venerdì 27 febbraio 2015

Il nostro amico inconscio

Nella Prima Effervescente la lezione di storia è appena cominciata; gli scolari stanno cercando la pagina del libro, quando Biondello alza la mano:
"Prof, volevo dirle: mio fratello ha fatto la tesina per l'esame di stato sull'inconscio...."
Annuisco cortesemente, domandandomi in cuor mio che cazzo c'entrano sia suo fratello che l'inconscio con gli ungari e la battaglia di Leichfeld (argomento su cui è prevista un interrogazione).
Biondello continua:
"E c'era uno di quelli che studiano queste cose che diceva quel che diceva lei ieri sugli iceberg".
Eh?
"Cioè che l'inconscio funziona come gli iceberg, i sette ottavi stanno sotto".
(Sulla percentuale degli iceberg che rimane sott'acqua si era invero aperta una ampia discussione il giorno prima: giurerei che ho sempre sentito dire che sono i nove decimi, ma in classe sostenevano sia la teoria dei sette ottavi che quella degli otto noni. In ogni caso il collegamento Internet una volta tanto funzionava, così alcuni bellissimi iceberg avevano dato un bel tocco azzurrino alla lezione)
"Ecco, le volevo chiedere... che cos'è l'inconscio?".
"Accidenti a te, perché non l'hai chiesto a tuo fratello, che a questo punto qualcosa sull'argomento deve ben saperla?" penso in cuor mio. Ma mi guardo bene dal dirlo.

Tra i tanti incerti del nostro mestiere c'è anche sentirsi chiedere di primo mattino cos'è l'inconscio, mentre i tuoi pensieri sono protesi verso Rollone duca di Normandia e Guglielmo il Conquistatore (o il Bastardo, a seconda dei punti di vista). Specialmente i primini adorano sorprenderti con questo tipo di vaste domande.
La classe segue con deplorevole attenzione i miei pasticciati tentativi di spiegare cos'è l'inconscio. Apprezzano. Le cose che non ricordiamo, le cose di cui non siamo consapevoli, i sentimenti che neghiamo di provare...
I sogni. Arrivata ai sogni comincio seriamente a temere che la lezione ormai sia andata: tutti si sporgono per fare domande, raccontare sogni, ricordare sogni, l'interpretazione dei sogni con i numeri del Lotto...

Poi avviene il miracolo. Con un abile colpo di coda qualcuno ritorna a storia - che era la materia di quel giorno.
"E quel sogno di quell'imperatore che aveva sognato la croce..."
Il sogno di Costantino. Citato quasi di striscio quattro mesi fa.
Se lo ricordano. 
Sono commossa.
"Non sappiamo se il sogno di Costantino veniva dal suo inconscio. Nell'antichità i sogni erano ritenuti magici, li inviavano gli dei. Dio, in questo caso. Ma in fondo non sappiamo nemmeno se davvero Costantino ha fatto questo sogno, o se gli tornava più comodo dire così...".
La lezione sta tornando lentamente nei suoi binari. Una piccola deviazione sui sogni profetici, poi gli imperatori come messaggeri della volontà di dio, e da lì tornare ai vichinghi è quasi semplice. Riesco perfino a fare non una ma ben due interrogazioni.

Ho visto molte lezioni deviare improvvisamente e immergersi in argomenti completamente diversi da quelli scelti dal docente, soprattutto nelle classi prime. E soprattutto nelle prime non sempre il docente ha il coraggio di riportare l'avventurosa scolaresca assetata di conoscenza e ricolma di domande come una torta è ricolma di crema sul banale sentiero del programma. Almeno, per me è difficile, e già mi considero un mostro di bravura se riesco a impedire che la discussione si trasformi in un immane bolgia dove tutti parlano uno sopra l'altro.
E' la prima volta però che vedo una classe che spontaneamente rientra nei binari, per di più nei binari della materia giusta - perché eravamo, anzi erano partiti dagli iceberg, che sono argomento di geografia, ma adesso siamo a storia, a parlare di Rollone duca di Normandia.

La Prima Effervescente è, invero, una classe molto particolare.

domenica 22 febbraio 2015

Cita-un-libro - #ioleggoperché - 2

Entro al secondo round, dopo aver bucato il primo (non sia mai che mi precipiti a testa bassa in qualcosa di nuovo):



Quando ripenso alle Onde, da sempre, la prima immagine che mi viene in mente è quella di Susan, la bambina con i grembiulini ricamati e le calzette bianche, che ama e odia - e alle spalle gli adulti che amano infiocchettare le bambine il più possibile, forse proprio per rimuovere il fatto che quelle piccole, tenere, leziose creature AMANO e ODIANO, tutto in maiuscolo.

Con questa citazione partecipo al secondo turno di Cita-un-libro, iniziativa nell'ambito di Ioleggoperché promossa da Slumberland e che questa settimana alloggia sul lontano pianeta di Oglaroon dove abita LGO.

venerdì 20 febbraio 2015

Vi presento Miss D(ice) - Darinka


Il libro che presento questa settimana, scelto in onore della Festa del Gatto appena passata, è un fumetto a tavole autoconclusive ed è uscito nel 2011 per Tempesta editore. Un altro, ambientato nello stesso universo, dovrebbe uscire tra un paio di mesi. Nel frattempo Darinka pubblica ogni tanto qualche tavola su Facebook - ed è proprio lì che l'ho conosciuta, grazie a una condivisione:

Per chiunque abbia un gatto, la storia è ben nota - e chiunque abbia un gatto può apprezzare l'abilità del tratto e l'accuratezza dei particolari: un gatto non ti chiede mai di uscire, aspetta con aria tragica e silenzioso rimprovero oppure graffia la porta gridando "Liberté!" come nemmeno la Maschera di Ferro al sesto anno di reclusione; e dopo che sei prontamente accorsa/o per aprirgli le porte della libertà, ti guarda incerto, esita, annusa l'aria schifato, mette avanti la zampina, la tira indietro, la mette di nuovo avanti, sospira, ti guarda male e infine rientra in casa. La reazione di Miss D non è spazientita, solo rassegnata e un po' incuriosita, e tutta la tavola è improntata al più schietto realismo (incluso il pensiero del gatto).

Miss D. è un umana intorno ai 30 anni che vive con Monsieur LeChat, un gatto nero di origini franscesi un po' barricadero e dotato di uno humor assai felino. Il suo look risulta subito vagamente familiare, e infatti è ispirato a un famosissimo gatto nero:
(si ringrazia per la segnalazione)
 Entrambi hanno il loro giro di amici e conoscenti con cui commentare l'attualità - e siccome gli anni in cui le tavole furono disegnate sono il 2009-2011, attualità demenziale da commentare ce n'era davvero in abbondanza tra gli umani, e tuttora non ne siamo certo privi.
Ecco qui uno scambio di commenti dedicato alle sentinelle in piedi:
Miss D ha molti anni meno di me, ma le sue osservazioni disincantate mi ricordano molto le chiacchierate che faccio con le amiche - e monsieur LeChat è, oggettivamente, un gran personaggio.
Con questo post partecipo  al Venerdì del Libro di Homemademamma, e auguro felici letture e un felice fine settimana a tutti.

martedì 17 febbraio 2015

17 Febbraio 2015 - Giornata Nazionale del Gatto

In occasione della Festa Nazionale del Gatto vorrei lodare questo nobile animale, che da tanto tempo condivide la vita degli umani allietandoli con la sua bellezza, il suo affetto e le sue molte qualità.

I gatti sono animali di rara bellezza ma anche di immensa eleganza. I più banali arredi di casa acquistano fascino quando un gatto li degna della sua attenzione, anche una modesta asse da stiro:

e allora tutte le faccende di casa si fermano in suo onore.
Alcuni mobili si confanno in modo particolare ai gatti, ad esempio i letti
dove amano particolarmente stare, soprattutto quando i colori dei suddetti sono in estetico contrasto con i loro colori del loro manto
oppure quando, al contrario, si fondono garbatamente in un ricco gioco di sfumature.
Grandemente apprezzati sono anche i divani, di cui i mici riescono ad occupare sezioni notevoli anche quando non sono di grossa taglia:
ma dove un gatto davvero splende al suo meglio è in una libreria; infatti sia il legno che i libri gli si confanno nel migliore dei modi. 


In effetti, una libreria senza gatti non trasmette quel caldo senso di piacere e di intimità che una buona libreria dovrebbe sempre trasmettere, e non riesce a mettere nel giusto risalto i libri che contiene, per quanto belli essi possano essere.

Un gatto (ma due o tre sarebbero senz'altro meglio) si inserisce facilmente in qualsiasi ambiente domestico indipendentemente dallo stile architettonico e dall'arredamento: i gatti apprezzano sia il legno che il cristallo o il metallo, gradiscono i pavimenti in cotto, in gres e in marmo, apprezzano le tappezzerie di stoffa e di pelle, dormono volentieri su pelouche e cuscini di ogni sorta, apprezzano i tappeti di qualsiasi lavorazione e non spregiano né la plastica né il melaninato.

Procurarsi un gatto non è difficile - anzi corre voce che in certe stagioni ci voglia una notevole determinazione per evitarlo. La mossa più pratica, se nessun gatto vi ha scelto ed è approdato a casa vostra risoluto a farne casa sua e nessun amico ve ne offre uno (nel qual caso, sarebbe forse opportuno cambiare amici) è recarsi in qualche rifugio del gatto o chiedere a qualche colonia felina. Lì vi offriranno probabilmente anche un opzione interessante: un gatto adulto.
E' senz'altro una buona scelta, anche se sul fatto che non si arrampichi sulle tende non garantirei al 100%.
Naturalmente ci sono anche i gatti IKEA
facilmente assemblabili e celebri per la loro espressione particolarmente coccolosa.
Se invece optate per un gattino ancora in crescita, non è detto che la vostra casa sarà sempre perfettamente ordinata; ma d'altra parte

Chiunque sia il gatto che avete scelto, vi si affezionerà facilmente perché i gatti sono per natura creature affettuose: sarà sufficiente che lo nutriate regolarmente e bene, che lo ammiriate con devozione, che rispettiate i suoi ritmi e le sue esigenze e siate adeguatamente sottomessi - ma la cosa vi verrà del tutto naturale fin dall'inizio, perché essere sottomessi al gatto che vive con voi è cosa buona e giusta e come tale la riconoscerete sin da subito.
Va da sé che non dovete cercare di "educarlo" perché la natura richiede che sia il gatto ad educare voi, in base al criterio che l'educazione viene impartita da chi occupa il gradino più alto nella scala sociale. Anzi, la convivenza con un gatto vi insegnerà la tolleranza, il rispetto e soprattutto la buona educazione.

