostro amico dinosaurino è ricomparso al posto di GoogleMeet. 
Anche in Sala Insegnanti troneggia il dinosauro. Evidentemente la rete è saltata in tutta la scuola.
Colpa dei lavori? Colpa del maltempo? Colpa del Fantasma Formaggino?
La Custode suggerisce di riprovare il Rimedio della Nonna e dunque salgo in Biblioteca.
Dove tutto è calmo e tranquillo, soprattutto la luce della centralina che non è né verde né arancione, ma proprio spenta. Niente di strano dunque che il segnale non arrivi nelle aule, stante che non c'è alcun segnale da far arrivare.
In un angolo l'impeccabile prof. Chantelle, con la sua aureola più lucente in testa, sta prendendo appunti da un paio di libri di matematica. Quando mi vede guardare perplessa la centralina si informa con la consueta e impeccabile cortesia sul motivo della mia perplessità.
-E' che qui dovrebbe esserci una lucina, ma non c'è - spiego.
-Oh? Probabilmente perché ho staccato la spina e ho messo in carica il mio computer.
-Hai staccato l'unica spina di tutta la stanza? Ma qui siamo pieni di prese, abbiamo anche una ciabatta a sei piazze - boccheggio incredula.
-Sì, ma quella è l'unica presa Shuco, il mio è un portatile vecchio e qui non ci sono adattatori.
-...cioè hai tolto la rete a tutta la scuola per mettere in carica il tuo portatile? - riesco ad articolare.
-Non avevo fatto caso a quel box. E' lì che c'è il modem? - chiede Chantelle blandamente interessata.
Da cinque anni orna di sua bella presenza la nostra scuoletta di campagna, ed è una delle informatiche rampanti del gruppo. Usa con grande naturalezza un informatichese stretto che riesce regolarmente a farmi sentire una povera sprovveduta che coi computer si arrangia alla meno peggio (del resto, è esattamente quel che sono: molta pratica e pochissima teoria, per giunta risalente ormai al secondo millennio). 
Ma non sapeva da dove la rete arrivava alla scuola. Giusto così, del resto, perché lo dovrebbe sapere? Lei ha un contratto a giga infiniti e lavora dai suoi strumenti, mica come me che a scuola uso solo le attrezzature della scuola.
-E' grave quel che ho fatto? - si informa cortesemente.
-Sì, è grave: hai tolto la rete a tutta la scuola, e soprattutto a me che stavo facendo lezione  - rispondo con altrettanta cortesia. Sembriamo uscite da un romanzo di Wodehouse. Stacco la spina al suo computer e riaccendo la centralina - Sappi che se non ti picchio è solo perché... - pausa. Già, perché non la picchio?
-Solo perché in fondo mi vuoi bene? - suggerisce Chantelle speranzosa.
-Sì, esattamente per questo motivo - ammetto.
Scendo giù e, con la rete di nuovo in funzione, mando una mail alla classe spiegando pudicamente che "ahimé, la rete era saltata, ci vediamo alla prossima lezione e continuerò a risentirvi le domande sull'Unione Europea".
Poi, dopo aver concluso (se vogliamo dire così) la lezione più inconcludente in ventun anni di onorata carriera, mentre suona la campana tolgo il piumino dalla custodia antiCovid, lo infilo e mi avvio verso casa.

Speriamo di uscire presto dalla Zona Rossa.

*Lunedì mattina spesso le scuole sono fredde. Per vari motivi, in questo periodo la scuola media di St. Mary Mead è anche umida.

martedì 17 novembre 2020

17 Novembre 2020 - Festa del Gatto Nero

Auguri a tutti i bellissimi gatti neri che allietano le nostre case e i nostri giardini, ai loro adorabili cuccioli e ai loro umani di riferimento.

E auguri a tutti noi, perché possiamo conservarci in perfetta salute e mantenere un adeguato livello di benessere economico onde poter continuare a provvedere loro nel migliore dei modi, servendoli e riverendoli com'è nostro dovere e occupandoci adeguatamente anche di quelli che invece che in una bella casa con un bel giardino stanno in condizioni più precarie... no, "fragili", oggi si usa dire "fragili". Augurissimi ai gatti neri fragili e agli umani che, per colpa della loro fragilità, non possono avere intorno a sé tutti i gatti neri che desidererebbero.

