Il mio blog preferito

venerdì 24 febbraio 2023

Siedi sulla sponda e aspetta, vedrai passare di tutto

Come tutti gli ucraini, anche i gatti di laggiù hanno un forte senso patriottico

Alle 4.07 di stamani, 24 Febbraio 2023, la guerra in Ucraina ha compiuto un anno.
E' stata sin dall'inizio una guerra complicata e terribilmente faticosa anche per chi come me la seguiva dalla poltrona, rigorosamente su YouTube perché i consueti notiziari mi sembravano vuoti e scarsamente informati.
L'ho seguita e la seguo con estrema dedizione, sciroppandomi le cartine militari e un sacco di live dei più vari canali, perfino uno filorusso, che rappresenta con estrema fedeltà la narrazione della guerra che il governo russo cerca di portare avanti, e dunque in certi casi può risultare interessante.
Ho evitato con cura di farmi una cultura sulle armi perché mi sembrava una causa senza speranza: di fatto, riesco a malapena a distinguere un carro armato da un paracarri, ma se anche decidessi di approfondire la mia cultura e uscissi dal limbo in cui il Leopard è un bell'animal con la pellicc maculat, cosa cambierebbe? Non è che aspettano me per decidere le strategie di guerra, e davvero fanno benissimo a non farlo. 
Tuttavia perfino una persona della mia totale ignoranza può trovare spunti di interesse, nel seguirne le alterne vicende armamentali (chissà se si dice così; ma ne dubito). 
E' una guerra combattuta tra due stati che un tempo han fatto parte dello stesso esercito e usato le stesse armi. L'Armata Rossa aveva un grandissimo arsenale, e fino a una certa data (inizio anni 80?) si trattava di roba davvero efficiente, tenuta con gran cura perché da un momento all'altro c'era la possibilità di dover combattere contro la NATO. Poi, piano piano, molte cose sono state abbandonate, stoccate, cannibalizzate, abbandonate - ché le armi costano parecchio quando le compri, ma costa anche tenerle in efficienza, e questo lo capisci anche con una laurea in latino medievale. Così abbiamo visto riemergere dai cimiteri dell'Armata armi degli anni 80, poi 70, poi 60... gli esperti di storia militare ci sono andati in sollucchero, come un medievista se trovano la tomba di un re longobardo appena scoperta.
E poi c'è l'altra caratteristica delle armi vecchie: funzionano solo con proiettili di vecchio tipo. E tutti i paesi dell'ex-Patto di Varsavia a frugare in cantina per vedere se trovavano qualche cassa di proiettili da dare all'esercito ucraino che, poverello, era rimasto a corto quasi subito, e a tirare fuori reperti museali e a rimetterli in forza per passarli ai vicini sotto attacco, mentre i soldati ucraini andavano all'estero a imparare a usare le armi nuove promesse dagli occidentali. E i meccanici russi e ucraini che si davano all'archeologia cercando di rendere efficiente questo e quello e a dare la caccia ai pezzi di ricambio. 
Fantasmi, fantasmi ovunque. Una guerra del XXI secolo combattuta con armi del XX più o meno restaurate, con modalità dell'inizio del XX secolo e qua e là spuntavano puntatori elettronici che andavano in qualche modo adattati alle vecchie armi... la Storia ha strani modi di vendicarsi.
Quasi subito si è cominciato a parlare moltissimo di logistica, una strana parola che conoscevo a malapena e che sta a indicare tutto ciò che riguarda l'organizzazione militare, dai rifornimenti all'addestramento degli uomini alla manutenzione e riparazione delle armi. Ho dunque imparato che sul piano logistico i russi funzionano malissimo e nemmeno gli ucraini erano dei fulmini di guerra ma si sono dimostrati disponibilissimi a fare i compiti a casa. Bravi ragazzi.
Naturalmente sono favorevolissima all'invio delle armi e dispostissima ad applaudire financo l'attuale Presidente del Consiglio se le manda*. Brava ragazza.
E di punto in bianco mi sono ritrovata nell'insolita parte di guerrafondaia militarista nonché filoamericana. La cosa non mi ha creato alcun problema sociale perché nel mio piccolo universo la mia posizione è talmente condivisa che nemmeno ne parliamo, e l'attuale presidente russo non è affatto ben visto (e non voglio nemmen provare a ridire come ne parlano gli alunni, con cui per vari motivi storici e geografici mi ritrovo a sfiorare l'argomento non meno di una volta a settimana). 
Lo strano è che ho sempre condiviso l'atteggiamento un po' snobistico del "sì, gli americani sono antipatici e imperialisti" pur possedendo solo strumenti informatici Apple, ascoltando di buon grado musica americana e guardando con gran piacere film e telefilm americani oltre a pascolare volentieri da McDonald. 