Per esempio, quando lo chiamate (ma perché chiamarlo? Verrà lui se e quando vuole) ricordatevi prima di tutto che è un gatto, e non un cane da richiamo:
E ricordate sempre: i gatti lasciano impronte nel vostro cuore, ma non solo:

Auguri a tutti i gatti e ai loro umani!

domenica 15 febbraio 2015

#ioleggoperché

Ebbene sì, sarebbe vano negarlo, io leggo.
Ma leggere non è sempre e solo rose e fiori. 
Leggere fa pensare, ti pone dei problemi.
A volte anche seri. Roba esistenziale.
Come questo, per esempio:

mercoledì 11 febbraio 2015

Un facile compito

E' noto che tutti sanno risolvere con facilità il cubo di Rubik. Tutti TRANNE ME, intendo.

Ogni tanto mi ficco in testa l'idea di preparare un compito facile facile per gratificare qualche classe assai partecipe e industriosa, oppure (più raramente) per fare imbroccare un voto decente anche a quegli elementi che, non sempre per colpa loro, di voti decenti ne vedono ben pochi. 
Di solito si risolve in un disastro epocale.
Chiedo il colore del cavallo bianco di Napoleone? E tutti mi indicano chi il verde, chi il rosa, chi il blu elettrico.
Chiedo di individuare il predicato verbale nella frase "Io gioco a palla nel cortile"? Mi indicano tutto tranne il predicato verbale.
Chiedo la capitale dell'Inghilterra con una carta geografica squadernata davanti? Mi indicano financo le più piccole località del Sussex ma nessuno pensa a Londra, per quanto sia cerchiata, bicerchiata e tricerchiata.
Cose così.
Quando chiedo spiegazioni spesso ricevo risposte del tipo "Mah, sembrava troppo facile...". Oppure dicono che non avevano capito la domanda. 
Altre volte invece salta fuori che quel che a me sembrava facilissimo, per loro non lo era.
Succede però anche che qualche alunno per niente studioso e spesso distratto durante le lezioni, si lasci guidare dal suo buonsenso e faccia un compito molto buono, affermando senza remore che il cavallo bianco di Napoleone era bianco e non di una delicata sfumatura rosa malva.
E tutto ciò mi ha sempre immerso in profonde riflessioni e fatto capire molte cose, oltre a frustrarmi parecchio.

Il primo compito di questa serie lo feci molti anni fa, quando ero al secondo anno di insegnamento, in una seconda che amava molto la storia e la studiava con passione, aiutata in questo dal manuale che era il glorioso e ormai defunto Tuttostoria - non sempre aggiornatissimo, non sempre precisissimo, che attribuiva a Maria Antonietta la celebre esortazione di mangiare brioche se non c'era pane, ma nel complesso comprensibile,  accurato, fornito di ottimi esercizi e corredato da utilities che risultavano effettivamente utili - insomma una tipologia di manuale oggigiorno piuttosto raro.
Gli lasciai il manuale in mano e chiesi che mi compilassero una cronologia della Rivoluzione Francese in non più di venti date. Ai miei occhi la difficoltà consisteva nel selezionarle, queste date, ma niente di più. Tra l'altro per ogni capitolo Tuttostoria aveva l'accortezza di mettere prima di tutto una bella cronologia, con gli avvenimenti divisi per colori a seconda della tipologia e del grado di importanza - e se non ricordo male metteva una sintesi con gli avvenimenti più importanti anche come chiusura del capitolo.

Arrivata a casa con la mia mazzetta di compiti belli croccanti, dopo un rapido spuntino avviai il lavoro di correzione, convinta di fare presto e di segnare Buono come valutazione più bassa. E invece fu pianto e stridor di denti.
Con gli anni ho rimosso i dettagli più agghiaccianti, ma ricordo che rimasi molto colpita dal fatto che le cronologie non fossero affatto in ordine cronologico, che mancassero spesso avvenimenti importanti come il Giuramento della Pallacorda o la proclamazione della repubblica e invece abbondassero avvenimenti tutto sommato secondari, per tacere di Napoleone la cui data di nascita era segnata a metà avvenimenti ma di cui poi non si sapeva nulla.
Tre compiti però erano fatti veramente bene: quelli delle due stelle della classe, che sulla Rivoluzione Francese mi avevano fatto due interrogazioni fluviali frutto di lungo e ponderato studio, e quello di Irminsul, un ragazzo che con la storia si era sempre ben guardato dall'avere a che fare. Come poi verificai, costui si era limitato a copiare la cronologia che apriva il capitolo ma selezionando le date scritte in rosso e scartando quelle in blu, in base alla savia considerazione che, se gli autori del manuale avevano ritenuto opportuno scriverle in tre colori c'era il suo motivo, e se l'epico 14 luglio 1789 era segnato in rosso, allora le date importanti erano quelle scritte in rosso.
E tutto ciò deponeva assai a onore del suo buon senso; soltanto che ero convinta che il buon senso non mancasse a nessuno degli alunni di quella classe.

Chiesi qualche spiegazione, indicando ripetutamente la cronologia che apriva il capitolo.
"Posso anche capire che qualcuno abbia difficoltà a fare una cronologia" dissi (in realtà non lo capivo affatto: per me uno schema di storia è sempre stata una cronologia di base su cui ricamare i vari avvenimenti collaterali; però non tutti i miei compagni di studio procedevano in siffatta maniera, perché ogni cervello ha la sua struttura e funziona a modo suo, quindi ero consapevole che il mio non è l'unico sistema valido) "ma davvero non mi spiego come possa essere difficile copiare una cronologia già pronta, scodellata, condita e pure infiocchettata".
Mi guardarono un po' spersi. "Mah" azzardò una "Sembrava brutto... era come... non so, come copiare".
"Ma qualsiasi sintesi presa da un manuale sarà pur sempre copiata" ribattei "In fondo lavorate sempre su dati raccolti da altri, giusto? Voi dovete solo organizzarli".

Alla fine dovetti arrendermi all'evidenza: avevano cercato di estrarre le date dal testo del capitolo perché non avevano preso in considerazione la cronologia iniziale, né si erano soffermati a considerare che se gli autori avevano scritto quelle date in colori diversi forse non l'avevano fatto soltanto per dare un tocco di cromatismo agli eventi elencati. Le due stelle della classe avevano azzeccato la cronologia solo perché ormai conoscevano la rivoluzione francese per diritto e per rovescio e quindi sapevano già in partenza cosa metterci. Gli altri, che avevano studiato in modo più meccanico, sapevano sì farmi una decorosa interrogazione, ma non avevano affatto chiaro quali avvenimenti fossero davvero importanti o segnassero comunque uno spartiacque rispetto a quel che era successo prima. E quasi nessuno sembrava consapevole che una cronologia richiede prima di tutto un ordine cronologico. Erano tutti (quasi tutti: Irminsul no) disponibili a ripetermi in modo corretto un po' di pagine e a studiare regolarmente il po' di pagine che gli assegnavo due volte a settimana, ma sembravano del tutto ignari del fatto che, tra le informazioni contenute in quelle pagine, alcune fossero più importanti di altre.

Da allora sono passati molti anni, e ho imparato a insistere sulle cronologie e le gerarchie degli avvenimenti, con alterni risultati.
Quest'anno ho una prima piuttosto effervescente ma che ama molto la storia. Qualcuno sa già esporla bene, qualcuno ancora no ma ci prova. Così a fine quadrimestre gli ho dato una verifica scritta truccata verso l'alto: dodici semplici domande a risposta chiusa. Mezzo punto tolto per ogni errore, ma con 10 come voto più alto. Davo sicura almeno la sufficienza per tutti (esclusa la Poverella, che comunque mi ha azzeccato ben tre risposte) ma contavo soprattutto su una pioggia di nove e dieci (che in effetti c'è stata). Ho scelto con cura domande molto semplici. Solo correggendo mi sono accorta che un paio proprio tanto semplici in realtà non erano.

"Durante la dominazione longobarda il commercio
- fiorì e aumentò molto
- rimase com'era, né meglio né peggio
- si ridusse a poco più degli scambi in natura".
D'accordo, è vero che avevo un po' insistito sul fatto che i Longobardi quasi non coniarono monete, e quando le coniarono si limitarono spesso a copiare monete che già esistevano, e usavano le monete come ciondoli ornamentali e poco più. Ma in un mondo come quello in cui viviamo, dove il baratto si fa soltanto per le figurine, è un concetto così facile da assimilare per un fanciulletto? No, e infatti qualcuno ha scritto che il commercio fiorì. Potevo trovare qualcosa di meglio come domanda facile, ammettiamolo.

"Chi fu l'autore della Storia dei Longobardi?
- Alcuino
- Paolo Diacono
- Desiderio".
Era facile per me, che ho una laurea in Storia della Letteratura Latina Medievale, ma per loro, che sul manuale trovano un accenno a Paolo Diacono sepolto in mezzo a un sacco di notizie più appariscenti forse non era così facile; e infatti molti hanno risposto a caso o non hanno risposto affatto, anche se invece qualcuno mi ha poi spiegato "Ma certo, Paolo Diacono era l'unico scrittore longobardo citato, quindi rimane in mente" mentre un gruppetto assentiva convinto. 

Le altre domande però erano piuttosto ragionevoli, ed ero anzi molto fiera di quella sulla nascita del Sacro Romano Impero - di cui più volte avevo ribadito che era una bella data rotonda e si ricordava a meraviglia: la notte di Natale dell'800, quando Carlo Magno venne incoronato imperatore.
"Quando nasce il Sacro Romano Impero?
- La notte di Natale dell'800
- il 25 marzo 732
- il 14 ottobre 1089".
Si sa che nel 732 c'era stata la battaglia di Poitiers, e che nel 1089 saranno forse successe un sacco di cose importantissime, ma noi siamo ancora ai primi dell'800 quindi non ci riguarda.
E infatti in parecchi hanno indicato il 1089, salvo poi cospargersi il capo di cenere e darsi di cretini.

