La vita delle eroine nei romanzi, si sa, è costellata di pericoli e insidie e non necessariamente destinata a buon fine; ma giustizia vuole che, insieme a questi inconvenienti vi siano anche vantaggi tutt’altro che secondari: una travolgente storia d’amore, prima di tutto, ma anche la possibilità di mettere alla prova il proprio carattere affrontando nemici e avversità, l’incontro con personaggi famosi e altolocati, vivaci mutamenti di ambienti e di paesaggi etc. - tutte cose piuttosto rare nella vita delle comuni mortali.
Grazie alla perfidia del suo creatore, la sventurata Lucia si ritroverà invece a subire tutte le consuete scomodità legate al suo ruolo da protagonista (insidie da parte di un potente, allontanamento dal fidanzato prima e dalla madre poi, un rapimento, una grave malattia) senza averne i corrispondenti vantaggi, anche se alla fine del romanzo e’ ancora viva e in buona salute (e per una protagonista dell’epoca la cosa era tutt’altro che scontata).
Per contro la poverina passa tutto il romanzo annoiandosi notevolmente, tranne nei non rarissimi momenti in cui ha paura: dal tranquillo paesello si ritrova dopo un breve viaggio in un monastero di clausura (che non è proprio il massimo del divertimento) da dove, dopo un breve intermezzo, raggiungerà Milano al seguito di una nobildonna, per liberarsi della quale non v’è lettore che non sarebbe disposto a tagliarsi una mano. Lì prenderà la peste, con conseguente soggiorno al lazzaretto (altro luogo di assai scarne attrattive), per riunirsi infine all’innamorato e tornare con lui al paesello natio dove i due si sposeranno.
L’unica vera avventura che Manzoni le riserba in trentotto capitoli di romanzo è un rapimento - una Grande Avventura, in verità, da cui normalmente il romanziere riesce a ricavare grandissime scene a effetto. Il rapimento di Lucia però manca quasi del tutto di tratti romanzeschi.
Eppure le premesse spettacolari c’erano tutte: Lucia viene rapita (nientemeno) da un monastero, con la complicità di una suora e su richiesta di un gran signore che ha delle mire su di lei e che lei ha sempre rifiutato. Inoltre, grazie a questo rapimento, un personaggio Davvero Cattivo si convertirà, il che per un’eroina è senza dubbio una bella corona di vittoria. Il risultato artistico dell’episodio è notevole, la sua influenza nella trama è indubbia, ma di Grandioso ed Eroico c’è ben poco, come risulta evidente se proviamo a confrontare questo rapimento con quello di un romanzo quasi contemporaneo: Ivanhoe di Walter Scott, pubblicato nel 1823.
Iniziamo dal Perfido Mandante del rapimento, ovvero don Rodrigo, un nobile spagnolo di grandissima casata. Il personaggio non ha niente di titanico, e quel che prova per Lucia viene sì definito “passione” da Manzoni, ma descritto più dettagliatamente come “quel misto di puntiglio, di rabbia e di infame capriccio, di cui la sua passione era composta”. In effetti niente in quel che intravediamo nei pensieri e nell’animo del nobile spagnolo nel corso del romanzo ci induce a pensare diversamente: il capriccio per Lucia è nato per caso in don Rodrigo durante una passeggiata, e si è rafforzato grazie ad una scommessa fatta con il cugino - una scommessa di cui non conosciamo i termini precisi ma che, ci viene fatto capire, non prevede un’opera di seduzione o il consenso dell’interessata.
Infatti Rodrigo non tenta nessun tipo di corteggiamento, e conduce l’affare come una scaramuccia di guerra: blocca il matrimonio di Lucia minacciando il parroco del paese, tenta una prima volta il rapimento senza successo (capp. VII-XI), lo tenta una seconda volta delegandolo a persona più competente, finisce per lasciar perdere tutto (e già questo, in un Eroe Negativo, è abbastanza insolito). Quanto a lui, si limita a stare ad aspettare che altri facciano tutta la fatica per portargli Lucia su un piatto d’argento. Notti insonni e giorni angosciosi invocando il nome della sua amata non risulta che ne passi. Il massimo del sentimentalismo cui lo vediamo arrivare è quando si immagina l’arrivo di Lucia dopo il rapimento (il primo, quello che non riesce):
“Ma il pensiero sul quale si fermava di più, perché in esso trovava insieme un acquietamento de’ dubbi, e un pascolo alla passion principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse che adoprerebbe per abbonire Lucia. “Avrà tanta paura di trovarsi qui sola, in mezzo a costoro, a queste facce che... il viso più umano qui son io, per bacco... che dovrà ricorrere a me, toccherà a lei pregare; e se prega...” (capitolo XI).