E sono sempre stata molto pacifista e contraria alle spese militari. Mettete dei fiori nei vostri cannoni, date alla pace una possibilità eccetera eccetera.
E ho odiato con tutte le mie forze le due guerre del Golfo (sì, anche quella con l'autorizzazione ONU. Davvero, non mi ha affatto convinta). All'epoca della seconda anzi venivo regolarmente insultata - non tanto io singolarmente in qualità di  Murasaki, ma quanto anonima partecipante tra chi deprecava queste guerre di aggressione e veniva definito perciò pacifinto perché sì, è vero che le guerre sono un male ma non quelle dove il governo decide di mandarci. A capo del governo ai tempi della guerra del 2002 c'era un tale (che ci ha pure fatto partecipare alla guerra in Afghanistan anche se, come ho scoperto in seguito, nessuno ce l'aveva chiesto e che in fin dei conti non è poi finita in modo così onorevole né per noi né per nessun altro) che non godeva delle mie simpatie, e sui suoi giornali e nelle sue televisioni veniva spesso esposta la curiosa tesi che sì, la pace, la pace, ma chi era contrario alla seconda guerra in Iraq lo era perché mancava di fibra morale. Io ero molto fiera di mancare di fibra morale, e avrei tanto voluto stare con i francesi e i tedeschi, che quella guerra si limitarono a guardarla da lontano rifiutando decisamente di averci a che fare. Ma sto divagando.
Insomma, sono guerrafondaia e pazienza, ma non riesco a capire perché sia deplorevole aiutare chi è stato attaccato, soprattutto se si trova a un passo dai confini di casa mia, che di fatto è l'Unione Europea.
E anche i polacchi mi sono sempre stati abbastanza sull'anima, ma ho molto apprezzato quella loro decisa tendenza a dar via anche le mutande per mandare soldi (e armi) all'Ucraina e frugare nelle cantine a caccia di residuati bellici.
Al contrario dei polacchi, i russi invece mi sono sempre piaciuti molto: ho un piccolo scaffale di classici russi, ho fatto una bella ricerca sulla rivoluzione russa per l'esame di terza media, tengo Il Maestro e Margherita sull'altarino, adoro l'inno russo (in versione comunista, dove citano Lenin), il mio film preferito è russo e a Natale in casa lo Schiaccianoci imperversa per settimane e settimane, senza contare che adoro il balletto classico. Mi dispiace molto che i russi si siano cacciati in questo pasticcio e vorrei tanto che la loro mattanza finisse - dopotutto, gli ucraini hanno almeno la soddisfazione di morire per difendere casa loro, mentre i poveri ragazzi russi mandati in guerra con l'equivalente delle nostre scarpe di cartone nemmeno quello, e ne muoiono anche di più. Chi attacca muore molto di più, ho scoperto - è proprio una legge matematica, e a ripensarci è anche abbastanza ovvio, però io non lo sapevo.
In questo anno, a forza di spulciare video ho imparato una immane quantità di cose che non sapevo.
Parecchia geografia, per esempio, e non solo io - è una vera sorpresa vedere i ragazzi di prima media alla scoperta della carta geografica d'Europa che si mostrano consapevolissimi dell'importanza del Dnipr/Nepr/Nipro e della Crimea, e chissà che non abbiano sentito nominare perfino la Transnistria. 
Inoltre ho scoperto (cosa ovvia, a pensarci) che eravamo abituati a sentire i nomi geografici dell'Ucraina nella loro versione russa. Bolzano non è Bolzano, è Bozen, Fiume sarebbe in realtà Viums, Caporetto si chiama Kobarid. E Kiev in realtà sarebbe Kijv (oppure Kyiv? In effetti sono entrambe traslitterazioni dal cirillico ucraino), e un sacco di altri posti hanno un nome impronunciabile in russo e un altro nome, a volte molto diverso ma altrettanto impronunciabile, in ucraino. I commentatori ci diventano pazzi.
E adesso so anche che esiste una chiesa ortodossa autocefala** ucraina e perfino - una scoperta fresca di questo Natale, che solo la febbre dell'influenza mi ha permesso di digerire senza conseguenze - che nella chiesa ortodossa ucraina il Natale si festeggia secondo il calendario cattolico/protestante appunto per differenziarsi dai russi che lo festeggiano nei giorni riservati al calendario ortodosso più classico; e qualcuno poi ci ha spiegato pure che in realtà negli anni del comunismo il Natale non si festeggiava affatto, solo un po' di straforo, e che dunque anche il Natale ortodosso era in un certo senso una novità. Alla fine di tutta quella storia mi sono ritrovata a pensare che il cattolicesimo romano ci avrà pure qualche limite, ma che già nel IV secolo aveva scelto come data per il Natale il 25 Dicembre e si è sempre attenuto a quella data per tutti i secoli dei secoli successivi, amen. Un po' di coerenza, vivaddio!