(Nel caso che qualcuno si stia domandando se mi è mai successo di dare volutamente un compito difficile che veniva poi svolto nel migliore dei modi, la risposta, naturalmente, è .
Dopotutto, facile e difficile sono concetti molto relativi. E il nostro è un lavoro sempre ricco di sorprese).

martedì 10 febbraio 2015

IO DICO NO AL CAPTCHA 2015


Arrivo. Un po' in ritardo ma arrivo.
Del resto, è stato detto di me, non a torto, e non soltanto una volta, che sono di quelli che riuscirebbero ad arrivare in  ritardo anche al proprio funerale. 
Ma dunque: 

Si è aperta questo Lunedì la tradizionale
nata allo scopo di debellare questi antipatici animaletti che proliferano per i blog impedendoci di comunicare liberamente tra noi ma obbligandoci invece a consumarci gli occhi per identificare improbabili vocali e consonanti ubriache e numeri più o meno alterati da digitare in apposita casella per "dimostrare di non essere un robot".

Per brevissimo tempo una di queste bestioline ha imperversato anche sul mio blog, ma del tutto contro la mia volontà. Poi Blogspot si è dato una regolata e adesso chi mi visita e vuole lasciare un commento ma è anonimo (e il perché saranno affari suoi, io non ho niente contro gli Anonimi, indipendentemente dal fatto che desiderino o meno lasciare messaggi sul mio blog) deve solo autocertificare di non essere un robot. Che comunque io non ho niente nemmeno contro i robot, come ho già scritto a suo tempo.

Ringrazio quindi l'Alligatore per questa eccellente iniziativa cui sono onorata di partecipare e ne approfitto per ricordare uno dei robot più celebri e apprezzati nella nostra cultura, ovvero l'ottimo C1P8 (R2D2 in originale) che tanto valido aiuto ha prestato ai ribelli nella saga di Guerre Stellari:


con la speranza che anche lo stupido e discriminante invito a dimostrare di non essere un robot sparisca al più presto dalla mia rispettabile pagina dei commenti.

venerdì 6 febbraio 2015

Il cuore delle cose - Natsume Soseki


Ho scelto questa copertina perché secondo me è quella che si adatta meglio al romanzo, ma al momento questa edizione con questo titolo in libreria non si trova. Il romanzo ha infatti avuto in Italia una vita editoriale piuttosto variegata e l'hanno stampato in parecchi. Attualmente si trova col titolo Anima e cuore per la Youcanprint Self-Publishing, ma suo tempo è apparso anche col titolo Anima, e non ho la benché minima idea di quale dei tre titoli sia il più fedele, ma dovrebbe comunque essere facilmente reperibile in bilbioteca. Il titolo originale è Kokoro e l'autore, vivaddio, risulta sempre Natsume Soseki.
In Giappone venne pubblicato per la prima volta nel 1914 ed è un classico tra i classici - a buon diritto, nonostante le deliranti descrizioni nei risvolti di copertina che farebbero scappare a gambe levate qualsiasi lettore ben intenzionato.
Non è un romanzo dall'azione travolgente, questo no, e ci sono un sacco di riflessioni interiori, ma NON è una terrificante raccolta di seghe mentali meditative come sembrerebbe dalle descrizioni di cui sopra. La storia c'è, e non ci si gira nemmeno troppo intorno; anche se è raccontata, ovviamente, à la japonaise (cioè in modo piacevolissimo).

Siamo agli inizi del XX secolo, in Giappone, in quel tempo in cui il paese improvvisamente si modernizza - gli stessi anni del manga Mademoiselle Anne o, se vogliamo la traduzione più filologica, Una ragazza alla moda. Per i giapponesi cambiano i riferimenti e il modo di pensare, oltre alla vita quotidiana. 
I due protagonisti della storia (o almeno di una delle storie) sono per l'appunto un giovane al passaggio tra la fine degli studi e l'inizio della vita adulta - periodo segnato, a un certo punto, anche dalla malattia di suo padre - e un uomo adulto, della generazione precedente, che nel mondo moderno si ritrova con una certa difficoltà, tanto da viverne ritirato il più possibile.
Il Maestro - così viene sempre definito dal ragazzo, sin dalla prima pagina - è un uomo con un fascino particolare ma avvolto in una sottile ma impenetrabile scorza di mistero, che vive decorosamente con una piccola rendita e conduce una tranquillissima vita ritirata, senza interferire in alcun modo col mondo esterno, insieme all'amata consorte. Si lascia però vincere senza troppe resistenze dal corteggiamento del ragazzo, che finisce per frequentare casa sua come uno di famiglia e diventa anche il confidente della moglie - perché nemmeno la moglie, una donna buona, serena ed equilibrata (ma non moderna) è mai riuscita a penetrare la scorza di mistero che avvolge il suo consorte, tanto da non essere davvero convinta della felicità del loro matrimonio anche se non sa dare un vero nome a quell'inafferrabile senso di distanza che la separa da lui.
Il segreto - perché un segreto c'è - è nascosto nei primi anni di vita del Maestro, tra le ombre di una colpa - perché c'è sempre una colpa, in questi casi, ma a volte è davvero difficile capire dove comincia esattamente, e come e se si poteva evitare.

Il romanzo, splendidamente scritto e mirabilmente strutturato, è bello dall'inizio alla fine.
Consigliato per tutte le stagioni (ma i romanzi giapponesi secondo me vanno meglio per le stagioni di passaggio) e per tutte le età sopra i venti anni.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma, e auguro felici letture al caldo, sotto le trapunte imbottite (visto che in Italia scarseggiano i kotatsu) mangiando mandarini e ammirando la luce diffusa dalla neve - che ci annunciano abbondantissima per questo fine settimana - anche se qui, a Firenze, pare che non ne vedremo nemmeno l'ombra.


(un kotatsu in stile Ikea: caldo, comodoso e perfetto per pigreggiare pigramente)

lunedì 2 febbraio 2015

L'economia tra la prima e la seconda guerra mondiale


In diretta dal mio portfolio SSIS ecco il modulo sull'economia nel mondo tra la prima e la seconda guerra mondiale (quella dove i tutor speravano di vedermi scardinare l'impianto cronologico nell'insegnamento della storia). I manuali di cui si parla sono, naturalmente, quelli delle medie - immagino che quelli delle superiori spieghino le cose molto meglio.
La bibliografia è vecchia di una decina d'anni.

“Globalizzazione” e “industria” sono parole che vengono associate in modo naturale all’economia: è attraverso gli scambi economici infatti che, sin dai tempi più lontani, i popoli sono entrati in contatto e da sempre, quando questi scambi raggiungono una certa entità, tra le comunità che li praticano si instaura un rapporto di dipendenza reciproca. 
Questo fenomeno si è particolarmente accentuato negli ultimi due secoli, nel corso dei quali l’intero pianeta, sin nelle aree più deserte ed isolate, si è ritrovato volente o nolente a far parte del medesimo organismo. Succede così che il dissesto delle finanze dell’Argentina diventi un problema serio per l’economia italiana, o  che l’eventuale riarmo di un paese asiatico rischi di danneggiare seriamente le relazioni tra Stati Uniti ed Unione Europea.  

Il periodo tra le due guerre mondiali è senz’altro uno degli snodi che meglio si presta ad evidenziare connessioni di questo tipo.
Si tratta anche di uno dei temi più delicati del programma di terza media: la formula magica che recita “la seconda guerra mondiale fu la conseguenza della prima” fa parte di quelle verità universalmente accettate che, decennio dopo decennio, tutti gli insegnanti e tutti i manuali ripetono regolarmente. Tuttavia sia i manuali che gli insegnanti finiscono spesso per sorvolare o descrivere in modo molto approssimativo alcuni degli anelli economici che forgiarono buona parte della micidiale catena che portò dal primo massacro su scala internazionale al secondo, ricorrendo spesso a formule vaghe destinate a lasciare negli allievi una serie di domande irrisolte.

Qualche esempio:

- tutti i manuali, per spiegare l’ascesa del nazismo in Germania, si soffermano a descrivere il disastroso stato dell’economia tedesca dopo la fine del primo conflitto mondiale, affastellando  debiti di guerra, limitazioni territoriali e militari e la terribile inflazione della repubblica di Weimar con la disoccupazione crescente e i conflitti sociali dei primi anni 30: quella che si affida a Hitler è dunque una nazione ridotta allo stremo. Eppure  sei anni dopo l’ascesa dei nazisti al potere la Germania era uno stato prospero, ben organizzato e armato sino ai denti, che minacciava sfracelli (che poi mantenne) e teneva in scacco l’intera Europa. Come sia stato possibile questo miracolo viene spiegato sempre in modo molto vago, quando pure si tenta una spiegazione.

- nel 1929 gli Stati Uniti furono colpiti da una terribile crisi economica. Da qualche tempo nei manuali viene almeno indicata una causa (il problema della sovrapproduzione delle industrie statunitensi) ma raramente si accenna al fatto che questa crisi ebbe qualche ripercussione anche in Europa (e non solo in Europa: ma il resto del mondo viene regolarmente dimenticato). Si sa poi che da questa crisi gli americani uscirono grazie al New Deal, qualche anno dopo. Di solito ci si ricorda anche di aggiungere che in realtà il New Deal ebbe effetti molto temporanei. Come si spiega che, durante la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti portarono nel conflitto la forza e le risorse apparentemente infinite di un’economia florida, e addirittura, una volta terminata la guerra, poterono permettersi di foraggiare la ricostruzione del mezzo pianeta che avevano attivamente contribuito a distruggere?

Naturalmente una risposta sicura a queste domande non c’è. E’ possibile però cercare di riempire almeno parzialmente alcune delle zone che i manuali finiscono per lasciare in bianco. Questa operazione non solo permette di seguire meglio il complicato evolversi dell’economia internazionale nel periodo tra le due guerre mondiali, ma chiarisce anche alcuni degli sviluppi che si verificheranno nei decenni successivi. Inoltre, buona parte dei contenuti del modulo torneranno utili agli allievi anche nello svolgimento del programma di geografia.

