domenica 14 gennaio 2018

Di presagi favorevoli (le cartucce non servono solo per sparare)

Un anno fa ero in un letto d'ospedale con una bardatura decisamente complicata, anche se mi avevano già levato un po' di pendagli. All'epoca i miei progressi erano vistosi, e avevano già stabilito che il pancreas e il fegato stavano tornando nella norma, mentre avevano ancora qualche dubbio sui reni (che venne fugato nella settimana successiva). Ero ancora a digiuno completo e siccome alcuni amici mi avevano raccontato che il primo passo sarebbe stato darmi del tè caldo e ben zuccherato, ogni mattina a colazione scrutavo speranzosa gli OSS che passavano a dare la colazione e che si limitavano a lasciarmi la brocca "per bagnarmi le labbra". Il sogno di una tazza di tè caldo e ben zuccherato cullava le mie giornate, dunque, perché se non era quella mattina avrebbe potuto essere quella successiva, ed è sempre bene avere qualcosa da sperare in tempi brevi.
Alla luce di questi precedenti, l'inizio di quest'anno non poteva che essere molto migliore. La mia eterna convalescenza prosegue e nutrirmi continua ad essere impresa sempre un po' azzardata, ma questo fine settimana invece di sognare un tè caldo e ben zuccherato mi sono procurata un nuovo giaccone e un nuovo paio di stivaletti ai saldi invernali (che l'anno scorso non ho visto nemmeno col binocolo).
Il ritorno a scuola è stato faticoso, molto faticoso, ma allietato da una serie di simpatiche coincidenze che mi rallegrano dall'inizio dell'anno. L'ultima è stata Venerdì scorso.
La scuola media di St. Mary Mead stava passando un periodo alquanto buio: l'unica stampante affidabile, quella di Sala Insegnanti, era senza cartuccia da fine Novembre. Ci avevano assicurato che prima di Gennaio non si poteva più ordinare nulla. In compenso abbiamo una fotocopiatrice nuova, con un meccanismo che dà un numero fisso di di fotocopie per classe ogni mese e che non era stato ancora aggiornato (al 13 Gennaio 13). In più si raccontava che la cartuccia non sarebbe arrivata prima della metà di Febbraio (!!!).
Lunedì dovevo iniziare il corso dell'affettività, che richiedeva gran numero di fotocopie, e non potevo stampare né fotocopiare un cazzo di niente. Ma avevo deciso di iniziare Lunedì, perché avevamo la scadenza ravvicinata dell'incontro con gli psicologi, perché  non eravamo ancora ripartiti col programma di Italiano e soprattutto perché sì.
Dopo aver ascoltato dai colleghi una lunga e infinita serie di lamentele (cui avevo anche dato un generosissimo contributo) ho deciso infine di tentare un colpo di mano.
Il corso sull'affettività era stato approvato dal Consiglio di Istituto, giusto?
Quindi, stampante o non stampante, cartuccia o non cartuccia, la scuola doveva mettermi in condizioni di avviare quel cazzo di corso, a me e alla mia Terza Amichevole, perché non avevo nessunissima voglia di stampare assolutamente nulla a mie spese, come invece aveva infine fatto la collega dell'altra Terza non riuscendo a venire a capo della questione in altro modo.
Alle elementari non ci amano, ma per qualche motivo misteriosissimo nella Segreteria Amministrativa amano molto me. Così sono scesa con una chiavetta e un bel sorriso e ho chiesto di stamparmi le schede, per favore, perché purtroppo la nostra stampante...
Con altrettanto grandi sorrisi hanno stampato tutto senza batter ciglio, poi una delle segretarie ha chiesto se "mi servivano un po' di copie".
"Ehm, sì, ventiquattro per scheda" ho mormorato (parto sempre mormorando, quando chiedo qualcosa, in base alla regola che per fare un gran casino c'è sempre tempo. Lì poi non stavo nemmeno chiedendo, solo accettando una gentile e spontanea offerta).
Prontamente mi sono state scodellate duecento fotocopie circa. Nel frattempo l'altra segretaria ha detto "Strano che la cartuccia non sia ancora arrivata, forse è in magazzino. Lei ricorda il tipo di stampante?".
Naturalmente non la ricordavo, ma ho chiamato alle medie e l'ho chiesto.
E' risultato che sì, la cartuccia era in magazzino che aspettava tranquilla, nel suo bell'astuccino di cartone.
Da quanto? Perché nessuno ci aveva avvisato?
Altri forse avrebbero indagato più a fondo sulla questione, ma io mi sono limitata a prendere la cartuccia con un grandissimo sorriso e a scappare di gran carriera con le mie 200 fotocopie verso la scuola media, dove sono stata accolta come solo i salvatori della patria vengono accolti. E subito dopo le custodi mi hanno comunicato che era arrivata la ricarica delle fotocopie per Gennaio.
Davanti a sì gran copia di circostanze favorevoli che mi piovono tutto intorno, chi può aver cuore di lamentarsi per un po' di stanchezza o qualche problema di digestione?
Non certo io, che sto pazientemente risparmiando le forze in attesa del ponte elettorale che ci aspetta ai primi di Marzo.
Come ho già scritto, è sempre bene avere qualcosa di piacevole da aspettarsi in tempi brevi, o almeno medi.