Per il resto del tempo lo vediamo preoccuparsi e arrabbiarsi quando pensa a Lucia - non già per il suo amore non corrisposto, ma per il timore di eventuali strascichi con la giustizia a seguito del rapimento, o di non essersi mostrato all’altezza del decoro della sua famiglia e dei suoi antenati fallendo nella mirabile impresa di violentare una contadina, e soprattutto per la paura dei lazzi e dello scherno del cugino.
Il secondo rapimento di Lucia viene tentato proprio per una questione d’onore:
“Un monastero di Monza, quand’anche non ci fosse stata una principessa, era un osso troppo duro per i denti di don Rodrigo; e per quanto egli ronzasse con la fantasia intorno a quel ricovero, non sapeva immaginar né via né verso d’ espugnarlo, né con la forza né per insidie. Fu quasi quasi per abbandonar l’impresa; fu per risolversi d’andare a Milano, allungando anche la strada, per non passar neppure da Monza; e a Milano gettarsi in mezzo agli amici e ai divertimenti, per discacciar, con pensieri affatto allegri, quel pensiero divenuto ormai tutto tormentoso. Ma, ma, ma, gli amici; piano un poco con questi amici. In vece d’una distrazione, poteva aspettarsi di trovar nella loro compagnia nuovi dispiaceri: perché Attilio certamente avrebbe già preso la tromba, e messo tutti in aspettativa. Da ogni parte gli verrebbero domandate notizie della montanara: bisognava render ragione. S’era tentato; cosa s’era ottenuto? S’era preso un impegno: un impegno un po’ ignobile, a dire il vero: ma, via, uno non può alle volte regolare i suoi capricci; il punto è di soddisfarli; e come s’usciva da quest’impegno? Dandola vinta a un villano e a un frate? Uh! E quando una buona sorte inaspettata, senza fatica del buon a nulla, aveva tolto di mezzo l’uno, e un abile amico l’altro, il buon a nulla non aveva saputo valersi della congiuntura, e si ritirava vilmente dall’impresa. Ce n’era più del bisogno, per non alzar mai più il viso tra i galantuomini, o avere ogni momento la spada alle mani.” (capitolo XVIII)
Mosso da sì gravi considerazioni don Rodrigo “il quale non voleva uscirne, né dare addietro, né fermarsi, e non poteva andare avanti da sé” si decide, dopo l’ennesima lettera di Attilio “che faceva un gran coraggio, e minacciava di gran canzonature”, di ricorrere all’aiuto di un tale “le cui mani arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri” - in pratica, di subappaltare il rapimento sfruttando un credito passato rivolgendosi a un personaggio assai inquietante: l’innominato.
E proprio davanti all’innominato vediamo don Rodrigo darsi una brusca ridimensionata, nel suo pellegrinaggio verso il castello arroccato tra i monti dove arriverà solo dopo aver deposto in varie tappe cavalcatura, armi, seguito: è chiaro che questa volta non è il più forte, e c’è qualcosa di sottomesso nel suo modo di rivolgersi all’innominato: “disse che veniva per consiglio e per aiuto; che, trovandosi in un impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi, s’era ricordato delle promesse di quell’uomo che non prometteva mai troppo, né invano”. L’innominato invece “licenziò don Rodrigo dicendo: - tra poco avrete da me l’avviso di quel che dovrete fare”.
Stavolta il rapimento si svolge in fretta e bene: nel giro di due pagine la palla passa dall’innominato a Egidio, da Egidio a Gertrude, e Lucia si ritrova sola soletta per la strada dove la aspetta la carrozza del Nibbio (una variante del Griso, solo più efficiente): “Tutto a un puntino, l’avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessun incontro”.