Nella programmazione il modulo si inserisce dopo la conclusione della prima guerra mondiale e prima dell’unità dedicata all’insorgere dei regimi totalitaristi, sovrapponendosi in parte all’unità dedicata alla crisi americana del 1929.
Le lezioni sono frontali e interattive; è consigliabile lasciare un buon margine di tempo per rispondere alle domande degli allievi, che in molti casi sconfineranno dall’argomento specifico dell’unità verso altri argomenti storici (a volte di storia contemporanea) e geografici, con apparente dispendio di tempo e rischio di divagazioni che tuttavia non vanno scoraggiate, perché forniscono una serie di agganci con il programma successivo di storia, di geografia e con l’immediata attualità. Inoltre alcuni degli argomenti si presentano piuttosto complessi ed è importante dare ai ragazzi il tempo e la possibilità di assimilarli. 

Una precisazione: è stata praticamente ignorata l’esistenza dell’U.R.S.S. Il motivo principale, naturalmente, è che per l’appunto nel periodo considerato l’U.R.S.S. aveva praticamente tagliato i ponti con il resto del mondo ed era esattamente il contrario di uno stato (o meglio, di un’Unione di Repubbliche) “globalizzato”. Occorre poi considerare che la storia dell’U.R.S.S. è ancora in buona parte da scrivere, o meglio da riscrivere. Nell’attesa, tanto vale attenersi a quel poco che i manuali ripetono da qualche decennio, avvertendo gli allievi che si tratta di notizie che con buona probabilità necessiteranno di qualche aggiustamento in futuro.

DATI DEL MODULO

TITOLO: GLOBALIZZAZIONE DELL’ECONOMIA TRA LE DUE GUERRE MONDIALI
DURATA:  5 ore (UD1: 3 ore; UD2: 2 ore)
CLASSE: III media, livello medio-alto
PREREQUISITI
- Conoscenza del programma di storia di III media fino al trattato di 
  Versailles compreso
- Conoscenza (acquisita nei due anni precedenti) del  rapporto tra moneta in metallo, 
  carta moneta e titoli di pagamento
- Conoscenza del significato di alcuni termini economici (inflazione, deflazione, 
  svalutazione, economia protezionistica, dazi etc.)
OBIETTIVI FORMATIVI
- Riuscire ad orizzontarsi in un articolo di giornale
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO:
- Migliorare la comprensione della storia moderna e contemporanea, in 
particolar modo per le tematiche legate ai Paesi in via di sviluppo  
STRUMENTI:   
carta, penna, fotocopie, manuale, lavagna
METODOLOGIE
lezione frontale, lezione interattiva

Unita’  didattica  I  
LA SITUAZIONE ECONOMICA Dopo la prima guerra mondiale

Per molti paesi extraeuropei - stiamo parlando di entrambe le Americhe, di buona parte dell’Asia e di alcune zone dell’Africa - la prima guerra mondiale era stata un buon affare. La necessità di colmare i vuoti causati dalla ridotta produttività europea e di rifornire gli eserciti al fronte aveva portato  a un’espansione, più o meno marcata, sia nell’esportazione delle materie prime che nella produzione industriale.
Parte di questa espansione internazionale naturalmente era un fuoco di paglia, che si ridimensionò quando la produttività europea tornò a crescere. Ma per l’appunto questa parte del processo fu abbastanza lenta, perché i singoli stati europei incontrarono grosse difficoltà per tornare ai livelli raggiunti prima della guerra, quando pure ci riuscirono. In pratica, c’era stata una redistribuzione del potere economico, e questa redistribuzione si mostrò piuttosto stabile (1) .
Per l’Europa infatti la prima guerra mondiale non fu una parentesi, conclusa la quale bastava riprendere le cose al punto in cui erano state interrotte; nonostante molti dei governi sembrassero convinti del contrario e si ostinassero a gestire il dopoguerra con gli stessi strumenti che si erano dimostrati tanto efficaci nel lungo periodo di pace che aveva preceduto il 1914 (2), le cose erano cambiate, e molto.

Prima di tutto, lo stato più grande del continente, la Russia, aveva bruscamente cambiato governo, struttura e gestione economica. Per la prima volta la minaccia comunista non era più uno spettro minaccioso che si aggirava per l’Europa, ma una realtà concreta a pochi chilometri da casa che rischiava di infettare l’intero continente. Il fatto che la Russia, una volta conclusa una pace separata nel 1917, rimanesse tranquilla nel suo vastissimo angolino, molto più interessata a gestire il suo proletariato che a coinvolgere il proletariato altrui, non toglieva nulla alla minacciosa possibilità che da un momento all’altro la fiammata rivoluzionaria si propagasse come il fuoco in un pagliaio.

In secondo luogo, l’Europa era diventata molto più povera.
La guerra era costata terribilmente cara in termini di armamenti, e infatti molti degli stati vincitori, soprattutto Francia e Gran Bretagna, erano stati costretti a contrarre forti debiti con gli Stati Uniti per finanziarla. Il danno più grave, tuttavia, era la devastazione che la guerra aveva inflitto al continente. In molte regioni, soprattutto nell’Europa orientale, edifici, fabbriche, coltivazioni, infrastrutture erano state distrutte o gravemente danneggiate. Alcune zone (soprattutto, di nuovo, nell’Europa orientale) erano ad alto rischio di carestia e solo il massiccio arrivo di prestiti, dei doni e soprattutto dei cereali americani fermò la carestia che incombeva.

Alcuni stati avevano perso gran parte del loro patrimonio all’estero. In qualche caso, ad esempio la Germania, questo patrimonio era stato requisito e spartito dai vincitori, colonie comprese; in altri casi, ad esempio la Francia, il patrimonio era stato ingoiato nelle fauci della rivoluzione russa.
Molti stati erano appena nati, e poveri in canna: la spartizione dell’impero austro-ungarico (che come abbiamo visto era stato grandemente devastato dalla guerra, e dove la popolazione aveva assai sofferto) venne fatta senza tener conto dei criteri economici né   di quelli etnici; in effetti la redistribuzione territoriale non poteva essere considerata valida da nessun punto di vista, tanto meno quello economico, e creò più problemi di quanti ne risolvesse. Questo portò alla disgregazione dei precedenti legami commerciali e creò anche seri problemi per le vie di comunicazione: ad esempio la Jugoslavia, una federazione nata dal raggruppamento disorganico di precedenti entità territoriali, ereditò cinque diversi sistemi ferroviari con quattro scartamenti differenti, praticamente senza connessioni, e passò più di un decennio prima che questi tronconi fossero collegati tra loro. Difficoltà analoghe ebbe la Polonia, che dovette cimentarsi nella difficile impresa di tenere uniti tre frammenti provenienti da tre dominazioni diverse, e senza confini naturali. 
Settori industriali dipendenti tra loro vennero smembrati; ad esempio nell’industria tessile austriaca i fusi (cioè i filatoi) erano in Boemia e Moravia, mentre i telai (ovvero la produzione dei tessuti) stavano a Vienna. L’Ungheria mantenne molti dei suoi stabilimenti industriali (numerosi e di buon livello) ma perse la maggior parte dello stagno e dei giacimenti di ferro, sale, rame, minerali non ferrosi e dell’energia idraulica (3). La stessa Austria ebbe molto da lamentarsi di questa ristrutturazione, ritrovandosi un territorio mutilato e una capitale del tutto sproporzionata alle sue esigenze, con un’apparato burocratico di dimensioni elefantiache e molto scontento nella popolazione a tutti i livelli. Unica eccezione in tanta miseria, la Cecoslovacchia godeva di una discreta situazione economica e produttiva, che mantenne per tutto il primo dopoguerra e che ne faceva un’isola felice in quella zona nonostante qualche difficoltà di integrazione tra area ceca e area slovacca.

L’Europa, come abbiamo detto, era uscita dalla Grande Guerra molto più povera di come vi era entrata; tuttavia i governanti erano assolutamente convinti di dover riprendere da dove si erano interrotti nel 1914. Cercarono insomma di gestire il dopoguerra come se fosse un ritorno ai vecchi tempi, senza rendersi conto per molto tempo che le cose erano invece profondamente cambiate e finendo perciò per adottare, soprattutto in campo economico, politiche che si rivelarono inadeguate.

Per finanziare la guerra i governi avevano abbandonato le virtuose politiche finanziarie dell’800 (compreso il gold standard) e invece di aumentare le tasse erano ricorsi ai prestiti internazionali. Questi prestiti, a loro volta, non erano finanziati da autentico risparmio, ma dal credito bancario. Per raccogliere le cifre necessarie le banche crearono nuova moneta, solitamente basandosi sulle “promesse di pagamento” dei governi e usandole come riserve - trattandole, in pratica, come se fossero lingotti d’oro. Di conseguenza aumentarono i debiti pubblici dei singoli paesi, e anche gli interessi da pagare a breve termine - e soprattutto aumentò l’inflazione e si deprezzarono le monete. Particolarmente nera sotto questo aspetto era la situazione della Germania e dei paesi che avevano fatto parte dell’impero austro-ungarico, dove, al termine del conflitto, la moneta aveva perso metà del valore iniziale. L’inflazione continuò nonostante, a partire dal 1920, i governi avessero imposto politiche monetarie molto restrittive (particolarmente in Germania, Austria, Polonia e Ungheria) (4) .

Siccome tutti in Europa erano più poveri, c’era il problema della scarsità di risorse. “Per fare dell’oro occorre averne”, ricorda un celebre personaggio di Tolkien; ma, soprattutto nei paesi dell’Europa centro-orientale, i governi non erano in grado di raccogliere sufficienti capitali all’interno, né di procurarsi valuta straniera (“pregiata”, come si usa dire) per comprarne. Una volta esaurite le elemosine dell’immediato dopoguerra, il rubinetto degli investitori esteri si era chiuso: quei territori non davano sufficiente affidabilità politica da incoraggiare gli investitori. Restavano i prestiti a breve termine, e qualche finanziamento della Società delle Nazioni, più altri rimedi da poveri, come l’inflazione e la svalutazione  - provvedimenti che avevano però l’inquietante tendenza a sfuggire di mano ai governanti, come infatti fecero. 