domenica 7 gennaio 2018

Di troie e di zoccole parte seconda

Le uniche e vere zoccole di Natale sono, naturalmente, le laboriosissime renne.

All'inizio del 2012 scrissi un post dove riflettevo sulla moderna maniera di usare talune parole di antica e illustre origine.
Da allora il tempo è passato e la lingua si è vieppiù evoluta. Una mattina, per via indiretta e tortuosa, venni a sapere che nella Terza Amichevole Alagna aveva dato di troia ad Angela, che ci era rimasta molto male.
Rimasi perplessa, prima di tutto perché le due erano (e sono poi rimaste) carissime amiche, ma anche perché ai miei tempi, almeno nel mio giro, questo tipo di offese non usava - senza contare che mai e poi mai mi sarebbe venuto in mente di rivolgermi ad una amica usando quella parola. 
Ma, mi assicurarono le colleghe, oggi non è così raro.
D'altra parte ognuno è fatto a modo suo e com'è noto la lingua si evolve nella direzione decisa dal parlante: tanto per fare un esempio, quando ero ragazza in Toscana "zoccola" era una parola praticamente sconosciuta.
Avevo giusto avviato le mie usuali lezioni sulle parolacce da non usare in contesti più formali - scoprendo così che maschi e femmine bestemmiavano alla grande ma che per le femmine era considerato più sconveniente.
Mi venne perciò da pensare che forse, più che una lezione dove io insegnavo i giusti costumi secondo cui comportarsi, sarebbe stato il caso di fare una cosiddetta "lezione interattiva", dove sono soprattutto i ragazzi a parlare, onde acculturarmi sugli usi e costumi delle nuove generazioni, più che imporgli modelli magari ormai completamente obsoleti: in fondo, che in contesti ufficiali certe parole non vanno usate in quella classe sembravano tutti saperlo benissimo e dunque battere su quel tasto non sembrava del tutto indispensabile.
Così una mattina profittai di una coppia di ore contigue senza intervallo e dopo aver rapidamente sbrigato un po' di grammatica chiusi con cura la porta e scrissi sulla lavagna a grandi caratteri
PUTTANA
TROIA
ZOCCOLA
poi sedetti in cattedra dicendo "e speriamo che non arrivi la custode con una circolare" - perché è vero che il Vero Insegnante non teme il Ridicolo, ma ugualmente preferivo che non si diffondesse per la scuola a velocità fotonica la notizia che la prof. Murasaki stava sperimentando nuove metodologie didattiche che comprendevano l'uso di parole altamente sconvenienti.