Ricordando sempre che il bellissimo gatto nero è anche un incomparabile portafortuna che con la sua semplice presenza apporta armonia, benessere e felicità nelle case in cui si degna di abitare. 

E auguri anche ai pipistrelli, già che ci siamo, e possa il loro letargo essere tranquillo e fertile. 
 

domenica 15 novembre 2020

Sarà il branco che viene a cercarti, se ti perdi

 

Non è il mio disco preferito dei Pooh (lo sono un po' tutti) 
ma è  quello con la copertina che mi piace di più

Il primo post di questo blog (dopo i doverosi saluti agli eventuali lettori, si capisce) era dedicato ai Pooh, e per un crudele caso della vita più esattamente al fatto che, secondo me, i Pooh avrebbero dovuto smettere di cantare perché ormai stavano stonando - che per un gruppo che per gran tempo si era segnalato per le ottime voci e i mirabili impasti vocali dei suoi componenti, davvero non mi sembrava cosa.
Era il 21 Agosto del 2008. Qualche mese dopo, con una lettera che fece assai scalpore, Stefano D'Orazio, il batterista, che tra l'altro non stonava affatto, lasciò il complesso con una celebre lettera  in cui diceva, in pratica, che aveva già dato. Gli altri non la presero benissimo ma non scorse sangue né ci furono grandi polemiche pubbliche e l'amicizia rimase. 
I Pooh si presero un altro batterista e continuarono, ma da allora non li ho più seguiti. Di fatto, non ho nemmeno capito se dopo si sono sciolti o no.
Il 6 Novembre 2020 Stefano D'Orazio è morto di Covid, o forse più esattamente per colpa del Covid: a 72 anni non rientrava nella fascia più a rischio, ma aveva la leucemia e stava quindi seguendo delle cure piuttosto debilitanti - insomma, in circostanze normali probabilmente il Covid gli sarebbe passato accanto senza fare grossi danni, ma purtroppo le circostanze tanto normali non erano.
E così proprio lui, che ha scritto un pezzo piuttosto lungo della storia della musica italiana, ha avuto un funerale ristrettissimo (se pure l'ha avuto, non so nemmeno quello) e dopo aver passato decenni a riempire palasport, stadi e teatri vari è morto da solo, senza nemmeno i familiari vicino. Una cosa molto ingiusta, ma alla fine la vita è piena di ingiustizie, e figurarsi la morte.

Nel panorama musicale i Pooh sono stati una presenza piuttosto anomala perché non hanno fatto all'apparenza quasi niente di particolare se non una quantità immane di canzoni di successo, alcune delle quali molto belle.
Non facevano tendenza, nonostante un successo continuativo che è durato per decenni. Non avviarono grandiose sperimentazioni musicali: un gruppo pop, melodico, che confezionava bene i suoi prodotti, in apparenza tradizionali (anche se mai troppo tradizionali).
Ufficialmente non impegnati in politica, oppure verso destra (ma mi convince di più la teoria che li vuole cattocomunisti, fermo restando che in mezzo secolo si fa in tempo a cambiare idea svariate volte) si tolsero comunque la soddisfazione di avere una canzone censurata (Brennero 66, che parlava dei morti negli attentati altoatesini) e dedicarono canzoni ai

detenuti, ai trans, agli immigrati, al femminismo, alle fanciulle di buona famiglia soffocate per troppo amore e troppa protezione, ad Attila, alle invasioni dei conquistadores, ai nativi americani, al muro di Berlino e a svariate tematiche ambientali, con una lunga collaborazione col WWF - ma sono sicura che ho dimenticato un sacco di cose.
Nonostante un grandioso e costante successo commerciale soffrivano il peso delle intromissioni dei discografici nelle loro scelte (e nei loro incassi) e così, a quanto ho capito per primi in Italia, cominciarono ad autoprodursi per poter fare le cose a modo loro - che poi non era un modo particolarmente rivoluzionario, ma era il loro. E per primi han portato in Italia fumi e raggi laser e i microfoni senza filo, perché tutti gli anni andavano all'estero ad appositi saloni per musicisti e tornavano con i loro pacchetti di novità, così come per primi si sono attrezzati un bel furgone con tanto di cucina per quando andavano in tournée perché erano stufi di mangiare male alla fine dei concerti. Gente dotata di senso pratico, gentile con tutti alle interviste, paziente, e che non litigava mai in pubblico.
Collezionarono matrimoni, figli e famiglie allargate senza farne grande mistero e senza raccontare mai granché. La maggior parte delle loro canzoni parlava appunto d'amore e di rapporti di coppia, tradimenti inclusi, visti da angolature a volte anche un po' inusuali:  il punto di vista di chi, dopo l'avventura di una notte, torna a casa per scaldare la sua amata compagna  o di chi mette sottosopra la sua vita per un colpo di fulmine, o si ritrova improvvisamente la ragazza incinta, l'esasperante individuo che non lascerà mai la moglie ma continua a prometterlo in buona fede all'amante, chi scappa via stufo e arcistufo, chi scopre che, oops, lei si è stufata, chi si ritrova nella deplorevole situazione di dover dire "no, grazie", chi si prende una piccola vacanza dalla vita di tutti i giorni, chi è stato piantato e ha la discutibilissima fortuna di avere amici premurosi che lo consolano, chi ha la ex che ogni tanto ritorna a bussare alla sua porta per poi sparire di nuovo, 