Come abbiamo detto, le monete europee avevano perso parte del loro valore per colpa delle spese che la guerra aveva portato con sé. Ne conseguì un periodo di instabilità monetaria; la situazione non venne migliorata dall’atteggiamento dei governi, che si rifiutavano di accettare il declino del valore delle singole valute e continuarono per molto tempo a considerare solo temporaneo l’abbandono del gold standard, su cui era basato gran parte dell’ordine monetario d’anteguerra e del lungo periodo di stabilità che aveva chiuso il secolo XIX.
La situazione naturalmente non era la stessa per tutti i paesi: Gran Bretagna, Svizzera, Olanda, Danimarca, Svezia e Norvegia si ricollocarono presto sulla parità prebellica, ed evitarono così i problemi legati all’inflazione; altri paesi si fermarono ad una parità molto inferiore a quella di prima della guerra: Francia al 20%, Italia al 25% (ma era una sopravvalutazione della lira che gli italiani pagarono cara), Cecoslovacchia 14,3%, Romania 3,7% - tanto per fare qualche esempio; ci furono poi cinque paesi che dovettero addirittura introdurre nuove unità monetarie, perché le vecchie erano state completamente deprezzate dalla violenza dell'inflazione - e si tratta di Germania, Austria, Polonia, Ungheria e Russia.

Alla base del gold standard c’era il principio in base al quale le riserve in oro di un paese dovevano essere sufficienti a garantire il valore della moneta in circolazione; le banconote equivalevano dunque a dei “pagherò” riscuotibili in qualsiasi momento.
Quello che venne ripristinato dopo la guerra però non era un gold standard pieno: le monete d’oro erano ormai scomparse dalla circolazione, e solo per pochi paesi valeva la vecchia regola della custodia di riserve auree di valore equivalente alla moneta presente sul mercato. 
Venne per lo più adottato invece un ibrido, il gold exchange standard, in base al quale le riserve necessarie potevano essere anche (del tutto o in parte) in moneta estera - per lo più sterline e dollari; la moneta risultava così ancorata ad un paese che praticava il gold standard. In pratica la banca centrale di un paese aveva l’obbligo di mantenere il valore della moneta nazionale sulla parità con moneta straniera ancorata all’oro, acquistando e vendendo valuta estera alla parità aurea.  La cosa esisteva già da prima della Grande Guerra, ma cambiarono le proporzioni: nel 1913 la valuta straniera di 24 banche europee era  il 12% dell’ammontare, mentre nel 1927 la percentuale era il 42% di  riserve, costituite per lo più da titoli a breve termine emessi nelle valute “pregiate”. 
Questo sistema (che comunque all’inizio venne considerato un espediente destinato ad una breve durata) era instabile perché i fondi  si spostavano facilmente a seconda degli umori del mercato, e  soprattutto, davanti a una richiesta generale di conversione con breve preavviso di questi titoli, avrebbe collassato; inoltre la  pressione sui centri produttori delle monete “pregiate” (Londra e New York) era troppo forte, e li costringeva a tenere riserve auree maggiori degli altri paesi per essere in grado di far fronte alle richieste di liquidazione delle loro valute. Tenere grosse riserve auree non era un gran problema per New York, perché il dollaro era effettivamente una valuta forte; ma la sterlina, che prima della guerra lo era quasi altrettanto, adesso si era molto indebolita e le sue riserve auree erano di gran lunga inferiori alle passività (cioè alle sue monete conservate all’estero). Anzi, la sua relativa debolezza (5)  fu proprio uno dei fattori che fece collassare l’intero sistema del gold standard nei primi anni Trenta. 
Inoltre i cambi erano spesso influenzati da speculazioni e considerazioni politiche e quindi  avvenivano spesso con una parità artificiosa - in pratica, alcune valute si trovavano sopravvalutate, altre sottovalutate (6). Infine la rigidità del sistema rendeva molto difficili e dolorosi gli aggiustamenti, limitando gli spazi di manovra monetaria dei governi.
Oggi viene generalmente ritenuto che il gold exchange standard sia stato tra i fattori che hanno reso così difficile la ripresa dopo la crisi americana del 1929; tuttavia non c’è dubbio che funzionò male non tanto per suoi demeriti intrinseci, quanto perché adoperato in un quadro economico troppo debole per sostenerlo (7) .

Altro fattore di debolezza era, per i paesi che avevano perso la guerra, la spinosa questione delle Riparazioni, ovvero i danni arrecati alle potenze vincitrice che andavano rimborsati dagli sconfitti e il cui peso maggiore andò a ricadere sulla non più prospera Germania (8)
Nel 1921 la Commissione per le Riparazioni stabilì l’importo dei  debiti tedeschi, ovvero 33 miliardi di dollari, da restituirsi a vari paesi europei.
Francia e Gran Bretagna (e altri paesi) dovevano riscuotere le riparazioni dalla Germania, ma anche pagare i debiti contratti con gli Stati Uniti per finanziare la guerra. I creditori europei cercarono perciò di convincere i loro creditori statunitensi a riscuotere le loro spettanze direttamente dalla Germania. Secondo questa proposta, i soldi sarebbero direttamente passati dalle casse tedesche a quelle statunitensi pur trasformandosi durante il viaggio da riparazioni (dalla Germania verso Francia e Inghilterra) a restituzioni (da Francia e Inghilterra verso gli Stati Uniti). In questo modo Francia e Gran Bretagna avrebbero rimborsato gli Stati Uniti solo via via che venivano a loro volta risarciti. 
La proposta, comprensibilmente, non incontrò l’approvazione degli Stati Uniti che nutrivano forti (e fondatissimi) dubbi sulla solvibilità della Germania. 
Lo sforzo cui venne costretta la precaria e dissestata economia tedesca per pagare le Riparazioni al ritmo assurdo imposto inizialmente dagli Alleati  trasformò la già fiorente inflazione del marco, che aveva subito una discreta accelerata a partire dal 1920 nella celeberrima iperinflazione del 1922-23, sulla quale ogni manuale di storia ha la sua galleria di aneddoti.
L’iperinflazione non incise sulla portata dei debiti internazionali, che erano e restavano in dollari (qualsiasi fantastiliardo di marchi ci volesse nel 1923 per comprare un dollaro), ma diminuì molto la quantità di capitali in circolazione in Germania. La produttività sprofondò e molti imperi finanziari tedeschi già traballanti ricevettero così il colpo di grazia. 
Qualche storico ha avanzato l’ipotesi che la stessa Germania abbia provocato e pompato la crisi inflazionistica per dimostrare al mondo che non era in grado di pagare le riparazioni di guerra. Se davvero quello era lo scopo, va senz’altro riconosciuto che la dimostrazione riuscì bene - tanto bene che nel settembre 1923 il vecchio marco dovette essere abbandonato e sostituito da una nuova moneta, il Rentenmark.

Infine la Commissione per le Riparazioni riesaminò la posizione della Germania, decidendo di estendere il periodo di pagamento, frazionando la cifra (che non venne però ridotta) in rate più realistiche (9) .
La nuova periodizzazione del pagamento sembrò funzionare, e la Germania pagò in apparenza senza difficoltà... grazie ai prestiti internazionali. 
Nel periodo 1924-1930 infatti il paese prese in prestito l’equivalente di 28 miliardi di marchi, 10,3 dei quali vennero usati per pagare le rate delle riparazioni di guerra. In altre parole, i pagamenti per le riparazioni erano coperti da importazioni di capitali più che doppie, in prestiti per lo più a breve termine (10) . 

Durante la prima guerra mondiale la produzione interna europea era drasticamente calata (11), e faticò molto per tornare ai livelli del 1914. L’espansione economica che caratterizzò i primi anni Venti per poi rallentare in molti paesi nella seconda metà del decennio,  anche dove la situazione sembrava più stabile, celava sempre una instabilità economica e politica di fondo e in molti casi era pesantemente condizionata (oggi si direbbe drogata) dai capitali  presi in prestito che,  insieme ai provvedimenti economici piuttosto dilettanteschi presi dai governi, attenuarono nel breve periodo i problemi legati  alla disorganizzazione monetaria e alla disoccupazione. Infine, occorre considerare che, se è vero che quasi dappertutto in Europa ci fu un certo progresso, spesso si partiva dai livelli molto bassi causati dalle devastazioni inflitte dalla guerra.  
Con i nuovi capitali la Germania ringiovanì macchinari, impianti e tecniche di produzione, avviando ad esempio estesi programmi di razionalizzazione e meccanizzazione in settori chiave quali carbone, ferro, acciaio, industrie chimiche ed elettriche, che portarono all’elaborazione di tecniche produttive molto avanzate. Una buona parte della cifra servì anche a finanziare importazioni che facevano aumentare il tenore di vita.
Tra 1925 e 1929 l’economia tedesca recuperò il terreno perduto e ritornò finalmente ai livelli prebellici - e proprio a quel punto l’afflusso di capitali esteri che ne formava la spina dorsale, improvvisamente si prosciugò. 

UNITA’ DIDATTICA  2
A - La crisi americana del 1929  e le sue  conseguenze  internazionali

“Alla prima guerra mondiale seguì il crollo economico che ebbe davvero estensione mondiale, perché riguardò tutti quegli uomini e quelle donne la cui esistenza era impigliata in qualche modo nei meccanismi impersonali del mercato capitalistico. Infatti proprio gli USA, così fieri di se stessi, lungi dall’essere un porto sicuro, al riparo delle tempeste economiche che sconvolgevano continenti meno fortunati, divennero l’epicentro di quello che fu il più grande terremoto mondiale che sia mai stato misurato sulla scala Richter dagli storici dell’economia (12)

Sono passati tre quarti di secolo dal celebre crollo della borsa di Wall Street, ma a tutt’oggi la Crisi del 1929 rimane un fenomeno largamente discusso tra gli studiosi e solo in parte compreso.
Primo motivo di discussione naturalmente sono le cause. La maggior parte degli studiosi concorda nel ritenere che le cause siano da ricercarsi negli Stati Uniti, ma alcuni ritengono che si tratti di un fenomeno scatenato soprattutto da fattori esterni (13)
Quello su cui gli storici tendono a concordare è che i problemi dell’economia americana non cominciarono con il celebre Venerdì Nero del 24 ottobre 1929, quando l’indice della borsa di Wall Street crollò a picco con ribassi di oltre il 50% dei singoli titoli. 

