domenica 30 agosto 2009

Consigli inutili su come gestire un blog


Nella scrittura ad uso personale, le regole esistono solo per dormirci su

Navigando per i vasti oceani della rete capitai un giorno nel bel mezzo di una scheda che tal Giovanna Cosenza (professore associato di semiotica presso l'Università di Bologna) aveva preparato per l'antologia per il biennio della scuola superiore I sentieri delle parole, di Roberdo Fedi e Marco Francini, prevista in uscita nel 2009 by Zanichelli.

La scheda mi sembrò la conuseta raccolta di banalità generaliste malamente semplificate che da sempre infestano certe sezioni delle antologie (come talune folli sezioni dedicate al cinema o al fumetto, o quelle sconclusionate serie di regole per la forma-diario e la forma-lettera), ma scorrendo i commenti  incrociai la mia amata Gamberetta, che sembrava per l'ccasione pensarla esattamente come me. Il tutto mi è sembrato molto interessante non solo per le teorie sulla scrittura in sé, ma anche e soprattutto per le teorie che trasparivano sui libri di scuola in generale.

E veniamo al merito.
In sintesi, la scheda spiega come si dovrebbe scrivere un blog: oggi viene spesso usato uno stile "oraleggiante" con interiezioni, esclamazioni, puntini di sospensione, parolacce, espressioni gergali e colloquiali che rendono il tutto "bamboleggiante" oppure "sciatto, pesante o volgare", altrimenti c'è lo stile "presuntuoso", con lunghi periodi involuti "parole dotte e ricercate, metafore ardite" e via dicendo.
Siccome un blog viene letto prevalentemente sul monitor, l'autrice consigliava la buona vecchia paratassi, con frasi brevi, parole semplici, prevalenza dell'indicativo e post brevi, magari intervallati da immagini e interlinea doppi.
Il resto della scheda era dedicata all'analisi di due siti letterari con in mezzo un breve excursus sulle fanfiction (piuttosto decoroso).

La prima domanda che mi è sorta spontanea è "ma questa roba, a che serve?". Cioè: esiste una sia pur remota possibilità che uno studente del biennio legga le prime tre cartelle, quelle dedicate genericamente alla "scrittura in rete" e ne tragga stimolo, interesse, informazioni utili?
Informazioni utili no, perché si tratta di sciocchezze malamente assemblate. Quanto allo stimolo e all'interesse...
Dunque, io sono un quindicenne. Se non ho il computer non lo uso, perciò sapere che esiste la scrittura in rete mi serve solo come informazione generica - e infatti nella scheda siamo proprio sul generico, ma generico davvero, del tipo "brevi cenni su dio e l'universo".
Se invece il computer lo adopero e ci navigo, so benissimo che c'è la scrittura in rete, perché la leggo abitualmente, e so anche che in rete ognuno scrive come cazzo gli pare, a seconda di un'infinità di motivazioni e in virtù del suo personale back-ground culturale, sociale, intimistico, tecnico-bocciofilo e via dicendo.

Qualora decidessi di avviare un blog, saprò già che un blog è prima di tutto un contenitore, e all'interno di quel contenitore mi regolerò come meglio credo - e dunque se ci infilerò  un'infinità di parolacce o di periodi complessi e lunghi come la fame sarà una scelta mia; e il "successo" o meno del mio blog sarà determinato, più che dalle parolacce in sé, dal modo in cui le gestisco, che a sua volta sarà finalizzato a quello di cui voglio parlare e da un'infinità di altri fattori.
Inoltre: se sono un quindicenne che vuole mettere su un blog, non sta scritto da nessuna parte che non possa avere una notevole competenza linguistica, che mi permetterà di gestire periodi involuti e parolacce (anche insieme, anche nella stessa frase) nel migliore dei modi.
Volendo, avrebbe forse potuto avere un minimo di senso presentare le varie tipologie di blog - o meglio alcune tra le più comuni tipologie. Ma è una cosa che funziona meglio in laboratorio (a questo proposito gli e-book potrebbero avere qualcosa da dire se fossero e-book e non libri scritti per essere stampati e poi passati in rete. Ma sto divagando).

La scheda come la leggiamo oggi ha subito qualche ritocco rispetto all'originale, ma molti di più avrebbe potuto subirne. Gamberetta, di cui nella versione originale l'autrice sostiene che "meriterebbe di lavorare - strapagata - nella miglior casa editrice del mondo" prova a mettere un po' di puntini sulle i. Cito alcuni passi del suo primo commento, precisando che qui e dopo corsivo e grassetto sono sempre solo e soltanto miei.


Blog non vuol dire: «sito (web) che tiene traccia (log)»(sic). Blog è la contrazione di Web log, ovvero «Diario(log) sul Web».
“Captain’s Log, star date…”
“Diario del Capitano, data stellare…”
È importante mantenere il termine “diario” perché in maniera chiara e specifica indica cosa sono attualmente i blog. Ovvero quei siti che pur strutturati in una certa maniera mantengono un tipo d’impronta personale, tipica del diario. Il sito dell’ANSA o della CNN può avere la forma e le funzionalità del blog, ma difficilmente lo si definirà tale, proprio perché manca quest’aspetto personale.

* Il blog non è un programma! Sarebbe come dire che un diario è una penna! Esistono programmi e servizi che aiutano a scrivere i post per un blog o a gestire il blog stesso, così come esistono le penne, le gomme e le cartolerie. Ma dire che il blog è un programma è insensato. Al massimo il blog è una “convenzione”: quando si ha di fronte un sito web con certe caratteristiche si può dire che su tal sito sia ospitato un blog. Così come se ho in mano un quaderno e vedo le varie date e i vari appunti posso dire che su quelle pagine c’è un diario.

(...)

Lo dico solo qui ma vale anche altrove: mancano i riferimenti. Tipo che nasce un blog al secondo nel 2006. Dove? Come? Quando? Fonte? Il fatto che il testo sia pensato per i licei e non per l’università non deve esimere dal fornire precisi riferimenti bibliografici e/o Internet. Vale anche per tutti i siti citati: vanno riportati anche gli indirizzi

La replica dell'autrice a modo suo è davvero illuminante:

Gamberetta, pur ringraziandoti per le precisazioni e per il tempo che chiaramente ci hai speso, preciso a mia volta che:
(1) Sono perfettamente consapevole di tutti i tuoi accaniti distinguo, delle relative fonti e di cosa puoi avere in testa quando specifichi una cosa piuttosto che l’altra. Però li trovo inutili e superflui, alcuni in assoluto, altri relativamente al contesto cui è destinata la scheda, anche considerando i limiti in cui sarà inserita.
(2) Ti ricordo che la semplificazione rende necessarie, a volte, alcune approssimazioni e omissioni. Il che non è un delitto.
(3) I criteri di rilevanza e le scelte di contenuto di questa scheda sono miei e del mio editore, punto.
(4) Non so quanti fra i destinatari della scheda (ragazzi fra i 14 e 15 anni) sarebbero invogliati a leggere o scrivere fan fiction se le cose fossero loro presentate con un atteggiamento come il tuo.

