lunedì 15 maggio 2017

Lunedí Film - Romeo + Juliet (Film per le medie)

Ognuno ha le sue fissazioni. Tra le mie c'è l'assoluta necessità di familiarizzare i giovinetti con Shakespeare, che ai miei occhi è il pilastro portante della letteratura di tutti i tempi e un fondamento culturale imprescindibile.
Nessuna classe che abbia avuto a che fare con me per almeno un  anno è uscita dalle mie amorevoli mani senza essersi sciroppata almeno un film di Shakespeare, accuratamente selezionato in una ristretta rosa. Perché non tutto Shakespeare è facilmente digeribile ad uno stomaco tredicenne, e se io a nove anni trangugiai senza alcuna resistenza e anzi con grande entusiasmo un Re Lear integrale (recitato maluccio, sostenevano i miei, che poi si scusarono molto per la tortura che mi avevano imposto credendo fosse fatto meglio) visto in piedi appesa a una balconata, mi rendo conto che non tutti i giovinetti dispongono della mia totale dedizione alla causa. D'altra parte la cineteca shakespeariana ormai è molto vasta e comprende un ampio ventaglio di possibilità adatte a tutti gli stomaci.
Romeo + Juliet è un film del 1996 di Baz Luhrman che ha una notevole serie di frecce al suo arco, prima tra tutte un ritmo velocissimo che rende giustizia alla vicenda. Non ho mai capito perché tutti amano quegli allestimenti lenti e solenni dove i due protagonisti inanellano pazientemente i loro lunghissimi monologhi, avendo cura che allo spettatore non sfugga una singola sillaba delle varie raffinatissime metafore elaborate dall'autore. Per la lettura in privato va benissimo, ma sulla scena è la storia di due ragazzi tutt'altro che inclini a perdere tempo in raffinate introspezioni. In inglese, si capisce, la velocità della lingua aiuta, ma con una traduzione troppo attenta alle sfumature il ritmo diventa mooolto lento. Troppo.
La vicenda incalza. Nonostante rechi la dicitura romantic play il testo colleziona una serie di morti, duelli e avventure degni delle più tragiche tragedie, e la parte romantic non ha proprio nulla di platonico: al primo incontro i due si baciano dopo un minuto scarso di conversazione, al secondo si scambiano una promessa di amore eterno (e se non ci fosse di mezzo un balcone probabilmente si scambierebbero ben altro); al terzo incontro si sposano, al quarto si amano, e sappiamo tutti come finisce il quinto e ultimo incontro. 
E' la storia di un magnifico colpo di fulmine: la fanciullina, che un attimo e qualche riga prima non pensava minimamente né all'amore né tanto meno alle gioie coniugali, una volta visto Romeo cambia completamente idea sull'argomento e decide che se non potrà averlo, la tomba sarà il suo letto nuziale. Quanto a Romeo, fino a un attimo prima disperatamente invischiato in un amore senza speranza, dimentica tutto appena vede Juliet. Il ritmo infernale del film rende - finalmente! - giustizia a tutto questo. 
La seconda, lussuosa freccia all'arco del film è un Romeo meravigliosamente interpretato da Leonardo di Caprio, che nei primi anni di carriera era di una bellezza travolgente, oltre che già molto bravo.
La terza freccia, a sorpresa, è un ambientazione contemporanea, completamente pazza ma che in qualche modo funziona benissimo. La scena è spostata negli Stati Uniti, in una città dove due ricchissime famiglie a capo di cosche rivali fanno un casino incredibile, con grande disperazione dei poveri cittadini e soprattutto dello sceriffo locale. La prima scena, con la prima zuffa, si risolve in assai spettacolare rogo in un distributore e lo sceriffo che cala a bordo di un elicottero per sedare i due gruppi di litiganti che sembrano indemoniati. Certo, su un palcoscenico non si sarebbe potuto fare, ma a cosa serve avere a disposizione telecamere ed effetti speciali se non a utilizzarli?
La festa dove i due innamorati si incontrano è la più colossale e pacchiana festa in maschera che mente umana possa immaginare: tutto è estremamente sopra le righe, e tutto diventa curiosamente intimista mentre i due ragazzi si scambiano le prime parole, lontano dall'immane frastuono che imperversa nelle grandi sale. Lui è un cavaliere, lei un angioletta con splendide ali.
Un po' di buon senso da parte degli altri, tutti gli altri, porterebbe a lieto fine questo amore - ma il buon senso ce l'hanno soltanto i due innamorati e il povero Mercuzio, che non a caso finisce con la sua uccisione (causata da un incauto tentativo di impedire un duello) per innescare il meccanismo che porterà alla tragedia finale. I pazzi, si sa, nei drammi di Shakespeare sono spesso gli unici personaggi raziocinanti di tutto il mazzo, e per questo destinati ad una pessima e ingiustissima fine, esattamente come succede nel mondo reale (ma sul serio esiste qualcosa di più reale di un dramma di Shakespeare?).
I ragazzi si appassionano alla vicenda e fanno il tifo, pur sapendo benissimo come andrà a finire: perché quand'anche non conoscessero almeno per sentito dire che la storia va a finire male, l'annunciatrice televisiva si premura già nel primo minuto di film di ripetere due volte con grande chiarezza che i due amanti hanno le stelle avverse: nessun rischio di spoiler, in Romeo + Juliet.
Infine il ritmo del film rallenta: finite le sparatorie e le grida disperate la scena si sposta nella pacchianissima cappella mortuaria dei Capuleti, dove tutto potrebbe ancora finire bene e dove tutti sappiamo che invece andrà a finire malissimo.
I ragazzi aspettano, sperando contro ogni logica che Juliet si risvegli in tempo per impedire la morte di Romeo o che almeno i due riescano a parlarsi, quasi che non sapessero dalla notte dei tempi che per uno scarto di tempo infinitesimale questo non succederà - perché la scena dei due amanti che muoiono insieme senza riuscire a parlarsi è parte integrante da almeno duemila anni del nostro DNA culturale: Piramo e Tisbe, certo, ma anche Tristano e Isotta e tanti altri. Credo che davanti a un lieto fine la loro (la nostra) delusione sarebbe immensa: il fascino irresistibile di queste scene è proprio sperare contro ogni logica che tutto vada a finire bene nella felice consapevolezza che il lieto fine non ci sarà. E qui la scena della morte è lunga, lunghissima, con i tempi dilatati dall'ansia dello spettatore.