Le feste finiscono e si rompono gli incantesimi.
Ma si può restare comunque amici per sempre, anche quando uno di noi è andato dietro al muro. O dietro al Velo, direbbero al Ministero della Magia.

giovedì 12 novembre 2020

Don't panic! (ovvero "eccoci all'acqua")


Il titolo di questo post ha una doppia origine.
La prima parte è un modo di dire famosissimo per la generazione cresciuta dopo la mia, in quanto sottotitolo della Guida galattica per gli autostoppisti ovvero quel romanzo che comincia il giorno dopo che i delfini, che sono la specie dominante sulla Terra anche se gli uomini non l'hanno mai capito, hanno salutato l'umanità con grandi e giocose acrobazie (il cui significato era "Addio, e grazie per tutto il pesce") prima di abbandonare il pianeta che stava per essere distrutto e salire a bordo di una bellissima astronave che era appunto venuta a portarli via.
Il secondo è un modo di dire della vecchia e gloriosa tradizione popolare e viene usato nei casi in cui un problema, a lungo prospettato e temuto, si manifesta per davvero.

Passate le prime due, disastrose, quarantene di classe, la Preside Caramell ha meditato e ponderato, soprattutto sulla curiosa osservazione che dalla ASL le han mandato a dire: "E certo, i vostri insegnanti si mettono subito in quarantena. Nelle altre scuole non lo fanno". Sottinteso: "Siete un po' troppo scrupolosi". Così al Collegio ci è stato letto quando effettivamente dovevamo metterci in quarantena, ovvero se avevamo a lungo pomiciato con un alunno positivo o al contrario lui ci aveva sputato in un occhio (dopo essersi tolto la mascherina, ovviamente). Insomma se c'era stato un "contatto stretto" di una certa durata.
Qualora avessimo ritenuto di poter dire in piena purezza di coscienza che lo stretto contatto di una certa durata non c'era stato, allora bastava firmare una piccola autocertificazione in tal senso e potevamo continuare a farci onestamente la nostra vita, anche lavorativa.
Sempre allo stesso Collegio avevamo votato un regolamento per la Didattica a Distanza che diceva in sintesi che, in caso di classe in quarantena, gli facevamo lezione dalla classe, noi in classe e loro a casa, con l'orario un po' sforbiciato per dargli congrui intervalli onde riposarsi gli occhi, e se gli insegnanti in quarantena erano disponibili potevano far lezione anche loro senza mancar di riguardo al nostro ormai preistorico contratto.
E pochi giorni dopo la Terza Brillante è entrata in quarantena, giusto quando avevo deciso di avviare una lunga serie di esposizioni su temi assegnati, da ascoltare pigramente mentre mi laccavo le unghie per poi criticarli che le slide non erano fatte bene o che avevano trascurato questo o quel punto essenziale - insomma un po' di sana routine, finalmente.
E il mio primo, preoccupatissimo pensiero è stato rivolto non già alla salute del povero contagiato, quanto alla telecamera della classe, che non era stata mai provata.
"Dovrebbe funzionare" mi ha rassicurato la paziente Responsabile Digitale. Poi mi ha spiegato, in caso che così non fosse, che potevo prendere questo o quel computer dove la telecamera era già stata ampiamente testata e metterlo in classe al posto del nostro.
Discussioni sulle casse. Ma non importavano, potevo prendere le cuffie che c'erano nel laboratorio di informatica nell'armadietto A sul palchetto B. 
Creazione della lezione su Google Meet. Fitto scambio di mail con i ragazzi e con i colleghi.
In sottofondo la VicePreside che mi tampinava perché "mandassi il programma della settimana alla Preside". Il Piano Didattico, nientemeno, con tanto di tabellina dell'orario, in qualità di coordinatore.
"Quale tabellina di quale orario? Il regolamento prevede che facciamo l'orario regolare" rispondevo sempre più irritata.
Niente, lei voleva che mandassi la tabellina.
Ho mandato due righe dicendo che facevamo l'orario regolare. Avevo altro per la testa che perder tempo con le scartoffie.