Ho anche imparato po' di storia sulla nascita della Russia, e parecchia storia recente e recentissima dell'Europa dell'Est, di cui i nostri manuali si occupano veramente col contagocce, oltre a parecchie notizie su come è montato il conflitto; volente o nolente mi sono trovata ad ascoltare infinite versioni sulla questione del Dombas (cui, ho scoperto con una certa fierezza, il manuale adottato fresco di pacca l'anno scorso aveva dedicato una paginetta più che dignitosa) e ho avuto un sacco di chiarimenti sulla misteriosa occupazione della Crimea di qualche anno fa, che è stata uno dei molti punti di partenza di questa storia, e che all'epoca avevo seguito con interesse e partecipazione, ma era stata ingoiata nel nulla con una rapidità sbalorditiva, almeno in Italia.
In effetti avvisaglie che Qualcuno, a Mosca, aveva idee strane del giusto spazio vitale che spettava alla Russia ce n'erano state da dare e da serbare. Rispetto agli anni 30 del secolo scorso però diplomatici, politici e militari avevano il grosso vantaggio di aver studiato su manuali di storia che raccontavano come si era arrivati alla seconda guerra mondiale, e alla fine qualche campanello era scattato sicché la situazione non li aveva trovati del tutto impreparati***.
Ho imparato anche un sacco di cose su come funziona un esercito. Nella mente di tanti di noi gli eserciti sono quelle robe che vanno a fare la guerra, con alterne fortune; adesso so qualcosa su come vengono riforniti, sui problemi che dà riparare un carro armato e che gli ufficiali e i sottoufficiali hanno funzioni importantissime che vanno al di là di puntare la baionetta sulle schiene dei soldati in trincea per spedirli all'attacco, tanto che la loro mancanza crea serissimi problemi, e so anche che l'esercito ucraino, che ai tempi dell'occupazione in Crimea era poco più che una raccolta di scalzacani, aveva passato una capillare riforma ad opera della NATO, che lo aveva organizzato all'occidentale (con ottimi risultati, a quel che sembra) mentre quello russo aveva avviato una riforma che aveva però abortito per ritornare all'organizzazione precedente, e questo aveva creato invece un sacco di problemi.
Un anno è passato e io mi sono tanto tanto aggiornata. Nel frattempo la guerra sembra essere svoltata, un passetto per volta. L'attacco russo ha sortito una serie di reazioni alchemiche di portata invero ammirevole: la NATO, che da parecchi anni vivacchiava con una certa aria di disarmo (dopotutto, era nata soprattutto per tenere testa all'URSS ai tempi della guerra fredda, ma ormai da tempo non esisteva più né la guerra fredda né tanto meno l'URSS; almeno, così sembrava) si è improvvisamente rinvigorita mettendo foglie e fiori e ricevendo richieste di annessione da due paesi che  suo tempo si erano fatti un vanto di non allinearsi con nessuno dei due blocchi; l'Unione Europea, che grazie alla pandemia aveva dimostrato una certa vitalità e una qualche consapevolezza di esistere, ha reagito con ammirevole rapidità e una coerenza di cui davvero non si era vista la minima traccia ai tempi delle guerre dell'Iugoslavia. 
Quanto all'Ucraina, paese all'apparenza diviso, del tipo "se metti insieme due ucraini avrai tre opinioni su tutto", ha improvvisamente scoperto una compattezza mai mostrata prima e adesso è piena di russofoni che durante l'anno han deciso che la loro lingua era l'ucraino e soltanto l'ucraino e al diavolo il russo (primo tra tutti il presidente Zelensky, di cui la maggior parte di noi non aveva mai sentito nemmeno parlare e che ormai è diventato un soggetto di conversazione comune quanto i più celebri calciatori). Insomma l'Europa sta cambiando pelle, ed è un processo affascinante ai miei occhi.
Tutto ciò avrebbe magari potuto maturare lo stesso, magari con tempi e forme diverse, ma ormai è andata così. Di sicuro, e questa è l'unico aspetto che trovo positivo di tutta questa vicenda (a parte l'innegabile importanza del mio aggiornamento) non una sola di queste conseguenze era stata minimamente prevista da colui che ha scatenato il conflitto, ed è stata per lui motivo di profonda irritazione.
E meno male, almeno questo.