Finito il film, è assai opportuno lasciarsi un quarto d'ora buono di decompressione emotiva prima di consegnare le giovani creature nelle grinfie del teorema di Pitagora o del futuro inglese.

Neville Paciock / Longbottom, ovvero Colui Che Non E' Stato Scelto da Voldemort

Scegliere un cast di undicenni che dovranno lavorare su otto film in un arco di tempo di undici anni può presentare delle incognite, se i produttori non hanno una gran fortuna.

Passa un giorno e passa l'altro, ed è così arrivato anche il giorno della mia conferenza su Harry Potter, cui guardavo ormai da due mesi con grandissima preoccupazione: sarei stata bene quel giorno? Ce l'avrei fatta? Avrei retto adeguatamente il trauma, lo stress e la fatica o lo sforzo si sarebbe rivelato superiore alle mie deboli forze?
Tanto ero preoccupata di questo che a malapena rimaneva nel mio cuore un angolino per preoccuparmi di riuscire a parlare bene e con proprietà sviluppando gli argomenti in modo adeguato. Mi pareva che, se solo fossi riuscita a raggiungere quella pedana in un decoroso stato di benessere fisico, il resto sarebbe facilmente venuto da sé.
Di fatto, è andato tutto bene: un felice stato di benessere ha avvolto l'intera giornata, l'ottima pasta alle melanzane fornita dalla mensa scolastica e l'eccellente risotto alla zucca fornito da Sary hanno adeguatamente sostenuto il mio ancora debilitato e capriccioso organismo, e insomma ero in grande spolvero rispetto al mio solito. Invece di strisciare sono salita con passo fermo sulla pedana e ho parlato come dovevo.
Il pubblico era... simpatico, non mi viene altra parola per descriverlo: una bella nidiata di appassionati che si snodava su tre generazioni, tutti festosi all'idea che quella sera si sarebbe parlato della loro amata saga di Harry Potter; avevano tutti dei gran sorrisi e qualcuno portava al collo collane con giratempo, boccini e simili.
Ho parlato di scelte, naturalmente: la scelta di Voldemort di prendere sul serio la profezia, quella di Harry di andare con i Grifondoro eccetera eccetera. 
Alla fine, come si usa, ho chiesto se qualcuno aveva domande o osservazioni da fare, ma nessuno ne aveva, e dunque la conferenza è stata sciolta.

Solo allora sono venuti alla pedana a farmi le domande e le osservazioni - molto carine tra l'altro. Una ragazza mi ha chiesto se avevo fatto il test su Pottermore per sapere a che casa appartenessi (lei era un Corvonero, e le ho confessato che vorrei tanto essere Corvonero anch'io, ma probabilmente ero un Tassofrasso), un altra mi ha raccontato della sua gita nel parco a tema a Londra, mettendomi un gran desiderio di andarci a mia volta...
E un ragazzo ha fatto una domanda vera e propria: perché, se i possibili Avversari inizialmente erano due, ovvero Neville Longbottom e Harry Potter, Voldemort aveva stabilito che quello pericoloso era Harry ed era andato da lui?