(5) Il mio editor leggerà questa discussione e ne trarrà, se lo desidera, opportune conseguenze per gli opportuni cambiamenti. "


"La semplificazione rende necessarie, a volte, alcune semplificazioni e omissioni. Il che non è un delitto".

D'accordo, nella vita si va avanti a semplificazioni e omissioni, altrimenti non riusciremmo a combinare quasi nulla. Ma scrivere che un rospo è un uccello, o che un blog è un programma, più che semplificazioni sembrano balle pure e semplici, esattamente come quando assicuro che la panna non l'ho mangiata io.
Sempre in tema alimentare: che tipo di cibo intellettuale dobbiamo servire alle giovani generazioni? Cibo di buona qualità, magari semplice, cibo manipolato, cibo lavorato in condizioni di scarsa igiene e che non ha subito controlli sanitari? E' lecito passargli gli scarti di produzione soltanto perché il loro apparato digerente è più fresco ed energico del nostro, oppure confidando che il piatto non gli risulti appetibile e che quindi aspettino, per mangiare, di tornare a casa dove sanno di trovare le tagliatelle fatte a mano dal prozio Crodegango?

La replica di Gamberetta è piuttosto indignata:



D’accordo, però, io e i miei amici quando scriviamo e revisioniamo gli articoli per i Gamberi ci sbattiamo sul serio perché ogni cosa sia precisa e corretta. E proprio pensando che forse verranno letti da chi sa poco o niente dell’argomento e dunque ha bisogno d’informazioni più veritiere possibile.
Dunque, chiedo umilmente che ogni riferimento a me e al sito dei Gamberi siano tolti dal testo. Non ci teniamo a comparire in mezzo a una marea di vaccate (scusa, scusa, “necessarie semplificazioni”).

P.S. Un ragazzo di 15 anni ti ride in faccia quando gli vieni a raccontare che “il sito che tiene traccia è un programma”.


Chi non sa ha bisogno di informazioni più precise di chi sa, soprattutto se vogliamo che si fidi di una fonte di informazioni. Senza contare che esiste una razza assai infida di lettori, ovvero Quelli Che Sanno. Sotto questo aspetto, i ragazzi sono terribilmente inaffidabili, com'è noto a chiunque si attenti ad insegnare: anche gli alunni più sprovveduti e incolti sono drammaticamente capaci di segnalarti impietosamente la pur minima imprecisione, sub specie maximae innocentiae, perfino su argomenti all'apparenza del tutto estranei ai loro interessi - e figurarsi se l'argomento è la Grande Rete. 
Ma, al di là del considerevole rischio di essere smascherati ed esposti nudi o cosparsi di piume e catrame davanti alla scolaresca tutta se si dicono vaccate, ci sarebbe anche, ahimé, una questione etica: è legittimo sparare vaccate su chi non sa, confidando nella sua ignoranza? E' giusto prendere uno stipendio a fine mese, o incassare diritti d'autore da un libro, per contare balle?


Forse per questo la risposta dell'autrice della scheda stavolta è inviperita, con una certa venatura sdrucciolosa (e intervallate da due smiley che ci stanno come il cavolo a merenda: ellamiseria, quando si litiga si litiga, le faccine sorridenti stridono)

Cara Gamberetta, mi dispiace molto registrare tutta questa aggressività da parte tua.
Sinceramente faccio fatica a capirne i motivi: non ho mai detto che le tue osservazioni e integrazioni fossero sbagliate, solo superflue per il contesto cui è destinata la mia scheda.
Ma soprattutto faccio molta fatica a capire perché mi stai mancando di rispetto, visto che ho dimostrato almeno in un paio di occasioni di avere molto rispetto per il tuo lavoro. (...)

PS: ho preso in serissima considerazione tutte le tue osservazioni, e in particolare quella sul weblog. Ma ho deciso di evitare il riferimento al diario, optando per una più generica “traccia” (a cui potrei eventualmente decidere, dopo queste riflessioni, di aggiungere “cronologica”), proprio perché volevo dissociare il concetto di blog dalla banale diaristica a cui spesso viene associato. Nelle scheda volevo restituire ai ragazzi gli aspetti positivi, costruttivi e creativi della narrativa in rete, pur mettendoli in guardia da certe facilonerie.


Si sa, la faciloneria è una brutta bestia. E' opportuno mettere gli altri in guardia contro di essa, guai se per caso dovessero ritrovarsi, gli altri, a peccare in tal senso! Perché se lo facciamo noi, sono "necessarie approssimazioni e omissioni", se le fanno gli altri è un problema di faciloneria.
Ad un animo polemico come il mio verrebbe magari da domandarsi anche perché è così importante "dissociare il concetto di blog dalla banale diaristica cui viene spesso associato" (associato da chi? E cosa c'è di "banale" nella diaristica di per sé?) e se è davvero necessario restituire ai ragazzi gli aspetti costruttivi della scrittura in rete (da dove risulterebbe che gli sono stati rubati, e dunque che è opportuno restituirglieli?).
E forse si potrebbe anche parlare dell'aggressività dell'implacabile - per quanto, è risaputo che chi ci critica insistendo su argomenti pertinenti è sempre mosso da indicibile aggressività nei nostri confronti, e noi, che siamo di natura tanto sensibili e ben educati, non possiamo che dispiacerci per lui nel vederlo preda di tanta aggressività, poverino.

Comprensibilmente non placata da questa replica, Gamberetta risponde:

Allora: il blog è un diario sul web. Questo è quello che è, che è diverso da quello che tu vorresti che fosse. 

dimostrando con ciò una deplorevole tendenza ad inchiodarsi sui principi cardine di una discussione: sarà anche che la diaristica è banale, sarà che il buon pastore scolastico ha il precipuo dovere di distogliere i ragazzi dalle sirene allettatrici della banale diaristica, ma insomma un blog è un diario in rete e così va definito.
E aggressivamente conclude:

Così stanno le cose. Io lo so. Un quindicenne sveglio lo sa. Tu no. Però tu scrivi testi scolastici, e questo, sì, mi fa incazzare.