La mattina dopo, tremante, tremebonda e assolutamente elettrica mi fiondo in classe, perché avrei avuto il grande onore di fare il taglio del nastro.
Sulla porta dell'aula un cartello "Vietato entrare".
"Che è 'sta roba?" mi son chiesta schifata strappandolo. Sono una Brava Insegnante, non ho tempo per le scartoffie, io, mi preoccupo soprattutto della didattica e del programma.
All'interno della classe funzionava tutto: le casse, le cuffie e pure la telecamera. Anzi, grazie al possente collegamento in fibra per la prima volta vedo non già degli ectoplasmi, ma dei ragazzi rosei e freschi. Molto perplessi, in verità. 
Qualcuno va e viene come un'anima in pena, qualcuno alla fine entra con l'account del padre, della zia o del gatto.
Ma loro sono la Terza Brillante, hanno fatto (bene) tutti i compiti e hanno anche preparato le ricerche. 
Non è proprio una lezione rilassante come speravo, ma funziona.
Dimagrita di un buon paio di chili esco infine dalla classe, dopo essermi preoccupata di lasciare ai colleghi un bel sanificatore onde pulire cattedra e computer, e incrocio la custode.
"Professoressa, ma sulla porta c'era un cartello. Nessuno può entrare in quella classe prima che sia stata sanificata da apposita ditta esterna".
Oh?
Ripensandoci, la cosa ha un senso. Specie se si sorvola pudicamente sul fatto che in quella classe, per quattro giorni, ovvero fin quando non è arrivato il risultato del tampone, senza sanificazione alcuna avevamo allegramente fatto lezione in presenza con tutti gli alunni (salvo quello in quarantena che aspettava il risultato del tampone).
Ma non ci avevo pensato. E nemmeno ci aveva pensato la Responsabile Digitale, o la VicePreside con cui avevo parlato dei miei patemi d'animo riguardo alla telecamera e che, pure lei, aveva provato a racconfortarmi.
Mi sono cosparsa di cenere sul capo e fustigata con una frusta imbevuta nel succo di ortica. E tutti han provato a confortarmi dicendo che non si poteva pensare a tutto.
E poi la vita è continuata. Chi è venuto dopo di me ha fatto lezione dalla biblioteca, che in questo periodo è un posto molto rilassante in quanto non ci va nessuno, nemmeno io - solo un po' di pioggia, ogni tanto, a sgocciolare lungo le pareti.

La quarantena è iniziata, evviva la quarantena.

domenica 8 novembre 2020

Su talune criticità organizzative riguardo a tracciamenti, tamponi e quarantene




Com'è noto anche ai sassi del lungomare, la riapertura delle scuole era considerata uno dei punti critici per la pandemia. E' stato perciò organizzato un attento monitoraggio di insegnanti e alunni per garantire sicurezza ed efficienza alle scuole in questione e alle loro famiglie.
A tal scopo era stato organizzato un Grandioso Sistema di Testatura per gli insegnanti, che a dire il vero in Toscana non ha funzionato male (altrove sembra che abbia fatto un po' pena).
Al momento di rientrare dunque io e tutti i volenterosi colleghi che si erano fatti testare sapevano di essere negativi.
E qualcuno ha osservato che già che c'erano potevano testare anche i ragazzi - che è giusto, ma forse un po' complicato: si era rivelato piuttosto complicato testare qualche centinaio di migliaia di volenterosi lavoratori della scuola, figurarsi fare dieci volte tanto.

