venerdì 15 gennaio 2021

Praticamente innocuo - Douglas Adams


Nel 1992, a otto anni di distanza dal quarto volume della sua trilogia, che sembrava a tutti gli effetti una vera e propria conclusione, con la morte e redenzione del robot depresso Marvin e il messaggio di Dio all'umanità (peraltro credibilissimo), ecco che Adams decide di scrivere il quinto volume, che dà una nuova conclusione alla storia - ma forse non quella definitiva.
Comunque è un libro molto triste.

No, non "deprimente": anzi, come sempre il romanzo si avvale di una scrittura brillante, un intreccio fascinoso ed eccellenti dialoghi, oltre che di una complessa struttura che va compiutamente rivelandosi nell'ottimo finale (ho scritto ottimo, non lieto. Tuttavia perfino io sono disposta ad ammettere che non sempre un lieto fine convenzionale è il migliore dei finali possibili in una storia).
E così cominciamo con Tricia McMillan, ormai lanciatissima giornalista televisiva a New York. La carriera brillante però non basta a lenire il rimpianto per una occasione persa quando era molto giovane. Per tanti di noi arriva un momento che può rivelarsi decisivo, l'occasione da cogliere ora o mai più, e lei non l'ha colta: a una festa in maschera aveva attaccato discorso con un giovane affascinante, che si è poi rivelato essere un alieno, e lei si era detta disposta a seguirla MA doveva andare a riprendere la sua borsetta - e quando era tornata con la borsetta, il giovane era scomparso.
Qui il lettore comincia a guardare con sospetto le pagine: perché i quattro romanzi precedenti si basano anche sul fatto che Tricia, con o senza borsetta, aveva seguito eccome il suo alieno, e ci aveva intrecciato una storia ricca di alti e bassi (finita con lei che se ne andava per sempre piantando l'alieno, ci pare di ricordare) e dunque... e dunque...
Del resto la New York descritta sembra una normalissima New York dei primi anni 90, dunque la Terra non è stata distrutta e... boh?
Lasciamo Tricia con i suoi struggenti rimpianti e troviamo Arthur Dent triste e solo. Un triste giorno infatti, durante un volo interstellare, la sua amatissima Fenchurch è sparita, inghiottita in un salto iperspaziale. Da allora lo sconsolatissimo Arthur cerca di ritrovarla, o di ritrovare almeno la Terra, una delle Terre del multiverso che non sono saltate in aria; ma niente, non c'è verso.
Lo ritroviamo anni dopo, parcheggiato su un simpatico pianetino di periferia, dove gestisce un chiosco che produce eccellenti panini. Anche fare panini può essere un processo artistico, o una via per la contemplazione, e lui è avviato su questa strada. Finché un giorno arriva Patricia, che è passata da lui per lasciargli per un po' la loro figlia. E se il lettore si sorprende che Tricia e Arthur abbiano una figlia, figurarsi Arthur, che sa benissimo che giammai ha fatto niente di riproduttivo con Tricia.
Il romanzo procede e si snoda, con un lettore sempre più stranito che cerca non solo di seguire la storia, ma soprattutto di capire come la storia che conosceva, o credeva di conoscere, si sia potuta evolvere in sì incomprensibile modo. Pian piano però tutto si spiega - in modo non troppo rassicurante ma si spiega.
C'è anche una profezia, o qualcosa di molto simile, che dovrebbe servire a rassicurare Arthur. Come tutte le profezie di tutti i tempi, si rivelerà proprio nelle ultime pagine una colossale presa di giro, e con un mirabile doppio salto mortale carpiato e avvitato la vicenda si concluderà quasi dove è cominciata. E' un bel finale, comunque, e Arthur lo accoglierà con un certo sollievo e la convinzione che tutto si è sviluppato nel modo più adatto.
Così si chiude la complessa e multiversica vicenda legata alla Guida galattica per gli autostoppisti (sì, anche la Guida avrà una sua parte non piccola in tutta la vicenda). 

E con questo terzo finale della trilogia in cinque volumi la storia sembrerebbe giunta una terza volta a conclusione. Ma...

L'autore in seguito dichiarò che aveva scritto un romanzo così triste a conclusione della sua storia perché in quel periodo era triste anche lui. Ma poi pensò che gli dispiaceva, e cominciò ad elaborare un quarto finale, e nel contempo avviò un finale diverso anche per la serie (televisiva? Radiofonica? Non ricordo). Quello arrivò effettivamente a conclusione, e Arthur ritrovava la sua Fenchurch che faceva la cameriera nel Ristorante al termine dell'universo.

I tempi di produzione letteraria di Douglas però erano abbastanza particolari, e si racconta che l'editore, per ottenere che terminasse alfine i suoi romanzi lo doveva praticamente rinchiudere in qualche luogo isolato.
Stavolta non pensò a rinchiuderlo in tempo, e dopo aver traccheggiato per ben nove anni con il suo quarto foinale per la trilogia in sei volumi, Douglas morì per un attacco di cuore nel 2001 lasciando nel più nero sconforto editore, amici, fan e soprattutto la sua famiglia.
La quale famiglia però frugò nei suoi computer e trovò ampie tracce del quarto finale, e dopo avere a lungo ponderato la questione affidò la redazione di questo quarto finale a Eoin Colfer, che ne trasse un romanzo intitolato E un'altra cosa..., che uscì nel 2009.
A qualcuno piacque e lo trovò adeguato, qualcuno invece non riuscì ad entusiasmarcisi più di tanto. Quanto a me, non posso giudicare perché non l'ho letto.
Anche se forse, rifiutarsi di leggere un libro è pure quello, a modo suo, una specie di giudizio.
E dunque proverò a motivare il mio non-giudizio che si basa sul rifiuto di leggere il libro.
Ho apprezzato moltissimo la trilogia in cinque volumi, per il suo complesso intreccio, per questa sua struttura fluida che ti cambia in mano pagina dopo pagina, e certamente anche per i suoi risvolti religiosi (perché Douglas era dichiaratamente ateo, e ciò nonostante/appunto per questo/in parte per entrambi i motivi, questo suo ateismo aveva dotato di vari, mutevoli e cangianti riflessi assai religiosi la sua visione della vita, dell'universo e di tutto quanto come traspare nel ciclo) ma soprattutto avevo apprezzato il suo modo di scrivere, di raccontare e di sbalestrare continuamente il lettore - cosa, quest'ultima, che di solito detesto ma che nel suo caso mi è piaciuta molto. Secondo me però quel tipo di stile davvero personale lo poteva gestire un solo essere umano in tutto il multiverso: Douglas Adams, appunto.
Di Eoin Colfer ho letto un po' di cose, e non posso dire che mi siano dispiaciute, ma non ne ho tratto l'impressione che fosse in grado di gestire un lavoro così personale. Per scrivere un romanzo à la Douglas Adams secondo me non basta riprendere lo stile di Douglas Adams, ma è necessario essere Douglas Adams. Magari sbaglio, si capisce.
Ma dubito che farò il tentativo.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma, finalmente ricomparso dopo lunghe settimane di assenza, e concludo senza davvero concludere (o concludendola davvero, chissà) la mia serie di recensioni su questo bellissimo ciclo che consiglio caldamente a tutti, soprattutto a chi desidera rivedere la sua concezione della vita, dell'universo e di tutto quanto. 
E ringrazio sentitamente per tutto il pesce.

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