In effetti gli estremi per incazzarmi ce li trovo anch'io, più ancora ce li ritrova la scolara che sono stata, e che dietro il suo banchino si leggeva magna cum irritatione le immani quantità di cretinate che gli autori di libri (carissimi) di testo scolastici scrivevano su generi e forme letterarie e mode giovanilistiche di cui non sapevano e non capivano assolutamente nulla.

E infatti a giusta conclusione, nella discussione interviene tale  Anghelos con una dissertazione sul tema blog/diario dove inserisce una frase a modo suo illuminante:

Insomma, qui non è solo questione del limite di spazio: è anche che stiamo parlando di un argomento che nei libri di testo delle scuole non sono stati mai trattati, che io sappia. Questa scheda (non saggio) è destinata ad un libro del biennio, inserire tutti gli aspetti delle narrazioni in rete in un solo testo, destinato a lettori che di sicuro in maggioranza non ne sanno niente, serve solo a confondere.

Insomma, già ne parliamo e questo è un merito, non vorrete mica che stiamo a spaccare il capello in quattro e le palle in sedici a questi poveri ragazzetti ignoranti?

E di nuovo questa strana idea che i ragazzi non sappiano cosa c'è in rete se non andiamo noi adulti a raccontarglielo nell'antologia del biennio. Certo, esistono ragazzi che della Grande Ragnatela sanno poco; ma siam proprio così sicuri che siano "in maggioranza"? E destinati a restarci, in maggioranza? Qualche dubbio sorge spontaneo.



Ad ogni modo l'editor di Zanichelli deve essersi messo una mano sulla coscienza perché diverse delle obiezioni di Gamberetta sono state accolte; tra l'altro nella scheda attuale la definizione di blog è abbastanza equilibrata e, anche se non si parla apertamente di diari, si evita il discorso delle "tracce" né si prova a spacciare un blog per un programma.
Le istruzioni su come scrivere un blog restano, comunque. Si vede che erano ritenute proprio indispensabili.

lunedì 24 agosto 2009

Come NON trattare un argomento



Un tempo costumava portare il giornale in classe e usarlo per insegnare ai fanciulli in fiore come raccontare un fatto o riassumere una questione. Oggi sarebbe forse meglio usare la tecnica ex contrario e far loro leggere un articolo di giornale per mostrargli come NON dovrebbero procedere quando vogliono parlare di qualcosa.

Prendiamo ad esempio un articolo dal confuso titolo Rush finale per le riparazioni - Spese enormi e rebus religione di Salvo Intravaia. L'articolo intreccia la questione della sentenza del TAR sul ruolo degli insegnanti di religione cattolica nei consigli di classe con il tema della spesa delle famiglie per le lezioni private (entrambi gli argomenti si ricollegano con gli esami di riparazione prossimi venturi ma sono accostati in modo piuttosto maldestro).
Ci viene spiegato che gli studenti incappati quest'anno nella "sospensione del giudizio" sono il 28,6 per cento (degli studenti delle superiori, si osa presumere, visto che negli altri ordini di scuola i ragazzi sono stati passati o bocciati senza sospendere alcunché); "si tratta di quasi 613 mila ragazzi e ragazze dei primi quattro anni delle superiori".
Scopriamo poi che, secondo "una recente pubblicazione dell'Istat" non meglio definita, le famiglie italiane spendono in media per "lezioni private" 133 euro l'anno. Questo dato, "moltiplicato per i 24 milioni di famiglie italiane determina un giro vorticoso di denari: più di 3 miliardi di euro".

Premesso che con l'equivalente di 133 euro (260.000 lire circa) non pagavi le ripetizioni di un'estate nemmeno quando rimandavano me, nella seconda metà dei gloriosi anni 70, e figurarsi ora (salvo casi particolari, i ragazzi rimandati dovranno pur farsi almeno una ventina di ore di lezione, se vogliono saldare i loro debiti. Di meno la vedo difficile);
dicevo, premesso questo, sorge spontanea una domanda, ovvero "Da dove saltano fuori 'sti 3 miliardi abbondanti di euro, che sembrano una cifra decisamente spropositata"?
Effettivamente, se proviamo a moltiplicare i 133 euro per i 24 milioni di famiglie italiane si arriva a 3.192.000.000; in questi 24 milioni di famiglie ci stanno tutti, ma proprio tutti: vecchietti quasi centenari, coppie che non hanno alcuna intenzione di figliare, anziani coniugi che si barcamenano tra nipoti di varie età e giovani coppie che cercano di gestire gruppi di pargoletti scalcianti e in perenne richiesta di un biberon pieno - nonché molti genitori di ragazzi studiosi e accorti che mai si sono indebitati né hanno alcuna intenzione di farlo in futuro.
Tutti costoro non spendono un centesimo per le lezioni private, a meno che non decidano di imparare a suonare il violino o esercitarsi nella conversazione in lingua spagnola; ma in quel caso non dovrebbero rientrare nella statistica di cui sopra.
D'altra parte, se davvero la media di ogni famiglia, da chiunque sia composta, è di 133 euro per lezioni di recupero, questo porta, dividendo i fantomatici 3.192.000.000 per i 613.000 ragazzi indebitati (le famiglie potrebbero essere forse un po' meno perché il caso di due o più fratelli ognuno con i suoi bravi debiti non è impossibile) a una spesa di 5.200 euro per ogni ragazzo. Certo, se una famiglia si impunta a pretendere un professore universitario di chiara fama per 50 ore, tecnicamente la cosa è possibile; ma solo in quel caso.

Tentiamo un'altra strada: i 613.000 indebitati sono, sempre secondo l'articolo, il 28,6% degli studenti (delle superiori, si spera) che dunque nel complesso dovrebbero essere 2.143.000, per un po' meno di famiglie. Moltiplicando i misteriosi 133 euro che le famiglie spendono in lezioni private per questi 2.143.000 abbiamo 285.000.000 milioni di euro, che sono meno di un decimo di 3 miliardi e passa e che, divisi per i 613.000 studenti indebitati fanno circa 465 euro cadauno - che a levarseli di tasca certo non sono pochi, ma comunque meglio di 5. 200 euro, e un 20/25 ore di lezione ad uno studente universitario di scarse pretese ce le paghi.