In realtà la scintillante espansione economica degli USA negli anni Venti (chiamati anche “gli Anni Ruggenti”) aveva le sue zone d’ombra. L’agricoltura era in difficoltà: c’era un eccesso di produttività che portava alla spontanea diminuzione dei prezzi. I salari erano stagnanti, ovvero in ritardo sulla crescita economica, il che portò ad una crescita esponenziale dei profitti per i più ricchi (imprenditori, industriali, finanzieri). Questo contribuiva a far sì che il mercato non fosse in grado di assorbire la produzione industriale in continua crescita (14)
Dunque c’era un problema di sovrapproduzione, e un eccesso di profitti da reinvestire (che spiega almeno in parte la grande disponibilità degli Stati Uniti ad elargire prestiti alla disastrata Europa dove la ripresa era ben più incerta e stentata). Ma c’era un terzo fattore da considerare: l’espansione della domanda (in ritardo sulla disponibilità del mercato) era stata alimentata attraverso un allargamento del credito ai consumatori. 
Questa espansione del credito rese l’economia statunitense vulnerabile a tutti i livelli, a partire dall’impiegato che voleva cambiare macchina o casa e si era impegnato versando una quota minima del valore dell’acquisto, fino alle banche che fallirono a migliaia (15)

Nel 1928 la quota di denaro statunitense riservata ai prestiti internazionali calò bruscamente, e senza preavviso. Gli investitori avevano scoperto un nuovo giocattolo con cui giocare: il mercato azionario, che venne investito da una violenta febbre speculativa. Gli investitori acquistavano per rivendere a breve termine, e la maggior parte degli acquisti veniva fatta a credito. Il valore dei titoli saliva artificiosamente, senza più rapporto con il reale valore economico delle azioni o dell’azienda che le emetteva. Era insomma iniziata una mania:

“Il fatto fondamentale è che a un certo punto interviene un fattore che cambia le prospettive economiche. Ci si getta a capofitto nelle nuove opportunità di guadagno in modo così strettamente prossimo all’irrazionalità da potersi considerare maniacale. Una volta che viene compreso il carattere eccessivo della fase ascendente, il sistema finanziario attraversa una sorta di ‘angoscia’, durante la quale la corsa a invertire il processo di espansione può diventare così precipitoso da somigliare al panico. Nella fase maniacale le persone ricche o che godono di credito si disfano della moneta o contraggono prestiti per acquistare attività reali o finanziarie non liquide. Nei momenti di panico avviene il movimento inverso, dalle attività reali o finanziarie verso la moneta o la restituzione dei debiti, con il conseguente crollo dei prezzi delle merci, delle case, dei fabbricati, dei terreni, delle azioni, dei titoli e, in breve, di qualsiasi cosa sia stata fatta oggetto di mania” (16).  

Quando la bolla speculativa scoppiò, si innestò un effetto domino (17)  che travolse prima il mercato azionario, poi le banche, poi le ditte collegate al mercato azionario, che chiusero licenziando i loro dipendenti. Nel giro di pochi mesi, milioni di disoccupati (senza ammortizzatori sociali, ricordiamolo) si ritrovarono a dormire agli alberghi dei poveri, e in coda per i piatti di minestra calda distribuiti dalla pubblica carità (18).

L’effetto domino non si limitò agli Stati Uniti, ma travolse anche il resto del mondo, con conseguenze vaste quanto imprevedibili.
In Europa e nell’America Latina i problemi erano arrivati addirittura prima del crollo di Wall Street: i prestiti internazionali elargiti  con tanta larghezza dagli Stati Uniti si erano rivelati infatti un’arma a doppio taglio, soprattutto nei paesi europei e latino-americani dove erano stati impiegati improduttivamente e non riuscivano ad assicurare introiti bastanti a rifondere capitale e interessi; questo rendeva dunque necessari altri prestiti, complicando sempre più la situazione. Gli Stati Uniti, per inesperienza o per eccessivo amore del rischio, non riuscirono a discriminare cause e destinatari dei loro prestiti, con il risultato di finire per incoraggiare manovre discutibili e avventurose. Quando il flusso di questi prestiti si ridusse drasticamente, nel 1928, le conseguenze furono drammatiche per alcuni stati che proprio attraverso questi prestiti sopravvivevano (Germania, Austria, Australia, Uruguay, Brasile e Argentina) e che passarono dunque all’indebitamento a breve termine (19) . 
Nel 1930-31 l’accresciuta domanda di liquidità da parte dei creditori esteri provocò in tutta l’Europa una serie di fallimenti a catena nelle banche, in quel momento più vulnerabili perché molto esposte verso le industrie depresse (20).

Nell’Europa orientale, cioè nelle zone che la guerra aveva lasciato più deboli, la congiuntura economica positiva degli anni Venti non aveva portato grandi progressi, proprio perché quella zona mancava delle basi indispensabili per costruire un’economia solida; in pratica: erano troppo poveri per approfittarne in modo duraturo (21).
Negli anni Trenta, quando arrivò la crisi e i prezzi dei prodotti primari (ovvero la principale risorsa per le loro esportazioni) calarono bruscamente, la situazione peggiorò di molto. Davanti al calo dei prezzi, gli agricoltori cercarono di rimediare aumentando il raccolto, mentre ovviamente i mercati reagivano all’aumentata offerta calando vieppiù i prezzi. Molti agricoltori si indebitarono pesantemente, ma molti di più erano troppo poveri anche per ottenere prestiti. Solo l’intervento dei soccorsi governativi alleviò in parte la situazione quando, dopo la scomparsa per fallimento di molte aziende agricole, si crearono forti tensioni sociali. 
Questa situazione favorì l’insorgere di regimi dittatoriali o semidittatoriali che promossero lo sviluppo (o almeno la tenuta economica) sulle linee dell’autarchia e portò questi paesi inevitabilmente nell’orbita del polo più forte della zona: la Germania, di cui divennero in un certo senso satelliti economici e con cui stabilirono relazioni commerciali privilegiate dove, ovviamente, era per lo più la Germania a guadagnarci.
Fino al 1939 l’Europa orientale rimase dunque una regione arretrata, la cui economia si basava principalmente sull’agricoltura e sull’esportazione di materie prime non lavorate - una regione potenzialmente ricca ma che un insieme di circostanze aveva mantenuto povera nonostante il dinamismo che aveva mostrato allo scadere del secolo precedente. Unica eccezione in quel panorama desolante era la Cecoslovacchia e, in parte, l’Austria, che pur vantando una situazione meno miserabile dei suoi vicini, aveva avuto per tutto il periodo tra le due guerre problemi decisamente seri (nel 1938 il suo prodotto interno non era superiore a quello del 1913) che spiegano la facilità con cui la Germania ottenne di annettersela.
Questa condizione di debolezza economica, ma anche sociale, fece di questi stati una potenziale selvaggina per altri stati più forti, e in caccia di prede - ovvero, in quel settore, Germania e U.R.S.S. E’ comprensibile dunque che la Germania abbia rivolto a oriente le sue mire espansionistiche, così come è comprensibile che, proseguendo su questa linea di azione, abbia finito per scontrarsi con l’U.R.S.S.

Gran parte della richiesta di liquidità europea si trasferì sulla piazza inglese, patria di una delle due monete elette a garanti dell’equilibrio monetario internazionale. La liquidità inglese però non era all’altezza delle richieste: buona parte dei suoi 150 milioni di sterline di crediti a breve scadenza erano diventati inesigibili, vuoi perché garantiti in linea di principio da merci il cui valore, per effetto della crisi, si era visibilmente ridotto, vuoi perché il 40% di questi crediti erano stati emessi su debitori tedeschi e quindi erano diventati praticamente inesigibili.
Nel solo agosto 1931 circa 200 milioni di sterline lasciarono il paese. Il 21 settembre le autorità inglesi, su consiglio della stessa Banca d’Inghilterra, abbandonarono la parità della sterlina. La Gran Bretagna uscì così ufficialmente dal gold standard (22), segnando la fine di un’epoca. Nel corso dell’anno venne imitata dai paesi scandinavi, dagli stati del Commonwealth e dal Giappone.I paesi dell’America Latina avevano abbandonato la partita già dall’anno prima, gli Stati Uniti lo fecero nel 1933. Fu un provvedimento realistico perché, in quelle condizioni, il gold standard era non solo inutile, ma decisamente dannoso e anzi favoriva,  attraverso le strette relazioni monetarie che legavano tra loro i vari paesi, una diffusione ancor più rapida della depressione (che riusciva comunque a diffondersi benissimo anche da sola, senza aiuti).
Rimase un gruppo di sei paesi (Francia, Svizzera, Olanda, Belgio, Italia e Polonia) che formarono un “blocco dell’oro”, stabilendo di regolare in oro le loro reciproche pendenze, ma di non esportare quell’oro fuori dal blocco (23). Anche questo blocco comunque abbandonò il gold standard  nel 1936.

Per alcuni paesi il commercio internazionale dipendeva in buona parte dall’esportazione di generi alimentari di prima necessità e materie prime: Canada, Malesia Britannica, Egitto, Finlandia, Indie Olandesi (l’attuale Indonesia), Ungheria, Nuova Zelanda, America del Sud e America Centrale... ma anche economie dall’apparenza meno fragile, come quella giapponese che vide calare del 90% le esportazioni di seta grezza e venne danneggiata, come altri paesi dell’estremo oriente, anche dal calo del prezzo del riso.
Molti paesi dell’America Latina erano già da diversi anni in una situazione molto delicata: l’espansione legata alla guerra era finita da tempo, e i prezzi delle materie prime che costituivano l’ossatura delle loro esportazioni erano da anni in caduta libera: il cotone aveva perso un terzo del suo valore dal 1923 al 1929, come il frumento; il caucciù era passato dai 70 cents la libbra del 1925 ai 20 cents del 1919. I prezzi di zucchero e caffè rimasero invece stabili, ma solo perché i governi ne mantennero enormi scorte proprio per non abbassarne il prezzo sul mercato internazionale - come alla fine dovettero comunque fare (24).
Senza più i prestiti americani, questi paesi si ritrovarono con una bilancia dei pagamenti in forte deficit e con valute in caduta libera  sul mercato dei cambi; di conseguenza le loro merci, che stavano già calando di prezzo, calarono ulteriormente.

