Gli Argonauti a bordo della nave Argo (vaso attico a figure rosse, 420-390 a.C.)
Apollonio Rodio è entrato nella mia vita in modo piuttosto casuale: anzi, se in prima liceo non avessimo tradotto una buona metà del quarto libro dell'Eneide, dove La Penna cita e ricita nel commento le sue Argonautiche, e se non avessi studiato quel commento con infinita dedizione, è probabile che eventuali e vaghi accenni sarebbero scivolati via dalla mia pur tenace memoria senza lasciar traccia. Nella massiccia antologia di epica che mi allietò durante gli anni delle medie* di Apollonio Rodio non c'era menzione, al ginnasio sospetto che la prof. De Divinis non ce l'abbia citato nemmeno di striscio.
Qualche anno fa però incrociai una traduzione BUR con testo a fronte e me ne impossessai prontamente.
In generale nessuno si spertica a cantare gran lodi delle Argonautiche, salvo ammettere che il terzo libro, dove Medea si innamora di Giasone, non è venuto niente male. Io me le lessi tutte, con grande dedizione e pazienza, rischiando seriamente di addormentarmi in più di un punto - d'altra parte l'epica è così, molto spesso - ma, in effetti, con l'arrivo di Medea, le cose migliorarono decisamente, anche se era chiaro che l'autore si ricordava un po' troppo della Medea di Euripide, dimenticandosi forse che né Medea né Giasone né alcuno degli argonauti all'epoca la aveva letta, che il passar degli anni cambia i caratteri e i sentimenti e che molti degli amori che finiscono da schifo a suo tempo erano iniziati con rutilanti fuochi d'artificio, e non da una parte soltanto.
Alcune scene mi erano però sembrate piuttosto spendibili, caso mai avessi trovato la classe adatta, e avevo attaccato un paio di segnalibri mentali al libro.
Quest'anno l'idea mi è tornata in mente: avendo passato gran tempo l'anno scorso tra goblin, draghi e anelli del potere, la Prima d'Ogni Grazia Adorna era rimasta molto indietro col programma di epica** e insomma aveva attaccato l'Odissea solo quando si era ormai trasformata in Seconda. Visto che l'epica nion era sembrata spiacergli ho quindi deciso di tentare, non fosse che per la soddisfazione di farne l'unica classe di scuola media del regno al corrente dell'esistenza di Apollonio Rodio e delle Argonautiche.
Al contrario di Omero, che si apprezza di più a grandi dosi visto che i suoi episodi sono piuttosto lunghi, Apollonio Rodio, da bravo poeta ellenistico, sta sempre a ricamare piccoli quadretti che si staccano con grande facilità dal quadro d'insieme. Così ho scelto il passaggio delle Simplegadi - un brano che a suo tempo riuscì a scuotermi improvvisamente da un gran sopore che mi avvolgeva tutta - con un taglio quasi cinematografico; poi, visto che la classe è in pieno passaggio adolescenziale, ho scelto anche il brano dove Afrodite manda il figlio Eros a scagliare la freccia contro Medea promettendogli una magica palla d'oro, e il lancio della freccia con relativi effetti su Medea: un po' di letteratura d'amore sarebbe stata senz'altro gradita, soprattutto tra le fanciulle, e potevo profittarne per un accenno sulle convenzioni letterarie legate all'amore che variano a seconda del tempo (mentre è forse possibile che l'amore in sé col passare dei secoli non sia granché mutato). Insomma, ci sarebbero stati diversi ami da agganciare.
Riletti i brani e constatato che non presentavano grosse difficoltà anche senza commento ho lavorato di fotocopiatrice e scodellato infine i frutti della mia ponderata riflessione alla classe. Unica variante rispetto alla solita routine: la prima lettura ad alta voce l'avrei fatta io, per permettergli di seguire meglio il significato del testo.
Il passaggio delle Simplegadi è scivolato via piuttosto bene, e la classe l'ha accolto con quel silenzio un po' assorto che di solito è segno di un certo coinvolgimento.
Quando è entrato in scena Eros mi sono un po' dilungata a richiamar loro alla mente tutte quelle statue e dipinti di amorini paffuti e vestiti solo di una fascia casualmente gettata di traverso (o non vestiti affatto) che tuttora popolano tante immagini anche modernissime. E tutto andava bene finché non è arrivato il lancio della freccia, che il traduttore, immagino per ragioni metriche, definisce "apportatrice di pene", ma se avesse trovato un'altra parola per me sarebbe stato tutto più comodo.
Quando è entrato in scena Eros mi sono un po' dilungata a richiamar loro alla mente tutte quelle statue e dipinti di amorini paffuti e vestiti solo di una fascia casualmente gettata di traverso (o non vestiti affatto) che tuttora popolano tante immagini anche modernissime. E tutto andava bene finché non è arrivato il lancio della freccia, che il traduttore, immagino per ragioni metriche, definisce "apportatrice di pene", ma se avesse trovato un'altra parola per me sarebbe stato tutto più comodo.