La morale di questa vicenda (assolutamente conforme alla legge del Menga) è che i giornali, tutti i giornali, anche quelli che avrebbero qualche pretesa (l'articolo citato viene da Repubblica che un tempo, a quel che ricordo, era un giornale abbastanza affidabile, e non da La Gazzetta di Monculi di Sotto, composta riciclando malamente qualche testata nazionale) sono pieni zeppi di cifre, citano cifre, ci riempiono e ci ingozzano di cifre che magari, in origine, erano valide, ma che piazzate così a casaccio possono al più contribuire alla creazione di un grazioso universo alternativo che vive di vita propria ma che ha scarsa attinenza con quello in cui ci muoviamo e viviamo ogni giorno noi comuni mortali.

venerdì 21 agosto 2009

Come un verme strisciante



Quel giorno, alla mensa di St. Mary Mead, inauguravano il menu estivo: insalata di riso per primo e prosciutto e pomodori per secondo, con un bicchiere di carta pieno di fragole per completare - diciamo che nella vita poteva capitare ben di peggio. L'insalata di riso in particolare fu graditissima da tutti perché era veramente buona - che per un'insalata di riso non è poi cosa tanto consueta: era fatta con riso non scotto, non era composta in buona parte di olio di semi ed era condita in proporzioni perfette con dadini di buon prosciutto cotto e fontina, pisellini teneri e dolci, spicchi di carciofo, olive e quant'altro richiede il galateo delle insalate di riso.
Mentre mi stavo piacevolmente strafogando arriva Hermione "Professoressa, hanno trovato un vermetto nell'insalata di riso".
Mi alzai fiduciosa, convinta che a un occhio imparziale il "vermetto" sarebbe risultato un chicco di farro capitato lì per sbaglio o simili; ma mi trovai davanti il vermetto più vermesco che mai si sia visto al mondo.
"Coraggio ragazzi, i nostri antenati sono usciti dalle caverne mangiando vermi, non può succederci niente mangiandone uno per caso" provai a rassicurarli. Chiaro che andai anche dall'inserviente a riferire.
L'inserviente arrivò, ammise l'evidenza dei fatti e portò via il corpo del reato promettendo di farlo vedere al cuoco.
I ragazzi ripresero a mangiare senza particolari strilli o squittii. Anche l'insalata di riso venne mangiata (dopo attento esame).
Ripresi a mangiare anch'io, congratulandomi in cuor mio per la fortuna di avere quella classe: altre che ho conosciuto avrebbero sfinito l'universo a forza di lamentele, strilletti e vibrate proteste.
Durante l'intervallo una collega suggerì che si trattasse del verme di una farfallina da pasta (che in verità io ho trovato esclusivamente nel farro e mai nella pasta né nel riso). Viste le assai rispettabili condizioni della mensa è molto probabile che abbia ragione. Ugualmente...
Mentre risalivamo in classe spiego ai ragazzi che il Comune sarebbe stato informato quanto prima e il preside pure. In particolare il preside andava informato quasi in tempo reale: metti che qualche genitore sconvolto gli piombasse tra capo e collo già la mattina dopo straparlando di vermi...
Così, finito il mio orario, presi due bei fogli in A4 e redassi un sobrio resoconto della vicenda per il Comune e per la Dirigenza, che venne poi spedito da custodi assai divertiti. 
In realtà nessun genitore andò a protestare né mostrò di dare soverchia importanza all'accaduto. Altrettanto fecero i ragazzi.

Unica conseguenza del fatto: l'insalata di riso sparì dal menù. Peccato, perché era davvero buona.

martedì 18 agosto 2009

Harry Potter e l'Ordine della Fenice (recensione scuolacentrica)



Nell'insopportabile estate del 2003 uscì Harry Potter and the Order of the Phoenix. In una delle torride notti di cui quell'estate abbondava feci un'ora di coda da Feltrinelli International e rientrai a casa col mio enorme tomo in inglese all'una e mezza circa.
Mi accinsi alla titanica lettura con una certa preoccupazione: era la prima volta che leggevo in inglese un romanzo che non avevo mai letto in italiano. D'altra parte, aspettare fino all'uscita della tradizione italiana non era nemmeno concepibile: sarei certo morta di crepacuore molto prima, se mai ci avessi provato.
Iniziai quella notte stessa - tanto di dormire non se ne parlava, pareva di stare in una pentola a vapore - aiutata da un dizionario monolingua che avevo comprato per l'occasione e da un dizionario bilingue con cui avevo fatto di recente le nozze d'argento. Fu solo la prima di una lunga serie di notti insonni in cui la Fenice mi fu compagna fedele.
Scoprii in quell'occasione di conoscere l'inglese meglio di quel che pensavo e sviluppai un'ammirazione senza limiti per l'abilità della Rowling, capace di scrivere con tale chiarezza da permettermi di seguire la storia senza difficoltà, perfino al Ministero della Magia dove sei adolescenti e dodici Mangiamorte scorazzano nelle più strane sale dandosi la caccia. Con la Rowling si sa sempre chi sta facendo che cosa e (qualora non sia contrario agli interessi del lettore) si sa anche perché lo sta facendo e con quale stato d'animo, anche quando lo stato d'animo è decisamente complesso.
Il romanzo racconta prima di tutto la storia di un ragazzo che si trova a battere ripetutamente le corna contro le bugie (spesso dette a fin di bene), l'inattendibilità, la superficialità e la miopia degli adulti, anche quelli più autorevoli e che finisce per dar retta al suo istinto, che fino a quel momento si è dimostrato piuttosto attendibile, proprio nel momento sbagliato.
Era anche però un romanzo sulla scuola, intesa come entità dotata di volontà propria, e sull'insegnamento. Per me, impegnata in quel momento in un'infinità di ricorsi contro l'universo mondo per recuperare posizioni nelle graduatorie, conteneva anche un messaggio di speranza: la scuola è un organismo capace di difendersi contro gli attacchi in modo spontaneo. L'equazione Moratti = Caramel e Aprea = Umbridge (si assomigliavano anche per certe teorie sulla didattica) mi portava a sperare in una futura cacciata di entrambe previa glassatura di piume e catrame.
La scuola italiana in effetti si difese, ma uscì dal combattimento piuttosto ammaccata; d'altra parte alla fine della saga la Umbridge è ancora viva, anche se (si spera) definitivamente allontanata dal Ministero.
Quel che segue è un post che scrissi dopo la prima lettura (un'altra seguì quasi subito, in Agosto); sul newsgroup qualcuno osservò che gli pareva che nel libro ci fosse anche qualche altra cosa, oltre alla scuola. Naturalmente mi dissi d'accordo con lui, ma ai miei occhi l'Ordine della Fenice rimane soprattutto un libro sulla scuola e sull'insegnamento.