Ebbi fortuna: nessun estraneo arrivò con circolari o avvisi di alcun genere, e la classe godé di una adeguata intimità per il tempo dell'insolita lezione.
"Sono la stessa parola" osservò qualcuno.
"Niente affatto!" ribatté qualcun altro.
"Bene. Chi vuole spiegarmi la differenza?"
Dopo breve discussione risultò che la prima era una indicazione professionale che riguarda una donna che in cambio di prestazioni sessuali prende denaro, mentre la seconda indica una donna che elargisce le sue preferenze senza interesse mercenario e la terza risulta una via di mezzo, nel senso che può indicare l'una o l'altra, ma più raramente è usata come indicazione professionale.
"Sono intese come parole neutre o come insulti?".
A parte la prima, che può essere una semplice constatazione tecnica, la seconda e la terza vengono intese come insulti, mi spiegano.
"E perché?" domando "E' normale che una fanciulla apprezzi la compagnia maschile, no?".
Socrate alza la mano con fare vagamente annoiato "C'è lo stereotipo che per la donna sia una cosa negativa".
Par di capire che lui degli stereotipi ne ha fin sopra i capelli per principio - in effetti è quasi l'unico contributo che darà alla lezione, anche se ascolterà con attenzione. Ma Socrate viene da una famiglia anarchica (anche se ben camuffata) e, come me, funziona a modo suo.
Gli altri, o meglio le altre, perché giunta a questo punto mi par di capire che quegli specifici insulti sono usati soprattutto tra donne, cercano di sviscerare la questione, incalzati da amichevoli domande da parte della professoressa - che in cuor suo ha gli occhi sempre più sgranati.
"Per esempio se una amica si mette con un ragazzo che piace a te".
"Capisco, ma in fondo fa solo quel che vorreste fare voi, giusto?".
"Sì, ma magari non ci pensava nemmeno fin quando non gli hai detto che a te interessava quel ragazzo".
"Beh, comunque non farà tutto da sola, si suppone che anche il ragazzo dia un contributo accettando le sue attenzioni".
Mi assicurano che
1) in quel caso parlano malissimo anche del ragazzo e soprattutto
2) in realtà al parere del ragazzo nessuna mostra di dare molta importanza, considerandolo esclusivamente terreno di caccia.
Resto vieppiù perplessa, perché è un aspetto della questione che non sono abituata a considerare: per il mio candido modo di vedere le cose, il ragazzo reagisce solo se sinceramente interessato; ma sia maschi che femmine sembrano considerare valido il punto di vista delle fanciulle.
Mi espongono poi un ulteriore caso: la ragazza che "si mette troppo in mostra", attirando così l'esclusiva attenzione maschile.
"Ma fa col suo" provo a ribattere "Fa una scelta. Potreste farla anche voi, giusto?".
Scopro così che alcune ragazze, secondo il punto di vista femminile, si espongono troppo, capitalizzando la totale attenzione maschile.
Bene, se non altro questa è una situazione che conosco. Non sono abituata a deprecarla, o almeno non lo farei mai apertamente, ma ricordo benissimo che quando ero giovinetta c'erano fanciulle che sembravano conoscere d'istinto le corde su cui far leva per attrarre l'attenzione maschile - corde che a me mancavano quasi completamente. Ricordo di averle invidiate e talvolta anche ammirate, ma mai disapprovate - più o meno come facevo con chi riusciva a tradurre una frase di greco all'impronta laddove io mi arrabattavo faticosamente e solo con il tempo e molto uso del dizionario ne venivo a capo. Loro potevano, io no e accettavo la cosa con quieta frustrazione.
Sembra però che colei che riesce ad attirare l'attenzione maschile grazie a un trucco e un abbigliamento e a gesti accuratamente ponderati sia da disapprovare.
Perché?
Qui le risposte si fanno confuse, e un po' faticose. Il campo per loro sembra nuovo da razionalizzare.
Perché si prendono un vantaggio sleale. 
Perché si mettono troppo in mostra svalutandosi. 
Perché sembrano dare importanza solo a quello.
Medito se sia il caso di chiedere se dare tanta importanza al fatto di poter esercitare un generico richiamo sessuale sulla popolazione maschile al completo non tradisca secondo loro una certa insicurezza e non sia da compatire come segno di debolezza, ma scarto con decisione la possibilità: vorrebbe dire indirizzare il discorso in una direzione che spontaneamente non avrebbe preso. E io vorrei capire, più che indirizzare.
La conversazione prosegue, fino ad arrivare al momento in cui si parla di quando tali parole si scambiano tra amiche nel corso di un litigio e sono dette con la specifica intenzione di offendere - perché possono essere anche dette in tono scherzoso (?!?); e con grande naturalezza mi raccontano che di recente Angela ha litigato con Alagna chiamandola così, ma Alagna assicura che dopo si sono riconciliate e quindi lei è passata sopra alla cosa perché Angela si è molto scusata. Angela ammette serenamente la sua colpa e dichiara senza cercare scuse di aver sbagliato.
Di nuovo sgrano gli occhioni in cuor mio, perché la faccenda mi era stata raccontata all'opposto, e mi avevano detto che quella offesa era stata Angela. Ma, considero, la cosa mi era stata riferita da adulti, e vai un po' a sapere cosa gli era stato detto o cosa avevano capito.
La conversazione va sfilacciandosi, l'intervallo si avvicina e dichiaro chiusa la seduta, cancellando personalmente le tre parole dalla lavagna.
Solo qualche giorno dopo mi viene in mente un aspetto della questione che non avevo considerato: una volta tanto maschi e femmine si sono confrontati insieme sull'argomento, o per meglio dire i maschi hanno potuto ascoltare con calma e chiarezza il punto di vista femminile spiegato dalle loro compagne.
Ed è possibile che l'abbiano trovato piuttosto interessante.
Quanto a me, un viaggetto nel Paese delle Meraviglie mi ha fatto solo bene.
Potrebbe essere un esperimento da ripetere.