All'inizio dell'anno scolastico i nuovi positivi si misuravano a centinaia al giorno, la situazione era abbastanza tranquilla e le ASL non davano particolari segni di stress. Inoltre erano state fatte all'universo mondo due palle di tale incommensurabile grandezza sulla riapertura delle scuole e i rischi che essa comportava, che nella mia santa ingenuità davo per scontato che corsie preferenziali di ogni tipo fossero state organizzate per qualsiasi persona collegata alla scuola che avesse manifestato una qualche, sia pur lieve, forma di malessere (com'è noto a chiunque mi conosca o abbia letto almeno un paio di post del presente blog, nonostante un età tutt'altro che tenera mi distinguo soprattutto per un candore che sconfina facilmente con l'idiozia e un grado di ingenuità addirittura patetico).
Con gran cautela abbiamo affrontato le prime due settimane di lezione. Tutti temevamo la Seconda Ondata, naturalmente, ma ci avevano spiegato nel dettaglio che cotale ondata sarebbe arrivata con l'Autunno - e l'Autunno, in Toscana, si fa spesso desiderare anche dopo Halloween.
Non quest'anno. A fine Settembre nel giro di 24 ore la temperatura è calata di venti gradi, e sono arrivati i primi, inevitabili raffreddori (e, temo, anche la seconda ondata).
Di uno di questi è rimasta vittima la prof. Spini che, svegliatasi un Sabato mattina con febbre e tosse, ha prontamente chiamato la guardia medica onde farsi fare un tampone per fugare subito ogni dubbio in un senso o nell'altro, convinta com'era (pure lei è un po' ingenua, anche se non certo ai miei livelli) che cotale guardia medica fosse attrezzata per fare prontamente tamponi anche al gatto di casa, se ciò gli fosse stato richiesto.
Così non è stato. Anzi, la guardia medica, con bonomia, ha detto che con un po' di raffreddore e la febbre basta stare a casa al caldo per qualche giorno (raffinatissima cognizione tecnica di cui la prof. Spini era già al corrente, forse in virtù della sua formazione prevalentemente scientifica, anche se non medica) e per il tampone doveva rivolgersi al medico di base.
Che è stato chiamato prontamente Lunedì, mentre noi a scuola impazzivamo con le sostituzioni. Ma non c'era il medico ufficiale, c'era il sostituto che ha candidamente dichiarato che non sapeva niente della procedura per fare i tamponi e che si sarebbe informato. 
E così in un colpo solo alla scuola di St. Mary Mead abbiamo scoperto
1) che in tempi di pandemia la guardia medica non faceva tamponi
e
2) ai medici di base e sostituti NON erano state fatte due palle colossali con la trafila necessaria per fare un tampone qui e subito, adesso, anche il giorno prima se possibile.
Mica si dice un corso di quaranta ore, ma almeno uno di quei volantini che decorano spesso gli studi medici. E qualche scatola contenente il necessario per fare il tampone, magari.
Ma scusate, non eravamo in tempo di pandemia e non dovevamo stare tutti preparati a ogni evenienza?
Alla fine per avere il risultato del tampone (negativo) della prof. Spini c'è voluta più di una settimana.

A ruota sono arrivati - o meglio, NON sono arrivati - i primi tamponi dei ragazzi. Con calma, con pazienza, con lunghe attese che sfioravano la settimana e con attese molto più brevi se fatti a pagamento (oops). Qualcuno ha anche avuto fortuna e imboccato la via giusta riuscendo a farsi fare un tampone dalla ASL in nemmeno una giornata. Qualcuno, afflitto da quel gran peso costituito da genitori idioti, è rimasto a candire per giorni e giorni e solo dopo tre telefonate le famiglie si son convinte che per farli rientrare a scuola volevamo l'esito negativo di un tampone; qualcun altro, sempre afflitto dal peso di cui sopra, di tamponi se ne fa circa uno a settimana e finisce che non lo vediamo quasi mai - e sì che gli farebbe un gran bene venire a scuola, non dico per studiare, ma almeno per starsene un po' lontano dai genitori idioti di cui sopra. 
Settimane e settimane di assenze inutili e superflue.
Signora ASL, si rende conto che ognuna di queste settimane perse è un fardello per la collettività e per l'alunno? Se stan male e non possono frequentare d'accordo, è inevitabile. Se stan benissimo e le famiglie li portano a sciare o a far turismo a New York, meglio per loro. Ma se devono solo annoiarsi a casa con un po' di compiti per tutta compagnia, via, davvero si dovrebbe evitare il più possibile.
E vogliamo parlare delle classi che solo una settimana dopo scoprono di essere stati a contatto con un positivo? Utilissimo entrare in quarantena una settimana dopo (utilissimo a favorire i contagi, intendo dire)!
Signora ASL, la scuola coinvolge dieci milioni di persone. Non vale la pena secondo lei di testarne qualcuna ogni tanto, magari una o due in più del necessario, per vedere di contenere il contagio?