La protagonista centrale del libro è Hogwarts. Usata fino a questo momento soprattutto come sfondo per le gesta di Harry&Co., la scuola di magia questa volta è il perno centrale dell'azione.
L'intreccio principale riguarda infatti il tentativo del Ministro della Magia, Caramel, di scalzare il preside Silente dal suo feudo personale sostituendolo con la professoressa Dolores Umbridge, braccio destro del ministro in questione. Ma le scuole sono organismi viventi, dotate di volontà propria (specie se sono antiche scuole di magia); e infatti sarà la stessa Hogwarts a rifiutare il cambio al vertice, sputando via la nuova preside e riaccogliendo Silente.
In pratica: il ministro cerca di dominare dall'esterno qualcosa che non conosce e non capisce, usando uno strumento umano dotato sì di ampi poteri ufficiali (cui pero' non corrispondono poteri reali) ma che ne conosce e capisce ancor meno di lui.
Per forza di cose, il tutto si risolve con un buco nell'acqua.

Prima insegnante, poi Grande Inquisitore e infine Preside di Hogwarts, Dolores Umbridge riesce rapidamente a inimicarsi tutte le componenti della scuola: insegnanti, allievi, fantasmi e perfino il poltergeist Pix, con l'unica eccezione del frustratissimo custode Gazza (che da sempre sogna il ritorno delle vecchie e gloriose punizioni corporali con fruste, catene, celle segrete et simila) e di un gruppo di Serpeverde che finiscono però col rivelarsi alquanto infidi.

I rapporti con i colleghi partono male fin dall'inizio; è vero che quello dell'ispettore è un lavoro ingrato e che ogni insegnante è prima di tutto un essere ipersuscettibile e ombrosissimo che detesta sommamente essere messo in discussione, soprattutto da una collega piuttosto incapace e imbevuta di pregiudizi oscurantisti, ma il metodo Umbridge per le ispezioni è fatto apposta per irritare anche un carattere dolce per natura - in effetti si tratta soprattutto di una guerra di nervi in cui le vere capacità didattiche non vengono prese in considerazione. Piton, che è preparatissimo nella sua materia ed è un pessimo insegnante, passa l'esame nel migliore dei modi, mentre Hagrid, altrettanto competente e tutto sommato migliore come insegnante (anche se pratica una didattica un po' troppo avventurosa) crollerà quasi subito sotto il peso delle sue insicurezze, come Sybille Cooman, che invece ha una preparazione decisamente approssimativa e insegna maluccio (pur riuscendo a stabilire un buon rapporto con una cerchia di allieve).
Particolarmente aspro (e divertente) si rivela il duello con Minerva McGrannit, che si ritrova in pratica esautorata dai suoi compiti di vicepreside che ricopriva nel migliore dei modi. Gli scontri tra le due donne sono pagine di altissima letteratura, in particolare il meraviglioso colloquio di orientamento di Harry che finisce con un furibondo litigio da cui il povero ragazzo scappa di gran carriera.

Come insegnante, la Umbridge si rivela inadeguata. Sotto questo aspetto, il personaggio vanta un'illustre serie di ascendenti letterari a cominciare da Dickens, ma ognuno di noi, se ha frequentato una scuola per più di sei mesi, ha incontrato i suoi Umbridge.
La sua principale preoccupazione è non permettere agli allievi di avvicinarsi alla conoscenza pratica di quel che studiano, e possibilmente a nessun tipo di conoscenza tout-court. Ordine, disciplina, lettura individuale in classe (di un manuale molto noioso, si capisce) e una grande attenzione ad evitare ogni tipo di rapporto e interazione con i suoi alunni. Niente esercitazioni pratiche: se i ragazzi saranno in possesso di una solida preparazione teorica, sostiene, non c'è dubbio che agli esami saranno in grado di eseguire correttamente gli incantesimi. I ragazzi, comprensibilmente, mostrano parecchie perplessità a riguardo, tanto più che sono stati abituati ad un approccio molto concreto alle materie: studio sui libri, certo, ma anche parecchie esercitazioni pratiche.
Le cose però rimarrebbero come sono, nonostante il diffuso malumore, se la Prima della Classe, alias Hermione Granger, non prendesse in mano la situazione.
Dopo avere letto e giudicato scarso il manuale scelto dalla Umbridge, la ragazza la costringe (letteralmente: costringe) ad una discussione che coinvolge tutta la classe ma non porta a nessun risultato se non quello di mettere Harry in punizione. E visto che con i metodi legali non si ottiene niente, Hermione organizzerà una sorta di Corso Alternativo di Difesa contro le Arti Oscure che per molti mesi si svolgerà in assoluto segreto (del resto i protagonisti hanno ormai quindici anni, che è l'età delle prime proteste organizzate e delle prime occupazioni...)
Hogwarts fornirà l'aula. Naturalmente è un aula magica, che è sempre a disposizione "quando qualcuno ne ha veramente bisogno" e che risulterà comodissima e dotata di tutte le attrezzature e i libri opportuni per la circostanza. L'insegnante sarà Harry, che da buon Water Violet è un insegnante nato, e da buon Water Violet si farà pregare e quasi costringere. Mirabile la prima lezione, quando dà le prime istruzioni su come disporsi etc. "era strano ritrovarsi a dare ordini, ma era ancor più strano vedere che venivano eseguiti" - che è esattamente l'impressione che ho provato le prime volte che stavo in cattedra.

Come Grande Inquisitore, la Umbridge va incontro all'inevitabile destino di tutti i Grandi Inquisitori quando non sono assistiti da una buona base di consenso o almeno da una notevole intelligenza: ovvero una valanga di disposizioni sempre più dettagliate e una sorveglianza maniacale che sconfina abbondantemente nello spionaggio, il tutto volto ad impedire la benché minima iniziativa individuale da parte degli allievi e degli insegnanti, ma che insegnanti e allievi imparano ad aggirare con tutta naturalezza.
La paura di perdere il controllo della situazione (un controllo che in realtà non ha mai avuto) porta la Umbridge a instaurare una sorta di Terrore; nel momento in cui la vediamo sospendere il professor Piton, reo di non fabbricarle in sette minuti una pozione che richiede un mese di tempo per essere preparata (e che non ha nessuna intenzione di darle, come la Umbridge e i lettori capiscono benissimo) il Grande Inquisitore ricorda molto la Regina di Cuori di Alice che strepita "Tagliategli la testa, tagliategli la testa!".
E' chiaro che la sua partita è ormai persa, ma in quel momento ci accorgiamo che, in realtà, quella partita lei non ha mai avuto la minima possibilitò di vincerla.