venerdì 5 gennaio 2018

Ruth - Elizabeth Gaskell


Pubblicato nel 1853, Ruth affronta lo spinoso problema della fallen woman - ovvero la donna caduta nel gorgo del peccato.
L'argomento all'epoca era serio: pòle una donna redimersi dal Peccato?
L'Inghilterra vittoriana non ne era affatto convinta, e infatti il libro causò grande scandalo - perché, nel corso del romanzo, Ruth si redime effettivamente dalla sua vita peccaminosa. 
Ma forse sarebbe più esatto dire che viene chiaramente indicato che non aveva una vita peccaminosa da cui redimersi, ed era stata semplicemente una ragazza piuttosto sfortunata capitata nelle mani sbagliate e lasciata troppo sola. L'innocenza, che era stata la vera causa della sua caduta, è anche quella che l'aiuta a mantenere una vita rispettabile. Perché Ruth conduce una vita rispettabile per tutto il tempo del romanzo, tranne nella breve parentesi in cui, con molta innocenza, sceglie una strada che dava buone garanzie di risolversi in un disastro completo.
A questo proposito mi è piaciuta molto la copertina scelta dagli Editori Internazionali riuniti: una innocentissima e un po' stranita Maria accoglie l'annuncio dell'Angelo (che non si vede) in un quadro del 1898 di Henry Ossawa Tanner. C'è stupore, nel suo sguardo, e rassegnazione, ma anche molta, molta innocenza.

Elizabeth Gaskell aveva già trattato l'argomento, con un certo brutale realismo, in Mary Burton, dove uno dei personaggi è appunto una ragazza madre. La sua storia è molto triste: dopo aver perso il bambino (perché non aveva i soldi necessari per curarlo quando si ammala) diventa una prostituta, e beve per "riuscire a sopportare quel che è diventata". Morirà di tisi, e anche di disperazione. Era quella, di solito, la strada delle sedotte e abbandonate. L'amante lasciava qualche soldo e spariva nel nulla. La giovane madre restava da sola con un bambino piccolo e l'universale disapprovazione come unica compagnia.
A Ruth le cose vanno meglio, ma solo perché l'autrice ci mette una buona parola.
E' una ragazza orfana, molto carina - forse sarebbe più esatto definirla senz'altro bella. Del resto, nessuno cercava di mettere nei pasticci una ragazza così-così. Di solito.
Rimasta orfana, Ruth viene affidata a un tutore che la mette a fare l'apprendista in una sartoria e rifiuta di interessarsene oltre. Completamente sola, non ha nessuno che la consiglia. E non ha ancora sedici anni.
Il primo giovane di buona famiglia che la vede non deve darsi molto da fare per impallinarla, complice anche una certa trascuratezza da parte della sua datrice di lavoro. Ruth segue il suo nuovo amico, che glielo chiede in modo così gentile, così rispettoso, così carino... è molto fiduciosa, e all'amore ci crede davvero.
Forse, chissà, ci crede anche il giovin signore, o almeno forse crede di crederci. Difficile a dirsi, perché è un individuo dotato di una superficialità davvero singolare, e di un senso etico ancora più superficiale; ma, del resto, solo un uomo molto superficiale può cacciare una povera ragazza in un pasticcio simile. E insomma tutto finisce come deve finire secondo le regole: qualche soldo (che Ruth rispedirà al mittente) e un bambino in arrivo.
Per fortuna è già entrato in scena un colpo di fortuna di cui poche ragazze nella condizione di Ruth hanno potuto usufruire: un bravo e buon pastore (inteso come sacerdote), che si prende a cuore il suo caso. Lui e la sorella si porteranno a casa la ragazza pur sapendo che è incinta. Raccontano a tutti che è una parente povera, rimasta vedova giovanissima.
L'idea iniziale era di tenerla "per un po'", fin quando Ruth non fosse in grado di mantenersi da sola, ma i tre finiranno per affezionarsi terribilmente, e il bambino darà il colpo di grazia alla situazione.
Perché, in barba a tutti i canoni, il figlio della colpa sopravvive, senza altre difficoltà che qualche malanno tipico dei bambini. Alla fine del romanzo è ancora lì, che gode ottima salute e si accinge ad entrare nel mondo, anzi in tanti fanno a gara per pagargli gli studi.