Consuetudine vuole che l’eroina rapita si renda conto quasi subito del mandante del rapimento (anche perché, di solito, questo viene effettuato dal diretto interessato) e che ben presto faccia appello alla sua forza d’animo per affrontare con coraggio la situazione prima, e il suo aspirante seduttore poi, ben decisa a difendere vita e onore nel migliore dei modi.
Lucia invece si limita a piombare a corpo morto in una spirale di terrore da cui comincerà a uscire solo a tarda notte. Prova a urlare e a divincolarsi - invano. Sviene. Poi sviene di nuovo. Piange. Si dispera. Supplica. Prega (sia i rapitori che le potenze celesti). Sempre la solita richiesta “Lasciatemi andare, lasciatemi andare”. Di forza d’animo, nemmeno l’ombra. I bravi tentano di calmarla e di rassicurarla, ma lei nemmeno li sente.
“Accorata, affannata, atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non facevano nessun colpo, Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini, e può, quando voglia, intenerire i più duri. Si strinse più che poté, nel canto della carrozza, mise le braccia in croce sul petto, e pregò qualche tempo con la mente; poi, tirata fuori la corona, cominciò a dire il rosario, con più fede e più affetto che non avesse ancor fatto in vita sua. Ogni tanto, sperando d’avere impetrata la misericordia che implorava, si voltava a ripregar coloro; ma sempre inutilmente. Poi ricadeva ancora senza sentimenti, poi si riaveva di nuovo, per rivivere a nuove angosce. Ma ormai non ci regge il cuore a descriverle più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci affretta al termine di quel viaggio, che durò più di quattr’ore”. (Cap. XX)
E’ un’agonia per la protagonista, è un’agonia per l’autore; lo è anche per il lettore, che sa benissimo che tutte quelle suppliche sono assolutamente inutili e vorrebbe vedere la ragazza sfoderare un po’ di coraggio, una buona volta. Quello che non è previsto è che sia un’agonia anche per i rapitori.
“Dico il vero, che avrei avuto più piacere che l’ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso. [...] Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M’ha fatto troppa compassione.”
L’idea di associare la parola “compassione” al Nibbio lascia sbalordito l’innominato.
“-Compassione! Che ne sai tu di compassione? Cos’è la compassione?
-Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso non è più uomo.”
Per vedere questa meraviglia, capace perfino di ispirare compassione al Nibbio, l’Innominato si prende la briga di andare a vedere da vicino Lucia.
Trova un essere stremato e tremante, che solo sotto la spinta di un nuovo terrore riesce a muoversi. Le sue prime parole sono “Son qui, m’ammazzi”, il resto è di conseguenza.
Non è un confronto, non è uno scontro, è il grido dell’agnello portato al mattatoio. Lucia non ha coraggio, si limita a pregare “giungendo le mani come avrebbe fatto davanti a un’immagine” in preda a una violenta sindrome di Stoccolma: “Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera creatura. Se lei volesse potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi morire; e in vece mi ha... un po’ allargato il cuore. Dio gliene renderà merito.” Invoca disperatamente sua madre, supplica di essere lasciata andare... Ma per quanto sia spaventata a morte, una cosa le è rimasta: la consapevolezza della sua innocenza, “l’indegnazione disperata”. Sarà questa estrema arma di difesa delle vittime che finirà per far provare compassione anche all’innominato.
Nell’onda di terrore che l’ha travolta, Lucia non ha fatto caso alle parole con cui i rapitori hanno cercato di calmarla, e nemmeno ha prestato il minimo ascolto ai tentativi della vecchia di confortarla (piuttosto maldestri, in verità, come maldestri erano quelli dei bravi). A malapena ascolta anche le parole dell’innominato. Tutti le dicono di stare tranquilla, ma, per quanto stordita dal terrore, sa benissimo che non c’è nessun motivo di stare tranquilla. L’unica parola che quasi passa nella nebbia che la avvolge è il “domattina” dell’innominato, cioè una vaga promessa di liberazione. Partito l’innominato torna nel suo cantuccio, dove rimane in uno stato molto vicino al collasso per qualche ora, immobile, riscuotendosi solo per supplicare che la porta sia chiusa, chiusa, chiusa.