*Naturalmente approvavo anche Draghi quando l'ha fatto, ma questo non è strano perché io, di tendenza, approvo Draghi anche solo per il modo con cui respira.
** giuro, si chiama proprio così
***anche perché i servizi segreti americani si erano dati ad analizzare la questione con una cura e uno scrupolo ben diverso da quello che, due anni fa, avevano dedicato alla partenza dall'Afghanistan, dove erano sembrati davvero portati dalla piena.

giovedì 23 febbraio 2023

Gli incappucciati

La Seconda Sfigata si avvia verso la scuola, insieme agli altri fanciulli del paese di St. Mary Mead

C'è stato un tempo per taluni alunni, e forse c'è ancora, l'uso di ornarsi il capo con berretti più o meno sportivi,  di varia e spesso vivace coloritura, indossati con una certa varietà nella disposizione della visiera. Taluni alunni usavano (e probabilmente usano ancora) portarli anche in classe, cosa che causava grandissima offesa a taluni docenti e grandissima indifferenza a me, che di solito non li notavo nemmeno. Del resto è mia ferma opinione che il cosiddetto outfit (=abbigliamento, accessori&decorazioni) è una forma espressiva e che dunque, in una età con cui con gran difficoltà i ragazzi cercano di cistruirsi una immagine, sia buona norma intervenire il meno possibile. "Il cliente ha sempre ragione, soprattutto se ha fatto i compiti di storia" è uno dei miei principi cardine
In questo sono aiutata da una mia personale e profonda indifferenza verso l'abbigliamento dell'universo mondo, e l'unico per cui mi capita di provare un certo interesse è il mio.