Diverse regole canoniche vengono violate, ma con molta grazia & discrezione: per esempio per molti mesi Ruth soffrirà crudelmente per l'abbandono e per l'amore tradito, ma lo farà in silenzio, piangendo di nascosto. Imparerà a pentirsi di quel che ha fatto e a considerare tale il suo peccato (pur ricordando che era molto giovane e quasi non sapeva cosa stava facendo). Finirà per curare l'educazione di alcune giovinette assai benestanti con gran soddisfazione della loro famiglia... finché quella impeccabile famiglia, molti anni dopo, non scopre quale orribile serpaccia abbia accolto nel suo seno. A quel punto il discredito si abbatterà crudelmente anche sui suoi benefattori, rei di non avere abbandonato la peccatrice alle conseguenze della sua colpa nonostante sapessero benissimo di quali orribili infamie si fosse macchiata - e che continueranno a non abbandonarla, lei e il figlio della colpa, anche quando l'atroce infamia viene scoperta.
Il lettore comincia così a farsi un sacco di domande sconvenienti non tanto sul fatto che Ruth sia redimibile o meno, ma se in tutto il meccanismo che nella società inglese dell'epoca separa il Vizio dalla Virtù non ci sia qualcosa di orribilmente sbagliato, che finisce col porre in grave pericolo non tanto le anime dei peccatori, quanto quelle dei farisei che si crogiolano beatamente nel loro scandalizzato perbenismo - e che infatti si ritrovano a scoprire con vero orrore che il Nero Vizio può colpire anche loro, senza nemmeno le possibili scusanti dell'ingenuità e dell'amore.
Nonostante l'ostracismo che le cade addosso la peccatrice nuovamente si redime, stavolta in pubblico, davanti a tutta la città, che finisce per coprirla di benedizioni e non più di contumelie. E proprio allora...
Sì, sono d'accordo con Charlotte Bronte, che protestò: il romanzo meritava un lieto fine. Ma Charlotte Bronte aveva una morale tutta sua, che le permetteva di giudicare la società in cui viveva con una lucidità particolare. Elizabeth Gaskell sapeva però di aver tirato la corda più che a sufficienza e il romanzo finisce con una specie di santificazione postuma di Ruth... ma non col finale che la vita avrebbe dovuto assegnare a quella bella e cara signora.
Per il Seduttore, invece, che ricompare un paio di volte nella storia, la punizione invece è crudelissima: non si renderà mai conto davvero di quel che ha fatto e di dove ha sbagliato, anzi fino alla fine è convinto di aver fatto ben più di quel che gli spettava - ma quanto sia in buona fede nel credere questo, naturalmente, non è possibile dire.
Il finale, dunque, sta lì, appiccicato con lo sputo. Credo che Gaskell ne fosse perfettamente consapevole, e lo abbia lasciato così proprio perché al lettore rimanesse un senso di indefinibile disagio, che lo rendesse irritabile e scontento senza capirne le vere ragioni.