Sono poi arrivate le quarantene per gli insegnanti: abbiamo la quarantena di dieci giorni con tampone e quella di quattordici senza tampone, ma fare un tampone a tempi brevi è ben più questione di culo che di procedura, e sorvoliamo pietosamente sui tempi necessari per il risultato, che vanno da poche ore a sei giorni. Quante giornate di lavoro sono state perse senza costrutto, in questo modo?

La scuola è stata riaperta con infinite polemiche, e in tanti ci siamo lamentati della ministra dell'Istruzione. 
La quale ministra ha risolto il problema di riorganizzare le riaperture passando la palla alle scuole secondo il buon vecchio motto "Fate un po' come vi pare".
E le scuole han fatto un po' come gli pareva, con grandissimi patemi d'animo e gran copia di lavoro extra, e ricorrendo ad una solerte e assidua coniugazione del verbo arrangiarsi sì come da sempre le scuole sogliono fare.
Ma due cose non dipendevano dalla scuola: i mezzi di trasporto e i tamponi.
Per quelli, temo, non è proprio possibile accusare la ministra.
E non discuto che organizzare i mezzi di trasporto pubblici nelle grandi città sia un problema (a St. Mary Mead, onestamente, ce la siamo cavata con poco), ma organizzare un po' meglio la tamponatura non era proprio possibile?

Infine, il test per gli insegnanti, che in teoria andrebbe ripetuto una volta al mese.
Ah, questo sì che è un provvedimento logico e sensato! Andrò tosto a prenotarmi per ripeterlo una volta al mese come ci esorta a fare il Ministero!
Ecco, a Settembre ho aspettato cinque giorni per farlo a un chilometro da casa. Stavolta mi hanno offerto una rosa di nomi dove il più vicino era a venti chilometri. Ho scelto quello ma, dice, non era possibile avere un appuntamento entro le prossime settimane.
Capisco di essere in provincia e di non poter sperare sempre di farmi le analisi sotto casa, ma francamente non mi sembra un gran momento per saltellare tra treni e corriere per andare a Ca' del Diavolo - e, a dirla tutta, sul piano climatico non è un gran momento nemmeno per farmi un centinaio di chilometri in moto. Neanche l'idea di organizzare una macchinata con i colleghi per un test-tour mi sembra delle più brillanti.

Al momento stiamo trionfalmente navigando verso i 40.000 casi al giorno.
L'epidemia imperversa in tutta Europa, e sono convinta che un prezzo avrebbe comunque dovuto essere pagato qui da noi, anche se nessuna scuola fosse stata riaperta.
Ma forse, magari, potrebbe essere che, con un po' di organizzazione e qualche relativa spesa superflua in più, avremmo pagato una cedola meno cara?