L’impatto generale della crisi in Europa fu impressionante: i prezzi all’ingrosso e le quotazioni azionarie furono dimezzati (a volte più che dimezzati), il giro commerciale europeo passò dai 58 miliardi di dollari nel 1928 a 20,8 miliardi nel 1935, la disoccupazione aumentò pericolosamente (25), assestandosi su tassi che andavano dal 22% al 32% per toccare l’agghiacciante punta del 44% in Germania.

Altrettanto notevoli furono le conseguenze politiche. Un numero impressionante di governi infatti cambiò in quegli anni. Il primato della rapidità si può senz’altro assegnare all’America Latina, dove tra 1930 e 1931 ben dodici paesi cambiarono governo e regime (dieci di loro attraverso colpi di stato militari), ma anche negli altri continenti ci furono rivolgimenti notevoli - in qualche caso anche verso sinistra, come la sfortunata repubblica spagnola del 1931, oppure la Svezia, che nel 1932 avviò il suo cinquantennale ciclo socialdemocratico. La maggior parte dei nuovi regimi però era decisamente orientata verso destra, sia nell’Europa centro-orientale che in Giappone (più complesso il caso dell’America Latina dove i nuovi regimi avevano connotazioni politiche piuttosto varie).

La ripresa, quando arrivò - in alcuni paesi già dalla fine del 1932. ma senza slanci clamorosi fino alla fine del decennio, quando nei paesi europei si avviò la corsa al riarmo (26), arrivò soprattutto grazie all’azione delle forze economiche e si basò sui mercati interni più che sulle esportazioni. Anche gli interventi governativi, comunque, puntavano molto sulla “difesa” delle produzioni interne e delle proprie monete, con il risultato di limitare gli scambi commerciali.

Uno dei paesi che meglio superò la crisi fu proprio uno di quelli che a causa della depressione aveva maggiormente sofferto: la Germania, che riuscì ad eliminare rapidamente la disoccupazione  conseguendo sostanziosi incrementi di produzione grazie a politiche sociali decisamente particolari.

B - Una cura per la depressione: il modello tedesco.

“Il sistema di produzione, di distribuzione e di consumo messo in piedi dai nazisti non si lascia classificare in nessuna delle abituali categorie di sistemi economici. Non si trattava di capitalismo, di socialismo o di comunismo nel senso tradizionale di questi termini; piuttosto, il sistema nazista fu una combinazione di alcune delle caratteristiche e di un’economia altamente pianificata. Un meccanismo di pianificazione estensivo, tutt’altro che efficientissimo, venne imposto a un’economia che conservava la proprietà privata, in cui la distribuzione del reddito nazionale rimaneva largamente immutata e in cui gli imprenditori privati conservavano alcune delle prerogative e delle responsabilità del capitalismo tradizionale. Inoltre, con controlli estensivi sugli scambi e sui pagamenti, l’economia tedesca giunse ad esercitare una considerevole influenza sulle economie dell’Europa centrale e sud-orientale” (27)

Non c’è dubbio che, nel Terzo Reich, lo stato avesse il controllo su ogni aspetto dell’economia, compresa l’iniziativa privata. Si tratta però di una caratteristica che non era nata insieme al nazismo, ma che in buona misura esisteva già da tempo in Germania; occorre poi tenere conto che, nei momenti di emergenza economica, da sempre lo stato interviene in qualche forma e che la Germania viveva dal 1918 in un continuo stato di emergenza economica e che, infine, il nazismo era salito al potere appunto perché, e in un momento in cui, l’emergenza economica era particolarmente acuta e dunque ci si aspettava che, tra l’altro, prendesse in mano la direzione dell’attività economica del paese.
Diversi dei provvedimenti presi dai precedenti governi repubblicani puntavano in direzione statalista: la crisi  finanziaria aveva indotto il governo tedesco, durante l’emergenza del 1931, ad acquisire una forte partecipazione a molte delle più grosse banche, e ad acquistare direttamente o porre comunque sotto il proprio controllo le imprese manifatturiere più in difficoltà. Massicci interventi poi erano stati fatti per aiutare l’agricoltura e limitare le importazioni. 
Appena saliti al potere i nazisti estesero la politica di intervento statale, avviando un programma di lavori pubblici da sei miliardi di marchi che ampliava di parecchio il modesto programma  avviato nel 1932 dai loro predecessori. Questo ridusse la disoccupazione, incrementò i consumi interni e avviò la ripresa, cosa che a sua volta ridusse ulteriormente la disoccupazione. 
I provvedimenti di epurazione della parte ebraica della popolazione dal mondo della finanza si rivelarono poi molto utili per far cassa; la gamma di interventi era vasta, e colpiva tutta la scala delle possibilità, dal piccolo commerciante al dettaglio al grande banchiere.
La soluzione dei conflitti sociali fu piuttosto drastica: questi non avevano ragione di esistere perché tutti i cittadini, dagli operai agli imprenditori, erano “soldati del lavoro”. Perciò una legge del 20 gennaio 1934 (28) stabilì la creazione nelle aziende di una “Comunità aziendale” mossa dall’unico interesse del benessere della Germania. La mediazione delle varie categorie era affidata a “Fiduciari del Lavoro”, che sorvegliavano le condizioni di lavoro e i salari all’interno delle singole imprese, e ad organismi come la “Corte d’Onore”, che giudicavano imprenditori e lavoratori accusati di aver violato i principi della comunità aziendale. Nel bene e nel male i contrasti all’interno delle aziende si ridussero.
L’appoggio statale ridusse molti dei rischi tradizionalmente connessi all’imprenditoria - pur riducendo anche alcuni dei suoi altrettanto tradizionali margini di libertà: ad esempio venne limitata la distribuzione dei dividendi in contanti e nel contempo fu reso obbligatorio l’investimento degli utili non distribuiti;  furono poi incentivati determinati settori che spingevano in direzione autarchica (benzina sintetica, carburante diesel, fibre artificiali).
A partire dal novembre 1934 investimenti, ricerche e incentivazioni puntarono nella direzione dei preparativi bellici: il grande sviluppo del settore della difesa arrivò solo nel 1937, ma i preparativi non riguardavano naturalmente solo le spese strettamente militari - che pure, negli ultimi anni, aumentarono in modo massiccio, tanto da passare dal 3% del reddito nazionale nel 1933 al 23% del 1939 - ma tutti quei settori che potevano risultare cruciali mentre lo stato era impegnato in una guerra: venne ad esempio curata la produttività dell’agricoltura, e  arginato lo spopolamento delle campagne. 
Ci si occupò anche del rovescio della medaglia, limitando gli investimenti e addirittura gli orari della settimana lavorativa di industrie meno “utili” (ad esempio le fibre tessili naturali, che venivano importate).
I progressi furono notevoli, soprattutto perché amplificavano una tendenza comunque in corso: l’imprenditoria tedesca, nonostante i dissesti e disastri finanziari in cui operava (alquanto faticosamente, viene da pensare) era vitale, coraggiosa e disponibile al cambiamento e all’innovazione. Paradossalmente, le continue inflazioni e svalutazioni della moneta avevano favorito un certo tipo di investimenti: in altri paesi le macchine erano arretrate, gli imprenditori diffidenti, i cambiamenti accolti malvolentieri ad ogni livello, mentre in Germania le innovazioni erano benvenute, e buona parte dei famigerati prestiti internazionali che tanti problemi avevano creato all’economia internazionale erano serviti ad acquistare macchinari assai più avanzati di quelli posseduti dai saggi, prudenti e risparmiosi imprenditori inglesi o francesi (29) . In particolare, la produzione e lavorazione di ferro e acciaio veniva eseguita  con criteri all’avanguardia e dava una produttività assai maggiore di quella di Gran Bretagna, Francia o Belgio.

Un’estensione di questa entità del settore militare non sarebbe stata possibile senza un potere di controllo sulla spesa privata che permettesse il drenaggio dei capitali. Il governo mantenne infatti un forte controllo sugli investimenti privati e regolò la domanda interna di beni di consumo con interventi sui salari, sui prezzi, sulle imposte e con l’accantonamento di risparmio forzoso. 
Sulla base di questo progetto venne organizzata tutta l’economia interna, con imposte più elevate, svalutazione selettiva del marco e regolamentazione di settori dell’economia come i prezzi, i salari, il commercio con l’estero, il cambio della valuta e la gestione dei capitali.
I salari rimasero quindi ad un livello inferiore a quello raggiunto nel 1919; in compenso molte più persone lavoravano.
La regolamentazione sugli scambi commerciali cercò (con un certo successo) di limitare le importazioni non indispensabili, limitandole alle materie prime, e di promuovere le esportazioni (che finirono per dirigersi soprattutto verso i paesi dell’Europa centro-orientale con cui la Germania aveva stretto trattati bilaterali). Questa politica, tra l’altro, spianò la strada alla Germania per il successivo controllo politico dell’Europa orientale.
In termini di ripresa dalla depressione, la ricetta nazista si rivelò senz’altro efficace, pur comportando costi sociali che la maggior parte dei paesi non sarebbe stata disposta a sostenere.