La Umbridge sarà rifiutata dalla scuola per Manifesta Inadeguatezza. Non è una buona strega: conosce qualche incantesimo di un certo sadismo (come quelli che usa con Harry nelle punizioni) ma la sua bacchetta è corta e qualsiasi professore là dentro ne sa più di lei. Quando viene nominata preside dal Ministero, Silente, l'unico che Hogwarts al momento sia disposta a riconoscere come preside, scompare e barrica la presidenza, dove la Umbridge molto simbolicamente non riuscirà mai ad entrare.
Naturalmente quella di Hogwarts non è una normale presidenza, con una scrivania di
mogano, una libreria dall'aria solenne e un tappeto di lusso per terra: l'ufficio di Silente è un concentrato di magia di cui i lettori conoscono solo una minima parte, un vero e proprio centro di potere. La cosa viene molto bene in evidenza nel secondo film, quando entriamo la' dentro per la prima volta: la frivola parola d'ordine a base di dolci e la svagata amabilità di Silente non bastano a far dimenticare che l'ufficio è protetto come una fortezza, e che proprio di una fortezza si tratta.

La fine della Umbridge sarà abbastanza drammatica: attirata con l'inganno da Hermione nella Foresta Proibita, viene catturata da una delle molte entita' misteriose che si aggirano là dentro. Sarà Silente a liberarla - LUI, naturalmente, sa benissimo come muoversi nella Foresta... Ma da quella gita la Umbridge uscirà con un esaurimento nervoso in piena regola, e con la bacchetta spezzata (per il Ministero della Magia, comunque, non e' una gran perdita).
Il cerchio si chiude, e Hogwarts ritorna un feudo di Silente - non ha mai smesso di esserlo, in realtà. Ma adesso la scuola è molto piu' consapevole di sé e della sua forza, in tutte le sue componenti - soprattutto ne sono consapevoli i suoi studenti, che sono la vera forza di ogni scuola e i veri proprietari: non c'è sorveglianza che possa impedire a un gruppo di alunni determinati di avviare proteste, associazioni segrete e gruppi eversivi, e la stessa Hogwarts collabora apertamente con loro, fornendogli un adeguato ambiente di lavoro; solo gli studenti conoscono tutti i segreti di una scuola (e questo l'avevamo già visto nei libri precedenti, con la Mappa dei Malandrini). E infine non sempre i voti indicano la reale scala gerarchica degli allievi: il gruppo dei sei che raggiungono e mettono a soqquadro il Ministero della Magia comprende sì la più brillante allieva del momento (Hermione) ma anche un alunno universalmente ritenuto tra i più imbranati (Neville Paciock) che anche nei libri successivi mostrerà talenti fuor dal comune, oltre alla svagatissima Luna Lovegood che passa per essere un po', come dire, "diversamente strega"; lo stesso Harry, pur rientrando nella fascia medio-alta del profitto non è mai stato un allievo eccezionale, ma rientra in quella categoria particolare che, pur non brillando mai troppo negli studi, riesce a mettere a profitto quel che ha imparato ben più di compagni ritenuti più brillanti. Quanto ai gemelli Weasley, i due discoli della scuola, hanno preso voti decisamente ordinari ai loro GUFO studiando in apparenza solo lo stretto indispensabile, ma gli incantesimi con cui metteranno a soqquadro Hogwarts per intralciare la Umbridge riscuotono l'ammirazione di tutto il corpo docenti e le loro abilità (che dalla scuola vengono, e alla scuola si sono perfezionate in vari modi) apriranno loro le porte di un grande e immediato successo commerciale.

lunedì 17 agosto 2009

Noi fummo da sempre calpesti, divisi / perché non siam popolo, perché siam divisi


In occasione delle consuete uscite pre-Pontida sul tema dell'unità d'Italia e del suo inno ho rispolverato una delle molte unità didattiche con cui ho sbarcato la SSIS.
Per ognuna delle cinque tesine dell'Area Trasversale infatti ci veniva chiesto di allegare un'unità didattica - che, grosso modo, corrisponde al contenuto di una lezione o di più lezioni strettamente collegate tra loro.
Al contrario di altre unità didattiche che ho presentato questa è vera, nel senso che io l'Inno d'Italia lo spiego proprio così - anche se non ho mai esteso il lavoro nel senso qui progettato, soprattutto perché non mi sono mai trovata alle mani un insegnante di musica con cui avevo voglia di lavorare quando spiegavo l'Inno d'Italia (altre volte ho avuto a disposizione colleghi con cui avrei collaborato volentierissimo, ma sempre quando non avevo alcuna collaborazione da proporre. Capita).
Questo lavoro ha contribuito a farmi prendere 30 (o era 29?) nell'area trasversale. Questo non indica necessariamente che sia un lavoro valido, o che alla SSIS lo abbiano considerato valido, perché in effetti non ho alcuna certezza che l'abbiano letto o anche soltanto scorso; d''altra parte la cosa su cui trovavano più facilmente da ridire, nell'Area Trasversale, era la bibliografia (non i criteri della bibliografia, ma il modo in cui era redatta. Noi di Lettere chiaramente abbiamo spopolato, ricorrendo all'accorto espediente di seguire le istruzioni propinateci), e sulla redazione della mia bibliografia non c'era niente da ridire.
Per lo schema dell'Unità Didattica invece mi sono attenuta a quello che ci aveva dato l'insegnante del laboratorio di italiano. Visto che nessuno me l'ha mai criticato, immagino vada bene.
L'utilità di preparare queste Unità Virtuali per Classi Immaginarie mi è sempre sfuggita. In effetti mi sembra che progettare una lezione e farla siano due cose ben diverse, ma tant'è.
Questa, comunque, l'ho fatta una mezza dozzina di volte, seguendo questo schema, ed ha sempre funzionato - nel senso che la classe mi stava a sentire almeno quel tanto che bastava per scodellare delle verifiche di livello più che dignitoso.

ARGOMENTO: Inno nazionale d’Italia ufficiale e inno ufficioso.

CLASSE: II media, livello medio.