venerdì 6 novembre 2020

Banchi a rotelle 2 - La Vendetta

Banchi con le rotelle: non solo per l'autoscontro

E così, come mi ero ripromessa, ho portato anche la Terza in gita  di piacere in Aula Magna a vedere i banchi con le rotelle. Ho aspettato che fossero loro a chiedermelo, si capisce. In effetti mi chiedono di portarli a vedere i mitici banchi con le rotelle.
"D'accordo, ma niente autoscontro" dichiaro in assoluta ipocrisia.
Li guardano, ne discutono. E "Prof, possiamo provarli?"
"Sì, ma con cautela. Ricordatevi che sono oggetti fragili".
E lo sono davvero, a quel che sembra. Scontra che ti scontro, dopo nemmeno due minuti uno dei banchi cade per terra. Peccato solo che sul banco ci fosse un ragazzo.
"No, troppo forte così. Non dovete urtarvi bruscamente" li rampogno con dolcezza controllando che il caduto non si sia fatto male (non se ne è fatto manco un po', a giudicare da come ride).
Altri due  minuti, e un altro si ritrova a terra sul sedile. Infatti, come in tante sedie con le rotelle, c'è un perno che tiene unite le due parti, e con un po' di fortuna puoi staccarlo.
"Nemmeno così va bene. Sono oggetti delicati, manovrateli con dolcezza" li rimprovero con un pelino di dolcezza in meno.
Sono una classe molto ragionevole, e infatti cominciano a fare l'autoscontro, ma con dolcezza. Si urtano con garbo, si allontanano con garbo, si circondano e allargano e restringono con garbo. Mentre li guardo capisco finalmente perché a qualcuno è venuto in mente di acquistarli: effettivamente in quel modo il distanziamento di un metro e qualcosa si mantiene. Sono davvero banchi di sicurezza (se non ti attacchi al conducente di un altro banco e non cerchi di tirarlo giù, si capisce. E nella maggior parte delle classi è proprio quel che farebbero, e non solo a titolo di esperimento iniziale come ha fatto la Terza).
Ben presto l'Aula Magna è percorsa da banchi pattinanti. A modo suo, è uno spettacolo grazioso, ricorda vagamente certi galà di pattinaggio su ghiaccio.
Ma, ahimé, entra la custode. Molto arcigna, e piuttosto scandalizzata.
E no, no, no e assolutamente no! Loro quei banchi non avrebbero nemmeno dovuto toccarli, e certo non erano lì per giocarci in quel modo! E vengo rimproverata con una certa asprezza anch'io, ma un po' sotto le righe: ormai sono una decana anch'io, là dentro, più di tanto non si può mancarmi di riguardo. Accetto il rimprovero senza ribattere: non ho particolari argomenti da portare a mia difesa, se non il fatto che i banchi sono ancora in perfetta salute e i ragazzi si sono divertiti, ma in sicurezza. D'altra parte non ho nemmeno voglia di difendermi e del resto sarebbe perfettamente inutile.
Domi, ma neanche un po' pentiti, rientriamo in classe e riprendiamo la lezione senza spendere nemmeno un quarto di parola sull'accaduto. C'è la Belle Epoque che ci aspetta.

Ma secondo me avevamo trovato un ottimo utilizzo per quei banchi.

martedì 3 novembre 2020

Lunedì film - L'ultimo samurai (film per le medie)

 


Nonostante gli infiniti intralci di tutti i tipi, generi, forme e qualità, gli intervalli sfalsati e perciò onnipresenti, l'infernale valzer delle quarantene con infinite sostituzioni e annullamento delle sostituzioni e sostituzioni delle sostituzioni, i cambi orari e la cupa minaccia della Didattica a Distanza che incombe su tutti noi, la pioggia che scorre libera nelle aule e i trapani che imperversano, ogni tanto capita anche che si riesca a far lezione. 
Addirittura, con la Terza brillante mi sono ritrovata una tale quantità di ore che mi sono perfino concessa un film, complice una LIM che al momento funziona davvero bene. E, visto che gli avevo accennato al cambio di direzione con cui il Giappone aveva deciso di modernizzarsi, sotto la guida dell'imperatore Mutsuhito, cosa di meglio che questo film, per quanto un po' lungo (due ore e mezzo), che vanta una splendida fotografia, una bella sceneggiatura, un Tom Cruise in stato di grazia e una quantità sterminata di bellissime armature giapponesi che recitano benissimo, e che i poverini non hanno potuto ammirare al Museo Stibbert di Firenze per colpa del crudele lockdown della scorsa primavera?
Non era la prima volta che lo facevo vedere a una classe, ed ha sempre riscosso un gran successo. Così è stato anche stavolta.