Tuttavia, almeno in tempi recenti, almeno a St. Mary Mead i berretti sono spariti. In compenso è arrivata una nuova e più inquietante moda: i cappucci.
Gli alunni tendono a indossare felpe, con cappucci. E i cappucci restano bel alzati anche in classe, e tenuti ben tirati sul viso  in modo da coprirne la maggior porzione possibile.
Tutto ciò mi perplime assai, anche se mantengo uno scrupoloso silenzio sull'argomento.
Volete tenere il cappuccio? Tenetelo, e che il cielo sua con voi.
Tuttavia sono perplessa.
Altro dettaglio: la moda dei berretti era, per quanto ricordo, rigorosamente maschile. Magari può esserci stata qualche fanciulla che girava imberrettata, ma personalmente non ne ho memoria e ritengo che, se anche c'è stata, si sia trattato di un fenomeno assolutamente marginale. In compenso, fanciulle incappucciate ne vedo a iosa.
E mi domando in cuor mio: perché?
Il cuore mi suggerisce che il cappuccio abbassato abbia una funzione protettiva.
Protezione? In classe? Nella Seconda Sfigata, classe quanto mai giocosa e ospitale?
Chissà.
E tuttavia, in un periodo in cui in certi paesi tante donne rischiano la pelle, e talvolta pure la perdono, in nome dell' elementare diritto di girare a volto scoperto, in Italia, almeno a St. Mary Mead, le fanciulle su incappucciano almeno quanto i ragazzi.
Le guardo e cerco di capire. Alla loro età, mi sarebbe piaciuto rifugiarmi nei lembi di un anichevole cappuccio che mi isolasse dal mondo esterno?

...forse sì?

lunedì 20 febbraio 2023

Di quanto sia godurioso e semplice fare l'appello con il registro Argo (giuro di dire la verità, tutta la verità, soltanto la verità)

Carlo Cioni "S'i' fossi Argonauta Argo"
Un tempo esisteva il Registro Scolastico Su Carta; che per carità, si bagnava con la pioggia e si sporcava col gelato e cose del genere, ma aveva anche i suoi bei tratti positivi.
Messer docente entrava in classe alla prima ora, salutava gli alunni, afferrava la prima penna o pennarello che gli passava tra le mani, non importa di che colore, chiedeva distratto "Chi manca oggi?" e poi "Qualcuno deve giustificare?" e nel giro di mezzo minuto il registro del giorno era bell'e che fatto.
Poi è arrivato Sua Maestà il Registro Elettronico, che Dio l'abbia in gloria.
E l'appello si è trasformato in una sezione distaccata dell'Ufficio Complicazione Cose Semplici.