MOMENTO: Verso la fine di Aprile (seguendo gli attuali programmi)
La lezione dovrebbe svolgersi pochi giorni dopo aver terminato la parte di programma di storia che parla dei moti del 48-49, verifica inclusa, e prima di iniziare la parte sul “decennio di preparazione” di Cavour.

MATERIA: Storia, Letteratura italiana, Educazione civica

FINALITÀ’: ampliare le conoscenze sul Risorgimento italiano
capire perché il testo è stato scelto come inno nazionale
addomesticarsi con l’arte di analizzare un testo in base all’inquadramento storico

PREREQUISITI:
Sapere che c’era un movimento irredentista che voleva l’unità d’Italia.
Conoscere la prima parte del Risorgimento, fino ai moti del 48 compresi

TEMPO: 1 ora, più mezz’ora della lezione successiva per la verifica.
1 ora in compresenza o in aggancio a Educazione Musicale.

PARTE PRIMA - L’INNO UFFICIALE
Testo: Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli

I - Dove siamo.

Rapido riepilogo della situazione storica dopo i moti del 48 da parte degli allievi: è sufficiente che abbiano ben presente che l’Europa era stata attraversata da una vampata rivoluzionaria, che ad un certo momento era sembrato che i rivoluzionari potessero farcela, ma che poi tutto era finito in niente. Un accenno alla Repubblica romana, e alle speranze che aveva suscitato.

II - E questo cos’è?

Spiegare agli alunni che la poesia che hanno in mano è l’attuale inno nazionale.
Molti saranno sorpresi perché hanno sentito spesso la prima strofa, ma ignoravano che ce ne fossero altre. Spiegare che la versione completa viene eseguita molto raramente.
(Se chiedono il perché, ammettere di non saperlo)

III - L’autore e il contesto culturale.

E’ nato nel 1827 e ha scritto la poesia nel 1847, appena laureato.
Partecipò ai moti del 48 e fu tra i difensori della Repubblica romana. Morì nel 1849, per una ferita.
Il fatto che sia morto nei moti irredentisti, e così giovane, sta ad indicare che, anche se magari non è stato il più grande poeta della nostra letteratura, la sua buona fede è fuori discussione. La poesia, dunque, è sincera. Se magari oggi può sembrare retorica è perché nel frattempo il gusto è cambiato: nessuno oggi si sognerebbe di scrivere una canzone così. All’epoca invece era perfettamente normale.

IV - Di che parla il testo

E’ la parte centrale della lezione.
Oltre alla spiegazione letterale del testo occorre fornire una spiegazione per le parole più insolite (“calpesti” per “calpestati”, “squilla” per “campana, “natio” per “dove si è nati” eccetera. Sono tutte cose che serviranno per l’anno successivo, quando verranno letti Manzoni e Leopardi e gli altri autori dell’ottocento, e intanto imparano a familiarizzarsi con questo tipo di lessico).
Gli avvenimenti storici citati nella poesia vanno richiamati uno per uno, e riassunti nei tratti essenziali (tra l’altro alcuni per gli alunni saranno completamente nuovi).
“Scipio” è Scipione l’Africano, che sconfisse Annibale che, ad un certo punto, sembrava dovesse invadere Roma. Questo spiega anche l’accenno alla Vittoria schiava di Roma: ai tempi dell’antica Roma l’Italia era unita, e anche molto potente. Dopo ha dormito un sonno millenario ma adesso “s’è desta”.
La battaglia di Legnano è possibile che non richieda grosse spiegazioni, soprattutto se l’anno prima è stata fissata con “Il parlamento” di Carducci: è il momento in cui l’imperatore straniero (e tedesco, guarda un po’), che si era messo in testa di fare il prepotente in Italia (distruggendo tra l’altro Milano) viene sconfitto e ricacciato oltre i confini. Siamo nel XII secolo, nella gloriosa Italia dei Comuni, che andava molto di moda nel Risorgimento.
Ferruccio molto probabilmente giungerà nuovo alla classe. Basta accennare che difese con grande coraggio Firenze durante un assedio dei francesi, in un periodo (intorno al 1500) in cui i francesi andavano e venivano in Italia come se fosse casa loro.
“Balilla” invece è termine piuttosto noto, e i ragazzi hanno sentito nominare sia i Giovani Balilla del fascismo che la macchina Balilla, uscita in quegli anni.
Spiegare che, anche se adesso è diventata praticamente una parolaccia, e suscita solo associazioni sgradevoli, nel 1847 quel nome era invece collegata ad un episodio glorioso e assai patriottico: Balilla è, in genovese, diminutivo di Battista, e il piccolo Balilla era un ragazzino genovese che nel 1746 lanciò un sasso contro un ufficiale austriaco innescando così una sollevazione della città. Dopo cinque giorni di combattimenti gli austriaci levarono le tende.
I “Vespri” sono i Vespri siciliani: altra sommossa popolare, che nel 1282 scacciò gli Angioini (francesi) dalla Sicilia.
(Di passaggio, è opportuno accennare che, guarda caso, un tale Verdi scrisse due opere dedicate per l’appunto ai Vespri Siciliani e alla Battaglia di Legnano. Basta un accenno, perché l’argomento sarà ripreso nella seconda lezione).
Quanto al “sangue polacco” non dovrebbe dare particolari problemi perché è roba recente: al Congresso di Vienna, Russia e impero asburgico si erano spartiti il regno di Polonia, che era così diventato un paese che aveva lo stesso identico problema dell’Italia, e per giunta a causa dello stesso nemico: l’Austria.

V - Il senso generale

Riepilogando: abbiamo un episodio di storia romana, cinque ricordi di cinque gloriose occasioni in cui l’italico coraggio ha sconfitto o comunque duramente provato gli incauti invasori stranieri, e un accenno a un popolo che ha un problema abbastanza simile a quello italiano, cioè essere stato spartito come una torta da potenze straniere, oltre a un accenno all’Austria vista come un’aquila spennacchiata.
Gli episodi in cui l’italico coraggio ha sconfitto gli invasori sono geograficamente collocati in tutta la penisola (Milano, Genova, Firenze, Palermo), e si lascia chiaramente capire che sono tutte punte di iceberg: ogni italiano, in qualsiasi momento, potrebbe fare altrettanto.
La poesia si apre con un’invocazione ai fratelli d’Italia (divisi, dunque, per colpa dello straniero, ma uniti nel cuore), poi c’è una spiegazione storica all’attuale debolezza d’Italia, dovuta proprio alla sua frantumazione, e un invito a unirsi.
Vale la pena, se la classe è in condizione di sopportarlo, di soffermarsi sui versi “l’unione e l’amore / rivelano ai popoli le vie del Signore”: grazie a un fenomeno di generale affratellamento delle italiche genti, sarà chiaro che l’unione dell’Italia fa parte del disegno divino. Da sempre i popoli insorti invocano Dio dalla loro parte, ma qui il Signore è chiamato in causa in modo molto gentile.
Questo spiega anche perché, nonostante i numerosi riferimenti guerreschi, la poesia ha potuto essere adottata come inno nazionale da una nazione che, nella sua costituzione, dichiara di ripudiare la guerra.