Sono rimasta spiazzata. Silente non lo spiega, in effetti. 
Il ragazzo ha suggerito che forse Voldemort aveva studiato i due bambini e aveva capito che quello pericoloso era Harry; ma, a parte che Harry ha vissuto parte del suo primo anno coperto dall'Incanto Fidelius e quindi Voldemort non poteva studiare un bel nulla, sembra improbabile che si riesca a capire quanto sarà potente un mago da adulto osservandolo nel suo primo anno di vita. 
Ho suggerito che forse poteva dipendere dal fatto che i genitori di Harry erano maghi più potenti di quelli di Neville, e che quindi Voldemort avesse pensato che loro figlio sarebbe stato più potente del figlio dei Longbottom - un ipotesi come un altra, che comunque il ragazzo ha preso per possibile.
Arrivata a casa ho riletto le pagine dove Silente parla della possibilità che il Prescelto fosse Neville, e di nuovo ho preso atto che non c'erano spiegazioni sul perché Voldemort avesse stabilito che quello pericoloso era Harry.
Il giorno dopo ho chiamato un amica e abbiamo sviscerato la questione.
"Non sappiamo se Voldemort avesse effettivamente deciso che il più pericoloso era Harry. Soltanto che da qualche parte doveva pur cominciare, se voleva farli fuori" ha osservato.
"Quindi pensi che Voldemort abbia semplicemente avuto sfortuna?".
"Nemmeno. Chi ci dice che in casa Longbottom non sarebbe potuto succedere qualcosa di molto simile? Forse Voldemort non era semplicemente in grado di eliminare un bambino in quelle circostanze, la maledizione gli sarebbe comunque rimbalzata contro e Neville sarebbe diventato come Harry Potter, con tanto di cicatrice".
Del resto ce lo dice anche Silente: "La profezia ha valore solo perché Voldemort ha fatto in modo che l'avesse".

Che cosa sappiamo di Neville?
Ce lo presentano come un giovane mago molto imbranato, pacioccoso e un po' pauroso - non tanto, comunque, da non riuscire a trovare un coraggio di tipo particolarmente difficile: quello di opporsi agli amici per il loro bene. Proprio perché ha avuto il coraggio necessario per affrontare gli amici cercando di impedirgli di andare a prendere la Pietra Filosofale alla fine del primo libro Silente gli assegna i punti che faranno vincere a Grifondoro la Coppa delle Case. Al momento opportuno Neville (che non a caso ha un cognome che è anche il nome di un villaggio della Contea) sa accantonare le sue incertezze e tirare fuori le unghie, e da vero Grifondoro è in grado di estrarre la spada d'argento con i rubini dal Cappello. 
I Longbottom hanno il coraggio e la resilienza tipica degli hobbit: i genitori di Neville hanno perso la ragione sotto la maledizione Cruciatus - ma non l'hanno persa al punto di tradire la loro parte. Erano maghi di buon lignaggio, dagli illustri antenati, di buonissima reputazione, facevano parte dell'Ordine della Fenice - e da quel minimo che ci fa vedere Rowling erano anche loro attaccatissimi al figlio. Avrebbero saputo fare un incantesimo di protezione come quello di Lily dando la loro vita per lui e facendo così rimbalzare la maledizione scagliata da Voldemort?
E' senz'altro possibile.

Per tutti i sette libri Neville si presenta come un riflesso sbiadito di Harry. Un evento molto traumatico all'età di un anno ha reso i loro destini molto differenti: Harry ha perso i genitori e i ricordi a loro collegati la notte in cui il mago più potente della sua generazione cercò di ucciderlo ed entrò dentro di lui trasmettendogli una parte dei suoi poteri, è cresciuto orfano e in seguito ha affrontato quello stesso mago in duello cinque volte, oltre a entrare a sua volta dentro la sua mente; Neville è rimasto peggio che orfano perché ha sempre saputo che i suoi genitori erano vivi eppure irrimediabilmente lontani da lui, ed è cresciuto in una soffocante atmosfera iperprotetta e imbottita di sensi di colpa che ha molto attutito le sue capacità. Soltanto quando entra ad Hogwarts, passando gran parte dell'anno lontano dalla sua micidiale nonna (per tacere dell'ineffabile zio) riprende pian piano il contatto con le sue reali capacità, che sono notevoli.
I ruoli di Harry e Neville avrebbero potuto rovesciarsi, se il destino dei loro genitori fosse stato scambiato? 
Di nuovo: è possibile, perché i due sono molto simili nel carattere.