Il film è del 2003, per la regia di Edward Zwick, e c'è dentro un sacco di Giappone, mediato dagli occhi del protagonista americano. Gli splendidi paesaggi giapponesi... sono in realtà forniti dalla Nuova Zelanda, dove conviene andare se si è affamati di verdi pianure e paesaggi scintillanti. Strano pensare che i miei due universi alternativi preferiti, ovvero Giappone e Terra di Mezzo vengono proprio da lì.
La storia è relativamente semplice: siamo nel 1876 e un ufficiale americano, assai traumatizzato dopo la guerra contro gli indiani (dove a traumatizzarlo è stata soprattutto la crudeltà con cui gli indiani sono stati sterminati) accetta di andare in Giappone per addestrare all'occidentale le truppe giapponesi dell'impero.
L'incarico, per quanto redditizio, non lo entusiasma, e ancor meno lo entusiasma l'ordine di andare troppo presto a combattere contro le truppe di un samurai che si sta ribellando all'imperatore. Le truppe, sostiene Nathan, non sono per niente pronte. Ma si sa che in questi casi c'è sempre qualche idiota che insiste per andare a combattere nonostante tutto, e quindi si parte.
Come da copione, le truppe imperiali davvero non sono pronte, e il combattimento finisce malissimo. L'ufficiale americano comunque non demorde, e catturarlo sarà una vera impresa, tanto che il comandante dei samurai decide di fargli grazia della vita e lo porta nel quartier generale delle sue truppe, dove l'americano ferito viene curato per poi scoprire che deve restare lì fino a primavera perché la neve blocca i passaggi.
Noi per la verità di neve ne vediamo abbastanza poca. Comunque l'ufficiale non può scappare e i suoi gentili carcerieri, una volta che le sue ferite sono guarite, lo trattano con bel garbo e gli insegnano anche a combattere à la japonaise, con i bastoni di legno. 


Quanto al samurai, che parla un po' di inglese, lo impegna in conversazioni assai filosofiche, mentre l'americano finisce per imparare il giapponese quanto basta per affrontare conversazioni essenziali ma a sfondo filosofico sull'onore, la lealtà, il percorso esistenziale, la morte e consimili. E tutti sono molto cerimoniosi e anche l'ufficiale americano impara a esserlo, e scrive molte riflessioni filosofiche sul suo diario.
In primavera, quando i valichi si riaprono, il samurai riporta il suo prigioniero in città, dove ne approfitta per parlare col suo imperatore, che lo tratta con grande rispetto ma si rifiuta di abbandonare il suo progetto di occidentalizzazione. Naturalmente i due non affrontano direttamente un concetto che sia uno, e si attorcigliano su raffinatissime riflessioni, ma la sceneggiatura è fatta talmente bene che anche lo spettatore occidentale capisce perfettamente di cosa stanno in realtà parlando dietro il velame de li versi strani.
E qualcuno cerca di uccidere il samurai, ma l'ufficiale lo salva... e ritorna tra le montagne con lui, per affrontare al suo fianco l'ultima battaglia contro l'esercito imperiale (ormai addestratissimo e perfettamente in grado di usare le armi occidentali, cannoni compresi).


La battaglia finale si svolge in modo assai nobile ed eroico e l'ultimo samurai realizza il sogno di ogni aristocratico giapponese, ovvero una morte onorevole, mentre l'ufficiale americano mette su famiglia nelle montagne (con la sorella del suo amico). Finale molto rasserenante, che comprende anche una scena dove l'ufficiale va a trovare l'imperatore e in un certo lo riconcilia con il suo amato nemico (perché il samurai ribelle e l'imperatore si amavano molto, e in realtà il samurai... combatteva contro l'imperatore per la gloria dell'imperatore, cosa di cui l'imperatore era perfettamente consapevole. Del resto è noto che Sono Pazzi Questi Giapponesi).
La storia è vera?
Abbastanza, anche se per amor di sceneggiatura certe cose sono state un po' ritoccate. Per chi vuole approfondire comunque ecco una recensione dal punto di vista storico, dove si conviene comunque che come film funziona a meraviglia.

Ultima nota: mentre lo rivedevo sono rimasta molto colpita dai cavalli, nobili e bellissimi animali sacrificati nell'ultima eroica carica dei samurai contro le armi occidentali (che in realtà non andò proprio così, ma fa niente). E mentre meditavo sulla crudeltà di portare i cavalli in guerra, intorno a me era un fiorire di fanciulle che si disperavano per i cavalli, mentre i fanciulli osservavano seccati che, insomma, c'erano anche degli uomini lì, possibile che si preoccupassero soltanto dei cavalli?
Naturalmente anch'io ero d'accordo con le fanciulle, ma ho potuto rassicurare tutti quando sui titoli di coda è apparsa la celebre frase "nessun animale è stato maltrattato per questo film".
E in cuor mio riflettevo che in vita mia ho visto decine di cavalli morire sullo schermo e mai prima d'ora mi ero posta il problema. Decisamente, il nostro rapporto con gli animali sta cambiando.