Carl Bloch In una osteria romana (1866)
(I Malavoglia mi sono sempre parsi un romanzo molto deprimente e non l'ho mai letto molto volentieri. Tuttavia sono sempre stata costretta ad ammettere che è scritto DAVVERO bene, con un tipo di scrittura corale tutt'altro che consueto nella letteratura italiana... ma molto praticato in alcuni dei miei autori preferiti. Il primo capitolo del Signore degli Anelli per esempio è costruito esattamente con la stessa tecnica. Scelsi il personaggio di Santuzza perché aveva dei discreti risvolti da romanzo giallo, e perché ero sicurissima che nessuno dei miei compagni di corso, troppo impegnati a spulciare antologie per avere il tempo di leggere i testi completi con attenzione, se ne sarebbe occupato. Insomma, volevo che fosse chiaro che IO, invece, leggevo sempre il testo in integrale; e volevo che fosse chiaro senza che mi scomodassi a dirlo. I professori che tenevano il corso di letteratura italiana apprezzarono e mi diedero un voto assai alto - e a conti fatti probabilmente non dovetti faticare più dei miei compagni di corso antologizzati, però mi divertii di più.
(I Malavoglia mi sono sempre parsi un romanzo molto deprimente e non l'ho mai letto molto volentieri. Tuttavia sono sempre stata costretta ad ammettere che è scritto DAVVERO bene, con un tipo di scrittura corale tutt'altro che consueto nella letteratura italiana... ma molto praticato in alcuni dei miei autori preferiti. Il primo capitolo del Signore degli Anelli per esempio è costruito esattamente con la stessa tecnica. Scelsi il personaggio di Santuzza perché aveva dei discreti risvolti da romanzo giallo, e perché ero sicurissima che nessuno dei miei compagni di corso, troppo impegnati a spulciare antologie per avere il tempo di leggere i testi completi con attenzione, se ne sarebbe occupato. Insomma, volevo che fosse chiaro che IO, invece, leggevo sempre il testo in integrale; e volevo che fosse chiaro senza che mi scomodassi a dirlo. I professori che tenevano il corso di letteratura italiana apprezzarono e mi diedero un voto assai alto - e a conti fatti probabilmente non dovetti faticare più dei miei compagni di corso antologizzati, però mi divertii di più.
Di Santuzza si parla nei capitoli II, III, VIII, X, XII, XIII, XIV e XV).
Il personaggio di Santuzza (vero nome Mariangela) viene descritto nel libro poco per volta, con una tecnica non dissimile a quella impiegata da Agatha Christie in alcuni dei suoi migliori romanzi, attraverso un puzzle di voci e pettegolezzi che finiranno per dare un quadro finale molto diverso da quello che è stato fatto intravedere all’inizio: inizialmente sembra solo un personaggio che ha la funzione di fornire un po’ di colore locale allo sfondo di Aci Trezza ma più avanti, pur interagendo solo marginalmente con i Malavoglia, si rivelerà come uno dei perni nascosti del meccanismo che stritolerà la famiglia dei protagonisti.
La intravediamo per la prima volta nel capitolo II, nel corso della conversazione corale al crepuscolo che occupa tutto il capitolo, attraverso le parole di Piedipapera. Si discute sul perché don Michele, la guardia del paese, andasse “a guardare l’interesse dei galantuomini dalla parte dell’osteria”:
“Ci va per confabulare di nascosto con lo zio Santoro, il padre della Santuzza. Quelli che mangiano il pane del re devono tutti far gli sbirri, e sapere i fatti di ognuno a Trezza e dappertutto, e lo zio Santoro, così cieco com’è, che sembra un pipistrello al sole, sulla porta dell’osteria, sa tutto quello che succede in paese, e potrebbe chiamarci per nome ad uno a uno soltanto a sentirci camminare. Ei non ci sente solo quando massaro Filippo va a recitare il rosario colla Santuzza, ed è un tesoro per fare la guardia, meglio di come se gli avessero messo un fazzoletto suglio occhi.”
I lettori vengono così informati dell’esistenza di un’osteria nel paese e che questa osteria appartiene a una coppia padre-figlia dove il polo più forte, contrariamente alla consuetudine, è la figlia, che anzi grazie alla debolezza del padre riesce a gestire con tranquillità la sua vita sentimentale (in cui partecipa un tal massaro Filippo).