Il romanzo è stato di recente ripubblicato da Elliot, non so se con una traduzione nuova. Comunque è caldamente consigliato a chi ama la letteratura vittoriana ma non è troppo interessato... come dire, ai romanzi d'azione. Anche se non mancano i colpi di scena, si tratta di una lettura intimistica e molto accentrata sull'analisi dei sentimenti.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro buone letture e tranquilla serenità per questo ultimo scorcio dei giorni delle Feste.

mercoledì 3 gennaio 2018

Uscita dall'impasse - una storia molto italiana

Durante le settimane in cui nella nostra scuola le finestre cadevano come petali di rosa strappati da un vento crudele tutte le scuole medie del regno erano parimenti travolte da una ulteriore tempesta: l'angosciosa questione delle uscite dei nostri alunni a fine lezione che, come ho già avuto modo di raccontare tempo fa, infelicitava da tempo la serenità del viver nostro, e di cui sono finalmente riuscita a ricostruire le origini.
Orbene si tratta di tornare indietro nel tempo, e di parecchi anni. Nel 2003 infatti un povero undicenne è rimasto ucciso appunto all'uscita della scuola, travolto da un autobus. I genitori avevano fatto causa alla scuola e al comune. Con i soliti tempi biblici della giustizia italiana era poi arrivata la sentenza, indi la sentenza dell'appello e della cassazione per il penale - e ogni volta la scuola era travolta da nuove raffiche di tempesta; infine, il 19 Settembre 2017, la Corte di Cassazione aveva depositato una ordinanza per il civile che aveva innescato nuovamente il ballo di San Vito a tutto il personale docente e non docente della scuola.
Quel che più incitava al ballo di San Vito era il fatto che l'ordinanza assegnava una parte della responsabilità dell'evento alla scuola e al personale docente che secondo la legge risultava responsabile della sicurezza del ragazzo fino a quando il ragazzo suddetto non fosse stato riconsegnato alla famiglia: risultava insomma che, per quanto alcuni sindacati avessero sostenuto che la legge non era molto chiara, secondo la Corte di Cassazione era chiarissima: sotto i 14 anni un ragazzo è sempre sotto la responsabilità di un adulto e non può essere lasciato da solo perché non è considerato in grado di badarsi nemmeno se va a comprare il latte al negozio all'angolo. 
Naturalmente la legge non è stata formulata in tal modo al precipuo scopo di impedire ai ragazzi sotto i quattordici anni di farsi due passi da soli o con gli amici, e nemmeno per obbligare gli adulti a venirli a prendere ogni mattina all'uscita di scuola; e davvero non c'è il minimo dubbio che se una povera creatura non ancora sbocciata alla giovinezza si ritrova investito da un autobus alla fermata davanti alla scuola c'è stata una notevole mancanza di attenzione nei suoi confronti, davanti alla quale non era legittimo sperare che i genitori si limitassero a dire "Pazienza, chi muore giace e chi vive si darà pace". Invero, le circostanze della vicenda sono state davvero particolari e, a mio avviso, assai difficilmente replicabili (almeno, ci si augura).
Tuttavia i Dirigenti Scolastici han sempre concluso, come un sol uomo/donna, che in base a quella legge sarebbero stati da quel momento ritenuti responsabili di ogni pur minimo danno fosse capitato agli alunni durante il ritorno a casa perché "un tempo i genitori non denunciavano, ma oggi sì" (ma secondo me anche un tempo sarebbe scattata la denuncia da parte delle famiglie che si fossero viste il figlio investito da un bus).