VI - Verifica
(in classe)

Gli studenti devono rispondere per iscritto a tre domande:
1) In che contesto storico scrive l’autore
1) A chi si rivolge, e cosa propone
2) Perché l’autore insiste tanto sul passato glorioso dell’Italia.

PARTE II - L’inno ufficioso
Testi:
- Va’ pensiero, dal Nabucco; musica di Giuseppe Verdi, testo di Temistocle
Solera (1842)
- Dell’aura tua profetica, dalla Norma; musica di Vincenzo Bellini, testo di
Felice Romani (1831)

L’introduzione storica si fa abbastanza facilmente perché ogni manuale di storia ha un box o una scheda dedicata all’importanza, anche politica, della musica lirica nell’Ottocento - e in queste schede viene sempre raccontata la nascita di “Va pensiero”, dell’entusiasmo che suscitò fin dalla sua prima esecuzione e di come un coro di ebrei esiliati che deprecavano la loro triste sorte si trasformasse in un inno rivoluzionario, con grande scorno della censura austriaca.
Occorre anche ricordare come il coro sia sempre rimasto popolarissimo (è uno dei pochi brani di musica classica che praticamente ogni italiano conosce) e come a tratti sia stato proposto di farne l’inno d’Italia.
(Un confronto tra i testi di “Va’ pensiero” e “Fratelli d’Italia” spiega abbastanza facilmente perché il secondo ha prevalso: “Va’ pensiero” è un lamento, senza altro progetto che quello di imparare a sopportare con pazienza le avversità, il secondo contiene un progetto molto chiaro e la volontà di rimettere a posto quel che funziona male. Anche se musicalmente il divario qualitativo è enorme, la scelta di un inno nazionale è prima di tutto un fatto politico).

Gli insegnanti possono fornire qualche ampliamento, per esempio spiegando che l’opera era sì popolare, ma nelle città, visto che in assenza di radio e televisione i contadini erano decisamente tagliati fuori da questo tipo di intrattenimenti (non era invece questione di reddito perché i posti popolari erano a prezzi realmente popolari).
Si deve poi aggiungere che “Va pensiero” non fu un caso isolato, e che molte opere di quel periodo, non solo di Verdi, contengono cori e arie a sfondo risorgimentale, e che anzi i soggetti spesso erano strutturati (e i libretti scritti) in modo da consentire quel tipo di operazione, con grande abbondanza di perfidi tiranni e invasori stranieri contro cui covava la rivolta. Il tema era molto sentito dagli intellettuali dell’epoca: non solo dai musicisti, ma anche dai librettisti (e dagli impresari, non fosse che per il successo di pubblico che riscuoteva).

Il coro dalla Norma è stato scelto perché, oltre ad essere molto gradevole all’ascolto, è di segno opposto a “Va’ pensiero”: non c’è niente di elegiaco o di introspettivo, solo una tribù infuriata e decisa a cacciare via gli invasori in malo modo. Volendo, può essere sostituito dal secondo coro della Norma “Guerra! Guerra!”, che è più breve e ha un ritmo più veloce ma espone esattamente gli stessi concetti - o da un’altra quarantina di cori analoghi (anche se non tutti altrettanto suggestivi).

Anche qui è necessario fare un po’ di lavoro sui testi, sbrogliando le frasi più complicate per permettere agli allievi di seguire il senso.

Una volta concluso l’ascolto, e la seconda lezione, il Risorgimento viene abbandonato a sé stesso e ritorna un argomento di esclusiva pertinenza di Storia.
In compenso le connessioni tra musica e politica e soprattutto l’uso della musica come veicolo di trasmissione per temi profondamente sentiti dalla collettività possono continuare ad essere studiate per mesi e anni di fila: il materiale non manca certo.

Parte Terza - Musica e politica

La palla passa all’insegnante di Educazione Musicale (che può poi rilanciarla in seguito ai colleghi del Consiglio di Classe): a parte la musica lirica della prima metà dell’Ottocento, esistono altri casi in cui la musica cantata è stata concepita o interpretata in chiave politica?

Ovviamente di casi ne esistono un’infinità, partendo dal blues e dalle canzoni di protesta dei lavoratori fino ad arrivare a musiche incise due giorni fa, e ogni ragazzo ne conosce almeno qualcuno.
Il lavoro può ramificarsi in infiniti modi: si può ad esempio esaminare qualche tema dei più ricorrenti per Educazione Civica o per Storia, lavorare sulle poetiche di certi testi in italiano o nelle lingue straniere studiate da quella classe, o su colonne sonore di film musicali o su video che sono diventati particolarmente famosi (a quel punto si può anche agganciare Educazione Tecnica). Anche gli incastri con Geografia sono numerosi, e spaziano dai moti rivoluzionari in Sud America sino alle questioni energetiche e ambientali.

Tanto per fare un minimo esempio, se vogliamo insistere sul filone degli inni nazionali:
l’inno inglese “God Save the Queen” ha avuto almeno due rifacimenti nell’ambito della musica rock.
- La prima è la versione dei Queen, che sul doppio significato in inglese del loro nome hanno giocato spesso. Una tipica chiusa dei loro concerti era l’inno suonato dalle tastiere mentre il cantante si esibiva sul palco in manto bordato di ermellino, con corona e scettro. Le parole erano cantate dal pubblico.
- Nel 1976 i Sex Pistols lanciarono una versione molto personale di “God Save the Queen”. Il testo, cantato con un’intonazione molto approssimativa e con grande sfoggio di chitarre in distorsione, era estremamente acido verso il sogno imperiale britannico. La canzone, che ebbe un enorme successo e scandalizzò mezzo pianeta, chiuse la stagione del progressive rock inglese e aprì quella del punk rock, facendo spargere fiumi di inchiostro ai sociologi, oltre che ai critici musicali.