All'inizio, a dire il vero, non era così drammatico: si apriva la schermata dell'Appello, si scorreva la lista e si crocettavano gli assenti e si cliccava sulla casella dei giustificandi che effettivamente ti portavano una giustificazione. Nessuno, per quel che ricordo, ci ha fatto su i capelli bianchi.
Un pochino più complicato era chi entrava in ritardo o usciva in anticipo, perché dovevi aprire una schermata a parte ma soprattutto, per le uscite anticipate, c'era la malefica casella da giustificare, che era spuntata di default.
La cosa non ha molto senso, a ben guardare: o l'alunno è minorenne, e in quel caso non si può farlo uscire dalla scuola se non arriva a prenderlo qualcuno maggiorenne e autorizzato a prelevarlo, e dunque è giustificato se esce; oppure l'alunno è ormai maggiorenne e quindi si giustifica da solo. Noncurante di ciò, la casella esiste ed è spuntata di defult, quindi va tolta la spunta. E non sempre l'insegnante se lo ricorda MA quand'anche la ricordasse, sui computer della nostra scuola la casella non compare se non ricorrendo a una particolare manovra perché lo schermo non contiene tutta la schermata.
Tutto ciò rende complicato assai controllare le giustificazioni perché si svolge perennemente la stessa scena:
"Childerico, hai la giustificazione?"
"No" risponde perplesso Childerico "ma in effetti io non..."
"E' andato via a mezzogiorno" spiega il compagno più sveglio "E' venuto suo padre a prenderlo per portarlo dal dentista".
La classe conferma, Childerico ricorda e conferma pure lui. Posso capirlo, povera creatura: due o tre giorni fa è uscito prima da scuola per andare dal dentista ma non gli sembrava chissà quale avvenimento da restargli impresso più di tanto.
A questo punto l'insegnante di turno ben volentieri accetterebbe di cancellare la giustifica MA spesso non può farlo perché in quell'ora non era in classe e appare il malefico avviso "Ora non firmata!". 
Childerico dunque dovrà avvisare l'insegnante che era in classe quel giorno eccetera. Eccheppalle.
Tuttavia questo è ancora il meno. Anche sorvolando sulla deplorevole tendenza di Argo a dirti che l'ora non è firmata quando invece l'hai firmata, eccome, e devi riprovarci un paio di volte.
Un anno fa Argo infatti ha deciso di rendere il più possibile complicato il momento dell'appello, che in casi particolari può richiedere anche una ventina di minuti per essere gestito.
Andiamo per ordine e presentiamo i vari casi.
Childerico è assente.
L'insegnante deve aprire una apposita schermata, pomposamente definita Aggiungi evento multiplo.
Già l'idea che una semplice assenza sia addirittura un Evento fa abbastanza ridere. Si immaginano i giornali e i TG che aprono Childerico oggi è assente! Cosa sarà mai successo? Ascoltiamo le interviste dei suoi vicini. Con i vicini che poi raccontano "Bravo ragazzo, educato. Salutava sempre. Non so perché oggi è assente. Magari ha il raffreddore?".
Comunque due giorni dopo Childerico ritorna a scuola, munito di regolare giustificazione. E l'insegnante va a cliccare la G che sta per "deve giustificare". 
Si apre tosto una schermata a colonne: data (dell'assenza), stato (dove un rettangolino scarlatto avvisa DEVE GIUSTIFICARE e infine la descrizione dell'evento, che reca scritto "assenza".
Va bene, è un po' ridondante, ma insomma. 
Si clicca sul rettangolino scarlatto e compare un elegante ovale verde prato con dento scritto Giustifica.
In qualsiasi universo dabile la procedura finirebbe lì. Ma no, Argo prosegue inserendo l'avviso: Sarà giustificato 1 evento senza indicare una motivazione. Vuoi procedere?
Perché, in alto, c'è pure un rettangolo che dovrebbe contenere la Motivazione.
Personalmente non lo riempio mai - il ragazzo è minorenne, la famiglia ha firmato, noi dobbiamo comunque riprendercelo e dunque la motivazione secondo me non è affar mio né di Argo. In effetti da sempre, davanti a quel rettangolino, ogni volta mi prudono le mani e devo reprimere l'istinto a scrivere Ma saranno cazzi suoi? Senza contare che a volte i genitori, sobriamente, scrivono "indisposizione" oppure il buon vecchio "motivi familiari" ma non è raro che si dilunghino spiegando che il malcapitato aveva diarrea, vomito e mal di stomaco a causa di una indigestione* oppure crampi mestruali o addirittura era molto stanco e quindi l'ho tenuto a casa* e mi sembra che almeno una volta qualcuno abbia perfinoi spiegato che erano andati a prendere il nonno all'areoporto. Tutte motivazioni valide, per carità, ma che personalmente ritengo che rientrino nella buona, cara e vecchia categoria degli "affari suoi". Insomma, che fine ha fatto la normativa sulla privacy? I dati sulle malattie che affliggono noi insegnanti vengono (giustamente!) custodite dalla segreteria con grande segretezza e io devo andare a spiattellare ai quattro venti che uno dei miei alunni ha la diarrea? Davvero non mi sembra cosa. E insomma, ognuno ci ha le sue seghe mentali, io ci ho questa, che i fatti personali dei miei alunni li racconto davvero il meno possibile in giro. Che poi, il genitore ha pieni poteri di giustificare l'assenza anche se il ragazzo, semplicemente, non ci aveva voglia di andare a scuola. La legge glielo consente, sissignori.
Per i cultori della materia aggiungo che la farraginosa proceduta che ho descritto si è in realtà un po' accorciata nell'ultimo mese, perché prima c'erano ben due avvisi sul fatto che si procedeva a giustificare un malcapitato che era tornato a scuola, e inserire una motivazione non semplificava affatto le cose (una volta, per esperimento, ho messo la motivazione scrivendo "E' tornato" nella vana speranza che la procedura con la motivazione si accorciasse un po'. E no, non si accorciava).
Torniamo allo sventurato insegnante che prima di tutto deve aprire il riquadro degli eventi (un tempo, addirittura, definiti "straordinari", poi anche questa follia è stata tolta) e cliccare dall'elenco chi è assente. Poi giustifica - mediante la snella procedura testé descritta - chi è rientrato a scuola munito di regolare giustificazione, e infine si dedica a un nuovo riquadro di eventi per segnalare chi esce una o due ore prima. E, gente mia, non è da crederci quanti minuti riesca a mangiarsi l'appello, specie nei giorni in cui la classe all'ultima ora non ha insegnanti e dunque le famiglie vengono a prenderli prima del previsto, in particolar modo se  il collegamento fa i capricci (che di solito coincidono con il giorno in cui hai particolarmente fretta di cominciare).
Com'è noto a tutti, la pandemia ha lasciato un forte strascico di disagio psicologico. Anche nei programmatori di Argo, temo.