E dunque cosa hanno fatto, questi preoccuposi Dirigenti Scolastici?
Di solito sono partiti tentando di convincere gli insegnanti a riconsegnare gli alunni uno per uno ai genitori, che dovevano venire a riprendere la prole ogni santo giorno, come veniva fatto per le scuole elementari (anche se in verità alcune scuole elementari cessano questa usanza già in quarta, se richiesti dai genitori).
Davanti alle insurrezioni di insegnanti, genitori e alunni hanno poi compilato delle liberatorie, tante liberatorie, di tutti i tipi: liberatorie sintetiche, liberatorie che si perdevano in dotti riferimenti legali, liberatorie fluviali che insistevano sulla capacità che i genitori riconoscevano al figlio di tornare a casa da solo, liberatorie arricchite da squarci lirici sul Patto Educativo di Corresponsabilità... ma tutte col tratto comune di non servire assolutamente a nulla, una volta portate in tribunale - insomma, liberatorie che non liberavano alcuno da veruna responsabilità. Cosa che tutti sapevamo, tra l'altro, anche se facevamo finta di niente.

Per quanto ne so, a nessuno di questi Dirigenti Spaventati è venuto in mente di presentare memorie, istanze, ricorsi, querele, lamentele collettive al Ministero dell'Istruzione chiedendo di avere istruzioni precise o, meglio ancora, che la legge venisse cambiata, insistendo a gran voce e rompendo a tal punto le palle ai loro superiori che alla fine questi si sentissero obbligati a intervenire. Mai.

Nemmeno questa volta è successo, e tuttavia la questione si è risolta, quasi da sola.
Perché, spontaneamente, è intervenuto Qualcuno dalle Alte Sfere.
Matteo Renzi, ex Presidente del Consiglio e segretario del partito di maggioranza del governo. Renzi è abbastanza giovane da avere dei figli in età scolare, che frequentano la scuola pubblica, e la questione è dunque arrivata fino alle sue orecchie, e se l'è presa a cuore.
La gran parte dei politici delle Alte Sfere di questa Angosciosa Vicenda non sapeva assolutamente nulla - cosa è abbastanza comprensibile, perché sono abituati a trattare questioni diverse e su più vasta scala.
I problemi spiccioli andrebbero gestiti a livello più basso, giusto?
La scuola ha una struttura abbastanza complessa: ci sono i Dirigenti Scolastici, i Provveditorati, il Ministero dell'Istruzione - che vengono pagati appunto per badare alla scuola in tutti i suoi piccoli dettagli. Non è che puoi sempre stare a sperare che un caso fortunato porti all'orecchio di Qualcuno in Alto un problema di questo tipo, che alla fine riguarda un determinato ordine di scuola e una determinata categoria di alunni.

Comunque sia, Matteo Renzi ha preso in mano la questione e ha fatto quel che sarebbe spettato a suo tempo ai Dirigenti Scolastici e al Ministero: ha proposto di ritoccare la legge. 
Si trattava di una classica Questione Trasversale, dove nessuno aveva interesse a mettere impedimenti di sorta. La legge è stata ritoccata, e il ritocco è finito nel Gran Calderone della legge finanziaria di quest'anno. E' passato senza colpo ferire. Nessun deputato, nessun senatore e nessun movimento politico ha trovato qualcosa da ridire. 
Adesso noi insegnanti delle medie siamo di nuovo liberi cittadini e i nostri alunni possono tornare a casa a piedi con i compagni, apertamente e alla luce del sole, senza che qualcuno possa accusarci di incuria e straccuraggine (anche se qualcuno sostiene, probabilmente non a torto, che la nuova soluzione lascia spazio a diverse ambiguità).

In teoria dunque è andata a finire bene. In pratica è andata a finire bene non perché la scuola ha fatto il suo dovere, perseguendo onestamente i suoi interessi per le vie legali a ciò preposte, ma solo perché per un caso fortunato Qualcuno nelle Alte Sfere ha avuto compassione dell'imbranataggine delle strutture scolastiche e della loro cronica incapacità di badarsi autonomamente.
Il Qualcuno in questione però non era tenuto a farlo. Quel che ha fatto non spettava al governo né alla direzione di un grande partito. Spettava ad altri, e questi "altri" nel corso dei molti anni in cui questa vicenda ha turbato i sonni inquieti del personale delle scuole medie non hanno minimamente cercato di fare quel che era loro dovere, ovvero presentare con forza il problema a chi doveva badarlo ed anzi era pagato per questo.

Una storia molto italiana, insomma: incasina quanto puoi e spera in un colpo di fortuna, ma non cercare mai e poi mai di affrontare un problema in modo razionale.