Al momento di scegliere il cast, nel lontanissimo 2000, solo Rowling sapeva che l'Imbranato del Grifondoro avrebbe mostrato più avanti un lato decisamente eroico; ma nemmeno lei era in grado di prevedere come si sarebbe evoluto il fisico dei giovani attori. Matthew Lewis sembrava un ottimo e pacioccosissimo Neville Paciock, mentre era sulla soglia della preadolescenza, e portava a meraviglia il suo pigiama con gli orsetti.
Con gli anni comunque è venuto su un Neville decisamente agguerrito, ma che a sorpresa è rimasto assolutamente in tema - anche se ha perso un po' della pacioccosità da hobbit, ammettiamolo:

Secondo questa teoria dunque Voldemort avrebbe avuto una sola scelta per andare in culo alla profezia: lasciare che i due bambini crescessero tranquilli per i fatti loro, mentre lui continuava a imperversare nel mondo magico.
Non sarebbe bastato a garantirgli l'immunità, certo: come Silente ricorda ad Harry "Hai idea di quanto i tiranni temano coloro che opprimono? Sanno benissimo che un giorno tra quelle molte vittime ce ne sarà certamente una che si leverà contro di loro e reagirà! Voldemort non è diverso! Ha sempre cercato chi l'avrebbe sfidato. Ha ascoltato la profezia ed è entrato in azione".
Impossibile che col tempo Voldemort non trovasse qualcuno abbastanza stufo di lui da scovare un modo per levarlo di torno (e anche quel sistema di seminare in giro frammenti di anima quasi fossero noccioline era tutto fuorché sicuro, a ben guardare).

Ultima considerazione: sappiamo che i Potter erano protetti da un Incanto Fidelius, mentre non risulta che Neville fosse coperto da niente ("non risulta" comunque non è lo stesso di "siamo sicuri che non"). Forse l'Incanto fu allestito dopo che Voldemort aveva torturato i Longbottom fino a farli impazzire? E forse dopo che la ragione (ma non la volontà) dei due maghi aveva ceduto  Voldemort stabilì che i Potter erano gli avversari più pericolosi?
Al momento la cronologia del primo anno di vita di Harry non è abbastanza chiara da fornirci una risposta.

martedì 9 maggio 2017

In compagnia di un albero o in unione con un albero?


Ad analisi logica non siamo poi molto avanti ma, vivaddio, nemmeno troppo indietro; del resto in terza usa comunque fare un ripasso a inizio anno, e usava già prima che istituissero le prove Invalsi. Insomma, tra tante cose piuttosto insolite che mi trovo a fare questo maggio (ad esempio un bel riepilogo dell'aldilà dantesco, o iniziare il libro di narrativa, per non parlare della marcia su Roma) il Complemento di Compagnia e di Unione non è certo la più strana, né la più difficile.
"In pratica, quando si parla di esseri umani o animali si chiama complemento di compagnia, quando si tratta di oggetti, cioè di qualcosa che non ha un anima, si chiama unione".
Tutti assentono, tranquilli. Ma ecco che Confucio alza la mano "E per le piante?".
Provo a pensarci su. La prima riflessione che mi viene in mente però, e  che non esterno, è che la mentalità è veramente cambiata se a qualcuno viene in mente di farmi una domanda del genere - del tutto sensata, del resto. Nello storico Tantucci dove ho studiato (molto malvolentieri) tanti anni fa, il complemento di unione valeva anche per gli animali, che quando costui aveva redatto il suo insulso libretto erano considerati forme di vita, sì, ma del tutto immeritevoli di essere paragonate a quell'essere superiore che era l'Uomo.
Da quando insegno però non ho mai trovato una grammatica che non specificasse che il complemento di compagnia valeva per uomini e animali - e giustamente, perché nessuno oggi è disposto a considerare il micio o il coniglio di casa alla stregua di un oggetto. 
Delle piante però non mi ricordo si fosse mai preoccupato nessuno; ma non c'è dubbio che le piante siano esseri senzienti, anche se di solito non esci con un albero, caso mai con un mazzo di fiori da portare a qualcuno.
"Se si tratta di una pianta viva, per esempio una sequoia o un azalea, è complemento di compagnia. Se si tratta di fiori recisi, o secchi, o legna da ardere allora è complemento di unione" improvviso "Ma ammetto di non sapere come ci si deve regolare per i bulbi". 
Sembrano piuttosto disponibili a lasciarmi il beneficio del dubbio per i bulbi. Anzi qualcuno alza la mano:
"Che cosa sono i bulbi?".
Una classe molto simpatica ma, ammettiamolo, con un vocabolario piuttosto limitato.