Nel frattempo la vecchia “le fa coraggio”, sempre con la stessa destrezza e lo stesso risultato, poi cena, poi si corica. Il buio e il silenzio riportano lentamente Lucia fuori dal suo stordimento; ad un mondo di terrore, si capisce.
“ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l’aiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso. L’infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell’orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell’avvenire, l’assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell’abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento e fu vinta da un tale affanno che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un’improvvisa speranza.” (capitolo XXI)
Per un attimo il lettore si sente ricondotto su un terreno familiare: le brave eroine hanno spesso una fede incrollabile, dalla quale attingono coraggio e forza d’animo nelle sventure; e nessuno può negare che la devozione di Lucia sia profonda e autentica.
Lucia prega, e mentre prega sente crescere “una fiducia indeterminata”. E improvvisamente le viene in mente, per rafforzare la sua preghiera, di fare un’offerta. Un voto.
“Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento, l’animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio.” (capitolo XX, il corsivo è nostro)
Questo è un comportamento del tutto fuor di luogo in un’eroina. Al Grande Amore si può certo rinunciare, in uno slancio di sacrificio, ma sempre per la salvezza di qualcuno: per il bene dell’amato stesso, o del suo onore o dei suoi cari, in qualche caso anche per la salvezza dei propri genitori o fratelli (o dei figli, nel raro caso in cui ce ne siano); ma l’amante sacrificato per semplice paura proprio non si dà.
Fino a questo momento Renzo non è mai stato invocato né nominato: nello stato di terror panico in cui Lucia è piombata era rimasto spazio per la madre, vista come porto e rifugio, ma Renzo era rimasto fuori. Ritorna solo dopo molte ore, e solo quando Lucia comincia a chiedersi che cosa sacrificare.
La preghiera alla Vergine, nel suo genere, è agghiacciante:
“fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinuncio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri che vostra” (capitolo XXI, il corsivo è nostro).
Quella di “poveretto” sembra a questo punto una definizione molto appropriata per Renzo, che per quante ne passi invece non si dimenticherà mai della sua fidanzata - e l’unica attenuante per Lucia è di essere quasi impazzita per la paura, visto che non le viene nemmeno in mente che, come le ricorderà più avanti fra’ Cristoforo, non si può promettere la stessa cosa due volte e lei a Renzo non può più rinunciare, dopo aver dato la sua parola. (Per la verità non viene in mente nemmeno al lettore, di solito).
Dopo la preghiera Lucia si addormenta “d’un sonno perfetto e continuo”, indizio di una serenità d’animo finalmente ritrovata. Si risveglia a nuova paura, ma solo per breve tempo: l’ultima crisi di terrore, quando la porta si apre, le porta don Abbondio e una brava donna che la conducono fuori dal castello. Il nuovo incontro con l’innominato non ha niente di sensazionale, anche se lui le chiede perdono: la sindrome di Stoccolma sta dileguando, e nella ragazza rimane soprattutto il ricordo della paura, più una vaga benevolenza verso l’uomo che andrà rafforzandosi in misura direttamente proporzionale al suo grado di lontananza da lui.
La buona donna porta la ragazza a casa, dove Lucia comincia finalmente a tornare alla vita: si risveglia l’appetito, dopo un giorno di digiuno (non forzato: l’innominato aveva fatto portare una cena ottima e abbondante, finita però tutta nello stomaco della vecchia), si parla della virtù del perdono. Ritornata in sé la ragazza comincia a sistemarsi le trecce e lo scialle e trova il rosario intorno al collo:
“La memoria del voto, oppressa fino allora e soffogata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò d’improvviso, e vi comparve chiara e distinta. Allora tutte le potenze del suo animo, appena riavute, furon sopraffatte di nuovo, a un tratto: e se quell’animo non fosse stato così preparato da una vita d’innocenza, di rassegnazione e di fiducia, la costernazione che provò in quel momento, sarebbe stata disperazione. Dopo un ribollimento di que’ pensieri che non vengono con parole, le prime che si formarono nella sua mente furono: “oh povera me, cos’ho fatto!”. (capitolo XXIV)
L’assai comprensibile e condivisibile esclamazione, se pure conferma una volta di più il lettore che Lucia è del tutto priva di tempra eroica, lo rassicura però sul completo ritorno della salute mentale della fanciulla.