Solo un certo gusto dell’accumulo può, in apparenza, giustificare la compresenza in un solo paragrafo del gendarme don Michele insieme allo zio Santoro, padre reso forzatamente compiacente dalla sua infermità, alll’ostessa di Aci Trezza e alle relazioni private dell’ostessa medesima. Vedremo invece più avanti che non solo questi personaggi sono legati da una fitta trama di interessi comuni, ma che a questa trama non è estraneo nemmeno Piedipapera.
Il tema di massaro Filippo e della sua relazione con la Santuzza viene ripreso in abbondanza al capitolo successivo, che si svolge sul selciato della chiesa:
“Le calze della Santuzza, osservava Piedipapera, mentre ella camminava sulla punta delle scarpette, come una gattina - le calze della Santuzza, acqua o vento, non le ha viste altri che massaro Filippo l’ortolano, questa è la verità.”
Ma non è solo Piedipapera a sparlare: anche altre donne commentano la relazione tra Santuzza e massaro Filippo l’ortolano come cosa nota urbi et orbi, chi per osservare che l’ostessa non dovrebbe tenere in peccato mortale un padre di famiglia, chi per lamentare che comunque la Santuzza è la superiora delle Figlie di Maria.
Per quasi cinque capitoli cala il silenzio su questa strana coppia. Finché
“Nella notte si udirono delle fucilate verso il Rotolo, e lungo tutta la spianata, che pareva la caccia alle quaglie. - Altro che quaglie! mormoravano i pescatori rizzandosi sul letto ad ascoltare. E’ son quaglie a due piedi, di quelle che portano lo zucchero e il caffè, e i fazzoleti di seta di contrabbando. Don Michele ieri sera andava per la strada coi calzoni dentro gli stivali e la pistola sulla pancia!”
All’alba troviamo Piedipapera a bere dal barbiere Pizzuto, nervoso con la faccia “di un cane che ha rotto la pentola”, Michele che si lamenta con la Santuzza perché la caccia è andata male, e la Santuzza (pure lei molto mattiniera e già al lavoro) che lo rimprovera affettuosamente “Non lo sapete che se chiudete gli occhi voi, vi portate nella fossa anche degli altri?” assicurandolo che non si era trattato di massaro Filippo “che tentava di far entrare il suo vino di contrabbando” (al che il lettore comincia a sospettare che nella scelta dei suoi amici del cuore la Santuzza non sia guidata solo dalla concupiscenza).
Nel frattempo la trama va avanti, e tra le altre cose Barbara Zuppidda sembra decidersi finalmente, ora che ‘Ntoni di padron ‘Ntoni è diventato decisamente povero dopo il secondo naufragio della Provvidenza, ad accettare la corte di don Michele. E le chiacchiere arrivano fino all’osteria, naturalmente:
“La Santuzza, mentre risciacquava i bicchieri, si voltava dall’altra parte , per non sentire le bestemmie e le parolacce che dicevano; ma all’udir discorrere di don Michele, si dimenticava anche di questo e stava ad ascoltare con tanto d’occhi. Era diventata curiosa anche lei, e stava tutta orecchi quando ne parlavano, e al fratellino della Nunziata, o ad Alessi, allorché venivano pel vino, regalava delle mele e delle mandorle verdi, per sapere chi s’era visto nella strada del Nero. Don Michele giurava e spergiurava che non era vero, e spesso la sera, quando l’osteria era già chiusa, si udiva un coro del diavolo dietro la porta. - Bugiardo! gridava la Santuzza. Assassino! ladro! nemico di Dio!
Tanto che don Michele non si fece più vedere all’osteria, e si contentava di mandare a prendere il vino”.
Che ne è stato di massaro Filippo? C’è stato un cambio della guardia?
Sembra proprio di no. Infatti:
“Massaro Filippo, invece di essere contento che si fosse tolto così un altro cane da quell’osso della Santuzza, metteva buone parole e cercava di rappattumarli, che nessuno ci capiva più nulla. Ma era tempo perso.”
Infatti la Santuzza giura che non vuol sentirne più parlare, a costo di dover chiudere l’osteria e mettersi a far la calzetta. Massaro Filippo cerca lo stesso di riconciliarla con don Michele “perché la finisse quella lite con la Santuzza, dopo che erano stati amici! ed ora avrebbero fatto chiacchierare la gente”.
