giovedì 18 dicembre 2008

Memorie di una bambina quasi perbene


Questo è il brano  (rigorosamente autobiografico) con cui ho partecipato al gigantesco Amarcord scolastico organizzato e ospitato da Flaviablog
Lei lo ha ornato con un pezzetto di alfabetiere all'incirca di quegli anni (ha una collezione di illustrazioni di vecchi libri di scuola che tutti lì le invidiamo profondamente). Io invece ho ripescato quello che già all'epoca era una delle mie letture preferite: i Peanuts, e in particolare il giovanissimo Linus quando si innamora perdutamente della sua prima insegnante, miss Othmar. Del resto anch'io ho molto amato la prima maestra, mentre la seconda mi dava l'orticaria. E in effetti uno dei Grandi Inconvenienti del Maestro Unico è proprio questo: come vivi la scuola, se il tuo Unico Punto di Riferimento ti fa venire il latte alle ginocchia?


La mia scuola elementare era enorme: un bell’edificio del ventennio costruito senza risparmio, con grandi finestre, grandi corridoi in  marmo lunghi più di novanta metri, grandi aule luminose e un grande giardino dove non abbiamo mai giocato perché “potevamo farci male”.
Era un bene che tutto fosse grande, perché erano grandi anche i numeri. Erano gli anni sessanta, in pieno boom demografico, e quando facevo la terza abbiamo passato i duemila iscritti, con sette sezioni maschili e sette femminili (siamo stati l’ultima scuola di Firenze a tenere separati maschi e femmine). Ogni classe passava i trenta alunni; nella mia eravamo trentatré bambine.
Anche i grembiulini erano divisi per sesso: angelicamente bianche noi, neri come corvi i maschi. A ricreazione i maestri ci mettevano in fila per due: lunghi cortei di angiolette bianche e di corvi neri scivolavano in corridoio senza accalcarsi. Era molto raro che due classi entrassero in contatto per qualche attività comune - in effetti era molto raro che facessimo qualsiasi cosa che non fosse stare in classe a fare lezione. 
Il nostro era un quartiere ricco, di professionisti e funzionari. Fiumi di madri ben impellicciate e ingioiellate venivano ogni giorno a prenderci all’uscita, causando immani ingorghi. Quelle poche che non avevano pellicce né gioielli né una villetta di lusso dove  riportare la prole al termine delle fatiche scolastiche immagino dovessero sentirsi un po’ a disagio. 
In classe mia c’era una bambina quasi povera (o forse povera per davvero, non lo so) con qualcosa di diverso dalle altre. Le più informate ne accennavano sussurrando ma, sospetto, senza avere le idee molto chiare in proposito. Ancor meno avevo le idee chiare io, ma vedevo bene che non era del nostro mondo e, come le altre, la tenevo anch’io un po’ a distanza, ma senza grande convinzione. Sparì dopo la seconda, non so se perché bocciata o trasferita o che altro.
Mia madre non aveva pellicce né gioielli, e in casa avevo assorbito la vaga convinzione che pelliccia e gioielli fossero un tantino out. Ai miei occhi lei era qualche gradino sopra le altre madri perché lavorava; guarda caso lavorava appunto nella mia scuola, dove insegnava alla Classe Differenziale, ovvero il piccolo ghetto in fondo al corridoio dove stavano i mongoloidi (era il nome ufficiale, all’epoca) che avevano orari sfalsati rispetto ai nostri per non turbare con la loro spiacevole vista la nostra infanzia normale.
Ero figlia di un’insegnante e la scuola per me era cosa nota, perciò non soffrii particolari traumi il primo giorno e non mi capacitavo che tante compagne si sciogliessero in lacrime come se le avessero portate al mattatoio. A parte la notevole seccatura di alzarmi presto la mattina la scuola anzi non mi dispiaceva, perché non avevo nessuna difficoltà a capire quel che mi spiegavano e neanche a metterlo in pratica: avevo una bella lettura espressiva, calcolavo in fretta e bene, mandavo a memoria senza sforzo lunghe poesie, scrivevo...
Ecco, scrivevo, o almeno ci provavo. L’ortografia non era un problema per me, ma la forma delle lettere sì: mi venivano proprio malandate. E i miei quaderni erano pasticciati. Tutte le mie compagne, senza eccezioni, erano infinitamente più ordinate e precise di me. 
Per esempio il grembiule. Entravamo in classe ogni giorno con il grembiulino immacolato, ma il grembiulino delle altre era immacolato anche all’uscita, e restava immacolato per tutta la settimana, mentre il mio, dopo una sola mattinata, era un campo di battaglia dove ogni pennarello che avevo sfiorato aveva lasciato tracce evidentissime, per tacere delle penne a sfera che in mano mia versavano regolarmente fiumi di inchiostro per ogni dove, neanche fossero state stilografiche. Ogni pomeriggio, per cinque anni, mia madre lavò un grembiule e ogni sera lo stirò per consegnarmelo immacolato la mattina seguente e ricominciare imperterrita la stessa trafila all’indomani senza lamentarsi (quasi) mai.
Anche i miei quaderni sembravano campi di battaglia. Quelli delle mie compagne erano squisitamente rileccati e ornati di splendide cornicine intorno agli esercizi (autentici capolavori in cui fiori, frutta, casette e raffinati motivi geometrici colorati con gusto incorniciavano  esercizi impeccabilmente ordinati), mentre i miei erano logori, macchiati e ornati al più di scialbe sfilate di quadratini o crocette - di più proprio non mi riusciva fare, e giuro che ci ho provato.  
La mia mortificazione era grande. Mi disapprovavo per il mio gran disordine, mi disapprovavo profondamente, ma non sapevo che farci. Vedevo però che miglioravo col tempo: passai un pomeriggio, agli inizi della seconda, cancellando quel che avevo scritto (a lapis) sui quaderni di prima e riscrivendolo nella mia assai più ordinata scrittura di un anno dopo; quando se ne accorse, mia madre quasi si strappò i capelli, anche se io non riuscivo a capire il motivo: non vedeva com’era tutto molto più leggibile? 
Solo col passare degli anni ho compreso il valore che un quaderno pasticciato (ma originale) può avere agli occhi di una madre.

All’università ritrovai la più ordinata delle mie compagne, quella i cui quaderni, ricchi di splendide cornicine, erano regolarmente mostrati a esempio a tutta la classe. Aveva una scrittura rozza ai limiti dell’incomprensibile. 
Dal canto mio, col tempo e la pazienza,  avevo sviluppato una grafia un po’ scialba ma molto facile da leggere.

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