Soltanto quando la classe, dopo alquanto sgranare d'occhi, è esplosa in epiche risate inframmezzate da assai numerosi commenti mi sono accorta con orrore dello scoglio insidioso, che non avevo minimamente notato né alla prima né alla seconda lettura: ai miei occhi adulti e letterati una freccia apportatrice di pene è del tutto equivalente a una freccia portatrice di affanni, dolori o traversie - e invero, se il traduttore avesse parlato di una freccia portatrice di affanni la cosa sarebbe filata del tutto liscia, ma ormai la terribile parola "pene" era stata pronunciata, ed eravamo pure alla quinta ora.
In un lampo mi sovviene della mia seconda media, quando il verso di Leopardi "pene tu spargi a larga mano" elettrizzò l'intera classe - anche se cercammo, forse invano, di non far troppo notare la nostra reazione.***
In un lampo mi sovviene della mia seconda media, quando il verso di Leopardi "pene tu spargi a larga mano" elettrizzò l'intera classe - anche se cercammo, forse invano, di non far troppo notare la nostra reazione.***
Uscita fuor di controllo, la Seconda d'Ogni Grazia Adorna non riesce a rispondere alla mia ripetuta domanda "Signori, perché la freccia è chiamata portatrice di pene, ovvero di affanni, di dolori, di dispiaceri?". Anche i più bravi sembrano del tutto incapaci di venirne a capo. Solo quando rivelo ciò che non avevo pensato di dover svelare dando per scontato che tutti lo sapessero****, ovvero che "pene" va inteso come plurale di "pena", l'Onesto Iago riesce infine ad operare il collegamento: "Perché l'amore può portare anche sofferenza".
Davanti a questa nuova prospettiva con cui interpretare il verso la classe improvvisamente si calma - e questo è stato senza dubbio il momento più sorprendente per me.
Zitti, tranquilli, attenti - qualcuna annuisce ogni tanto - ascoltano il seguito: la freccia che entra silenziosa, il dolore dolcissimo, la fiamma che arde nascosta, la filatrice che attizza il fuoco con i fuscelli facendolo divampare, le guance ora pallide ora rosse. Si sciroppano perfino il mio discorsetto sulle convenzioni letterarie legate alla descrizione dell'amore.
Poi eseguono la lettura dei brani - una bella lettura chiara e ben fatta, e la temutissima parola suscita solo una lieve increspatura nella voce di chi legge.
Poi eseguono la lettura dei brani - una bella lettura chiara e ben fatta, e la temutissima parola suscita solo una lieve increspatura nella voce di chi legge.
Quando suona la campana, la classe esce decorosamente, sì come suole.
Il nostro è invero un mestiere affascinante e sempre ricco di sorprese.
*"Dal mito alla storia", volume a dimensioni decisamente elefantiache. Molto bello, tra l'altro.
**Non faccio letteratura, ma epica la faccio sempre con gran cura, in base al principio che ai ragazzi piace.
***A torto o a ragione, il testo sull'antologia era una versione monca, che si fermava proprio prima della tirata filosofica "Sì dolce, sì gradita" evitando con ciò la pericolosissima parola "pene". Tale parola entrò in scena solo perché uno di noi, in un attacco di esibizionismo e del tutto volontariamente, se l'era imparata a memoria in versione completa. Venne naturalmente chiamato a recitarla, e la recitò. In versione completa. Insomma, l'insegnante non aveva minimamente peccato di imprudenza né mancato di buon senso, era stato un incidente inevitabile.
****Che è di gran lunga l'errore più frequente, insegnando. In questo caso credo che la parola "pena" la conoscessero tutti, soltanto che in quel momento erano incapaci di rapportarla in qualche modo alla parola "pene", in quel momento per loro esclusivamente sostantivo maschile e singolare. Una specie di corto circuito, ecco.
Uno di quei misteri su cui le giovani menti non sono in grado di soffermarsi: come potrebbe mai, una freccia, apportare pene (maschile, singolare)?
RispondiEliminaLode a te, Murasaki, per aver superato, impavida, l'impasse...
RispondiEliminaE dire che, millanta anni fa, nei miei primi anni da insegnante, avevo alunni che ridevano fino alle lacrime di fronte all'espressione 'boccale' (di birra) che richiamava alle fervide menti, il vaso da notte (el bocàl).
Così va il mondo...
ahahahahah!
RispondiEliminatipico da II media.
E anche da II del biennio, aggiungo...
RispondiEliminaConfesso che, in qualche circostanza, e con alunni vivaci, anch'io ho corso il rischio di ridacchiare, scorgendo, qua e là, i loro sorrisetti trattenuti o mascherati.
RispondiElimina@LGO:
RispondiEliminaebbene, sappi che qualcuno ci ha perfino provato, a spiegarlo. Sorvoliamo sui risultati e sulla parte che si è preso, non fosse che in difesa del più elementare buon senso.