E infatti la gente chiacchiera quanto più non potrebbe. L’unico commento riportato, però, il più scontato, è quello di Pizzuto (nella cui bottega Piedipapera sembra di casa): “Massaro Filippo ha bisogno di aiuto” perché “quella Santuzza si mangerebbe anche il Crocifisso!”.
Siamo ormai in piena commedia all’italiana, manca solo Lando Buzzanca. Avviati su questa strada, vediamo la Santuzza confessarsi dal parroco per la sua tresca con don Michele (e siccome il tutto era stato narrato “sotto sigillo di confessione” ben presto fa il giro del paese) nonché la madre di Barbara Zuppidda allontanare in gran fretta il corteggiatore della figlia - il tutto fra grida, schiamazzi e sceneggiate.
Due capitoli dopo le cose sembrano rimaste immutate, a giudicare dalla conversazione tra don Franco e ‘Ntoni (“La Santuzza ci ha massaro Filippo; e don Michele ronza sempre per la via del Nero, senza nessuna paura di comare Zuppidda e della sua conocchia!” racconta don Franco).
Poco dopo scopriamo infatti che don Michele sta facendo il filo alla più giovane dei Malaviglia, Lia.
‘Ntoni non sembra accorgersene; sta infatti attraversando la profonda crisi che lo porterà al carcere; al momento, comunque, è solo un ragazzo senza niente da fare e con una propensione un po’ troppo spiccata per il vino. Un bel ragazzo, anche, come è stato fatto capire più volte.
“La Santuzza, dopo che l’aveva rotta con don Michele, aveva preso a ben volere ‘Ntoni, per quel modo di portare il berretto sull’orecchio, e di dondolare le spalle camminando che aveva preso da soldato; e gli metteva in serbo sotto il banco tutti i piatti coi resti che lasciavano gli avventori; e un po’ di qua e un po’ di là gli riempiva anche il bicchiere. In tal modo lo manteneva grasso e unto come il cane del macellaio. Al bisogno poi ‘Ntoni si disobbligava”
e si disobbligava per l’appunto con funzioni analoghe a quelle di un buon cane da guardia, affrontando gli avventori più difficili da gestire, sorvegliando il banco quando la Santuzza andava a confessarsi e mostrandosi allegro con gli amici della taverna. Tutti perciò “gli volevano bene come se fosse a casa sua” tranne lo zio Santoro che “borbottava, fra un’avemaria e l’altra, contro di lui che viveva alle spalle di sua figlia” - il che era verissimo.
Alle rimostranze del padre Santuzza però risponde che, infine, era padrona di fare come voleva, perché “non aveva più bisogno di nessuno”.
“Sì, sì! brontolava lo zio Santoro, quando poteva acchiapparla un momento a quattr’occhi. Di don Michele ne hai sempre bisogno. Massaro Filippo m’ha detto dieci volte che è tempo di finirla, che il vino nuovo non può tenerlo più nella cantina, e bisognerebbe farlo entrare di contrabbando.”
Improvvisamente il misterioso triangolo assume tutt’altro aspetto agli occhi del lettore: a quanto sembra, più che l’amore c’è di mezzo il contrabbando. La complicità dell’uomo di Stato, don Michele, era indispensabile perché il traffico si svolgesse senza problemi, e massaro Filippo aveva ben il suo interesse nell’amicizia tra l’ostessa e la guardia.
Peccato che l’ostessa si sia stufata: per ‘Ntoni, che ha ormai raggiunto un notevole stato di passività, la Santuzza rappresenta una qualsiasi sponda cui attaccarsi senza troppa convinzione; Santuzza invece sembra mossa da una simpatia piuttosto forte, o da un altrettanto forte rancore verso don Michele (o forse da un misto di entrambi): “Dovessi pagare il dazio due volte, e il contrabbando, don Michele non lo voglio più, no e poi no!” perché “’Ntoni Malaviglia, senza galloni, valeva dieci volte don Michele”.