1 Nel 1913, alla vigilia della Grande Guerra, le Americhe gestivano il 22,4% del commercio mondiale, l’Asia il 12,1%, Europa e Russia 58,4%. 
Nel 1920 la quota americana era passata al 32,1%, quella asiatica al 13,4%, la quota  di Europa+URSS era il 49,2%. (Aldcroft D.H., L’economia europea dal 1914 al 2000, Laterza,  Roma-Bari, 2001,  pag. 20).
L’esempio più facile è quello dell’attaccamento al mito del gold standard, che si rivelò abbastanza dannoso. In realtà col senno di poi appare evidente che l’intera economia era  diventata improvvisamente “moderna” e richiedeva strumenti e competenze di cui i governanti all’epoca non disponevano.
Aldcroft D. H., op. cit. , pagg. 29-30.
4 Occorre ricordare che i governanti europei lavoravano in una situazione difficile e venivano da un lungo periodo che non aveva conosciuto inflazione.  Semplicemente, in quelle condizioni gli strumenti che erano stati utili fino a quel momento non servivano più perché la situazione era cambiata.
L’inflazione parve all’inizio un buon sistema per aumentare le entrate senza aumentare direttamente le tasse; altra tattica adoperata fu l’emissione di nuova moneta, o meglio la stampa di carta moneta. E’ noto che quest’ultimo provvedimento funziona solo a tempi brevissimi, perché il mercato istintivamente abbassa il valore della moneta, e questo costringe a sua volta il governo ad emissioni sempre più ingenti di nuova moneta. Passate certe cifre e certe percentuali, il meccanismo tende a sfuggire di mano e ad autoalimentarsi - come successe nel celebrissimo caso dei primi anni della repubblica di Weimar (e non solo) . E’ giusto  però ricordare che la politica della ripetuta stampa di nuova valuta può senz’altro apparire molto sciocca, ma che viene usualmente praticata quando i governi non sanno quali altri pesci pigliare.
5   Espressione a sua volta di una certa debolezza interna dell’economia inglese, che rimase stagnante per tutto il periodo tra le due guerre, mantenendo un tasso di disoccupazione piuttosto alto.
6   E qui si può accennare ai notevoli sacrifici imposti da Mussolini per fissare una parità con la sterlina che poi si rivelò troppo alta.
7   Per un esame approfondito della questione, vedi Eichengreen B., Gabbie d’oro. Il “gold standard e la grande depressione. 1919-1939, Cariplo-Laterza, Roma-Bari, 1994.
8   Ritenuta, in base ad una discutibile clausola del trattato di Versailles, la sola  responsabile della guerra .  Naturalmente, come viene spiegato molto bene in tutti i manuali, c’era la precisa volontà, soprattutto francese, di tarpare quanto più possibile le ali della Germania.
E’ interessante come, proprio a questo riguardo,  J.M. Keynes, all’epoca membro subalterno della delegazione britannica a Versailles, scrisse nel 1920 una delle sue prime opere, The Economic Consequences of the Peace, sull’importanza di permettere all’economia tedesca di affermarsi per il benessere, la pace e la democrazia in Europa.
  Si tratta del piano Dawes, così chiamato dal generale che presiedette la commissione. Il piano entrò in vigore nel settembre 1924.
10   Come verrà spiegato più avanti, nel 1928 il meccanismo saltò perché l’afflusso di capitali americani si interruppe e l’economia tedesca si ridusse alla bancarotta.  Nel 1931 fu lo stesso presidente Hoover a proporre una moratoria di un anno per le riparazioni e i debiti tedeschi, che col passare degli anni divenne permanente. All’epoca la Germania aveva pagato solo una parte delle sue riparazioni - all’incirca un quarto, secondo le stime più ottimistiche.
Fra gli storici è opinione comune che un atteggiamento più elastico verso i pagamenti delle riparazioni (con rate molto più basse per non ostacolare i primi anni della ripresa tedesca, e accettando una parte dei pagamenti in natura invece di limitarsi ai dollari e all’oro) avrebbe evitato probabilmente alla Germania la serie di scossoni economici (con relative conseguenze sociali) che fu una delle principali cause che la portò ad affidarsi a Hitler.
11   E’ stato calcolato che la guerra abbia fatto tornare indietro di otto anni l’incremento europeo della produzione.
12   Hobsbawm E.J. , Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano, 1995, pag. 108.
13   “Tra gli storici è diffuso il passatempo di assegnare geograficamente la colpa della crisi. Il presidente Hoover, ad es., insisteva che l’Europa era responsabile della crisi del 1929. Egli era disposto ad ammettere qualche errore degli Stati Uniti, specialmente per la speculazione in borsa, ma rimproverava il mondo nel suo complesso  per la sovrapproduzione di grano, di gomma, di zucchero, di argento, di zinco e in una certa misura di cotone. Le più grosse responsabilità tuttavia sull’Europa, sui suoi cartelli e sugli “uomini politici europei [che] non avevano avuto il coraggio di affrontare questi problemi.” (Kindleberger C. P.,  Storia delle crisi finanziarie, Laterza, Roma-Bari, 1991, pag. 133). 
D’altra parte, poche righe più sotto, si ricorda di come Friedman e Schwartz vedono gli Stati Uniti responsabili non solo della crisi del 1929, ma, insieme alla Gran Bretagna, anche della caduta dell’attività economica del primo dopoguerra. Più avanti (pp. 153-155) lo stesso Kindleberger si associa in quanti vedono la crisi del 1929 un evento originato da cause esterne agli Stati Uniti. Le cause che indica sono quelle consuete: il pasticcio combinato con i debiti di guerra, i tassi di cambio inadeguati, etc.
14   Erano gli anni d’oro dell’industria. La razionalizzazione delle strutture e delle catene di montaggio portarono a migliorare moltissimo la produttività. Anzi, a quel che sembra la migliorarono troppo per le capacità di assorbimento del mercato.
15   Le banche statunitensi erano generalmente piuttosto piccole, a carattere locale o, al massimo, limitate ad uno stato.  Questo le rese particolarmente vulnerabili.
16  Kindleberger C.P.,  op. cit. ,  pagg.22-23.
17   Così chiamato da quel gioco dove si dispongono interminabili piste di piastrelle sistemate di taglio in fila, a brevissima distanza l’una dall’altra. Una volta preparate le piste, basta dare un colpetto alla prima piastrella per far “sedere” l’intera pista, per quanto lunga.
Proprio una partita a domino si trova nell’illustrazione di copertina dell’ “Effetto valanga” di Mack Reynolds, pubblicato da Mondadori nella collana Urania nel  1973.
Il romanzo breve amplia (senza  grandi miglioramenti, in verità) un eccellente racconto del 1952, Depression or Bust  (che nella traduzione italiana ha mantenuto il titolo Effetto valanga ) dove vengono ripercorse le tappe della crisi del 1929 ambientandola in un’America del futuro: una coppia di coniugi si accorge, facendo un po’ di conti, che è più prudente per il bilancio di casa non acquistare il nuovo modello di frigorifero, e così facendo innesca un processo che porterà alla chiusura del magazzino dove acquistano gli elettrodomestici, poi della ditta che li  produce, poi delle due aziende presso le quali lavorano. In breve una spaventosa recessione attraversa gli Stati Uniti, finché un giorno, nelle alte sfere, decidono di ripercorrere all’indietro passo passo il meccanismo che ha innescato la crisi. Un rappresentante di Washington raggiunge la coppia (ormai in miseria) con un po’ dei pochi dollari rimasti in circolazione e chiede loro di comprare, infine, quel maledetto frigorifero. Lo stratagemma funziona e la coppia, con il nuovo acquisto, innesca stavolta un circolo virtuoso che riporterà prosperità e benessere nell’intera nazione - ma sia i lettori che i protagonisti non possono fare a meno di accorgersi che il meccanismo che regola tutta la faccenda sembra veramente molto fragile.
Il racconto, che passa di poco la ventina di pagine, può costituire un’eccellente lettura di appoggio per la classe.
18   Anche su questo ogni antologia fornisce la sua galleria di foto e di aneddoti. Inutile dunque insisterci più di tanto.
19   La contrazione dei prestiti creò grossi problemi anche ad altri paesi, che ne dipendevano per il pareggio della bilancia dei pagamenti: Ungheria, Polonia, Jugoslavia, Finlandia, Italia.
20 E' sufficiente qui ricordare  il crack del Credit Anstalt austriaco, che deteneva i due terzi dei depositi bancari di tutto il paese e che portò l'Austria alla bancarotta.  Sorte analoga toccò alla Germania (Landes S.S., op. cit., pagg. 489-96).

21   Si potrà qui accennare un parallelo con la desolante situazione di molti paesi africani dove inflazione, deflazione, prestiti internazionali, riforme agricole, impiego di nuove tecniche agricole etc. sembrano inevitabilmente sortire l’unico effetto di peggiorare la situazione.
22   Va qui ricordato che, anche se quasi tutte le aziende di credito inglesi soffrirono grossi danni, nessuna banca di una qualche importanza dovette chiudere, nemmeno in via temporanea. Naturalmente la loro esposizione e la loro politica erano state molto diverse da quelle delle banche tedesche.
23   Occorre ricordare che la Francia aveva enormi riserve auree, ma queste non le furono di grande aiuto contro gli effetti della crisi, che subì anzi in modo più pesante di altri paesi europei (è da notare, tra l’altro, che una moneta addirittura in deflazione come il franco era  fortemente penalizzata per le esportazioni, nonostante gli sforzi degli industriali francesi che abbassavano i prezzi delle merci vendute all’estero).
La svalutazione della sterlina ebbe invece l’effetto opposto, e l’Inghilterra fu tra i paesi europei meno provati dalla crisi degli anni 1929-1933. Tuttavia occorre aggiungere che partiva anche da una base più bassa di molti paesi, perché la sua economia stagnava da diversi anni.
24    Landes D.S., Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche  e sviluppo industriale nell’Europa Occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi, Torino, 1978, pagg. 479-480.
E’ nota l’eroica lotta del governo brasiliano per non far scendere il prezzo del caffè e salvaguardare così il reddito dei coltivatori, che si spinse fino a usare il caffè  delle scorte invendute come combustibile per le caldaie dei treni al posto del carbone (questo particolare non manca mai di suscitare un certo scalpore tra gli allievi).  Ad ogni modo nel 1929 la partita fu abbandonata, e il prezzo del caffè crollò  da 180 a 98 franchi al quintale.
25   Si parla di 15 milioni di disoccupati nella fase peggiore, ma è probabile che si tratti di un dato molto inferiore alla realtà. Basta pensare che in Germania, in un solo anno, chiusero oltre 17.000 imprese.
26   Fu, in effetti, la seconda guerra mondiale la vera cura per la crisi economica: più del New Deal e di tutti gli interventi statali
27   Aldcroft D.H., op. cit., pag.  117.
28   “Gesetz zur Ordnung der Nationalen Arbeit”.
29   Cfr. Landes D.S., op.cit., pagg. 570-633.



BIBLIOGRAFIA

Aldcroft D.H., L’economia europea dal 1914 al 2000, Laterza,  Roma-Bari, 2001 (pagg.7-134).
Eichengreen B., Gabbie d’oro. Il “gold standard” e la grande depressione. 1919-1939, Cariplo-Laterza, Roma-Bari, 1994.
Hobsbawm E.J. Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano, 1995.
Kindleberger C.P.,  Storia delle crisi finanziarie, Laterza, Roma-Bari, 1991.
Landes D.S., Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche  e sviluppo industriale nell’Europa Occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi, Torino, 1978 (pagg. 468-639).