Insomma, per una volta Santuzza segue il suo piacere più che gli interessi dell’osteria. Ma l’idillio ha breve durata, anche per colpa delle continue recriminazioni dello zio Santoro: senza il vino di massaro Filippo gli avventori non vengono più volentieri, e trovandosi davanti “quell’affamato di ‘Ntoni” vengono ancor meno. Volendo, ci sono perfino degli scrupoli di coscienza:
“Ora che non c’è più lui [don Michele], non viene nemmeno massaro Filippo. L’altra volta è passato di qua, e io volevo farlo entrare; ma ei dice che è inutile venirci, giacché il mosto non può farlo passare più di contrabbando, ora che sei in collera con don Michele. Una cosa che non è buona né per l’anima né pel corpo. La gente comincia perfino a mormorare che a ‘Ntoni gli fai la carità pelosa, giacché massaro Filippo non ci viene più, e vedrai come andrà a finire! Vedrai che arriverà all’orecchio del vicario, e ti leveranno la medaglia di Figlia di Maria.”
La Santuzza tiene duro, anche per puntiglio “perché in casa sua voleva essere sempre la padrona”, ma i capricci non sono eterni e in cuor suo la ragazza sa che suo padre non ha tutti i torti. ‘Ntoni viene gradualmente messo alla porta, e infine lo zio Santoro avvia la riconciliazione con don Michele. “Farò le cose con giudizio” assicura alla figlia “Non ti lascerei fare la figura di tornare a leccare gli stivali a don Michele: sono tuo padre o no, santo Dio?”.
‘Ntoni non la prende per niente bene, e minaccia piazzate (“Voglio svergognare lui e la Santuzza davanti a tutto il paese quando vanno alla messa! Voglio dir loro il fatto mio e far ridere la gente.”).
Quanto al resto del paese, capisce quel che vuol capire e parla di conseguenza:
“Vuol dire che ci era sotto qualcosa per tenersi il broncio. E come massaro Filippo era pure tornato all’osteria: - Anche quell’altro! Che non sa starci senza don Michele? E’ segno che è innamorato di don Michele, piuttosto che della Santuzza. Certuni non sanno star soli neppure in paradiso.”
Dopo aver inconsapevolmente ostacolato il contrabbando di Aci Trezza, ‘Ntoni decide di parteciparci, con molte esitazioni e scarsa convinzione. e nel modo più maldestro e appariscente possibile, nonostante i saggi avvertimenti di don Michele che, nel tentativo di avvisarlo tramite sua sorella aveva impostato la questione con grande chiarezza, svelando qualche ulteriore retroscena:
“ditegli pure che non bazzichi tanto con quell’imbroglione di Piedipapera, nella bottega di Pizzuto, che si sa tutto e nei guai poi ci resterà lui. [...] Gli altri [Cinghialenta e Rocco Spatu] sono volpi vecchie [...] Vostro fratello si fida di Piedipapera, e non sa che le guardie doganali hanno il tanto per cento sui contrabbandi, e per sorprenderli bisogna dar la parte a uno della combriccola, e farlo cantare per chiapparla.”
Don Michele si rivela buon profeta, e ‘Ntoni si ritroverà incastrato in un meccanismo che non ha nemmeno cercato di capire. Tra una disgrazia e l’altra dei Malaviglia, la Santuzza scompare fino alle ultime pagine, quando scopriamo che ha (quasi) cambiato vita:
“La Santuzza aveva ragione di baciare la medaglia; nessuno poteva dire nulla dei fatti suoi; dacché don Michele se n’era andato, massaro Filippo non si faceva vedere più nemmeno lui, e la gente diceva che colui non sapeva stare senza l’aiuto di don Michele. Ora la moglie di Cinghialenta veniva di tanto in tanto a fare il diavolo davanti all’osteria, coi pugni sui fianchi, strillando che la Santuzza le rubava il marito”.
Le puttane terrone sono le peggiori.
RispondiEliminaMa anche gli uomini che circondano Santuzza non scherzano, quanto a stronzaggine.
RispondiEliminaSarò sincera: Aci Trezza mi è sempre parsa (famiglia Malavoglia a parte) popolata da una tal manica di stronzi disonesti e profittatori, talmente pronti a spolpare in qualsiasi modo lecito e illecito i Malavoglia al gran completo, che non mi è mai venuto in mente di distinguere tra maschi e femmine. Ai miei occhi carogne sono e carogne restano, in modo rigorosamente unisex!
RispondiEliminaEppure l'età a cui gli insegnanti (medie e, forse, biennio superiori) me l'hanno fatto leggere ha reso impossibile per me capire tutte le sfumature. Peccato, dovrò riprenderlo in mano. Nonostante sia più complesso di come lo ricordo, temo che non sia meno deprimente...
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