* giuro, e ho le prove per dimostrarlo

venerdì 17 febbraio 2023

17 Febbraio 2023 - Giornata Nazionale del Gatto / Il canto di Acchiappacoda - Tad Williams

                     

Per la Festa Nazionale di Sua Maestà il Gatto, che in questo blog è sempre stato assai onorato, ho deciso quest'anno di presentare un libro. Non un normale libro sui gatti, di quelli che oggi riempiono le librerie con titoli del tipo Il gatto che moltiplicava i pani e i pesci oppure Il gatto che salvò la banca d'Inghilterra e che alla fine parlano soprattutto di gatti che si interfacciano con gli esseri umani (spesso con eccellenti risultati, peraltro) ma un libro che ritengo il libro più gattoso che mai sia stato scritto, e dove gli esseri umani occupano un ruolo davvero marginale pur comportandosi in modo molto rispettoso con i gatti protagonisti.

Ci sono libri che per un certo periodo godono di grande fortuna per poi sparire nel nulla, e in Italia Il canto di Acchiappacoda è uno di questi.
Tad Williams è un rispettabile (per quanto, forse, non del tutto imperdibile) autore di fantasy e fantascienza, Sul finire degli anni 80 Mondadori tradusse la sua Trilogia delle Tre Spade e poco più. Tuttavia il suo primo romanzo è stato proprio Il canto di Acchiappacoda, pubblicato negli USA nel 1985 e tradotto da noi l'anno dopo. Il romanzo, autoconclusivo, rientra nel filone della fantasy con animali, che era stato inaugurato qualche anno prima da La collina dei conigli di Richard Adams - che è un libro ancora assai stimato e si trova ancora il libreria, ma devo ammettere che non mi entusiasmò, anche se mi precipitai a comprarlo perché lo vendevano con la solita fascetta che prometteva atmosfere tolkieniane e all'epoca avevo una fame cosmica.
Il fantasy di animali è proprio quel che promette il nome: un romanzo a struttura fantasy con animali per protagonisti, che hanno una loro mitologia, un loro folklore, a volte dei re (non i gatti, naturalmente, e chiedo scusa per l'ovvietà della precisazione), una loro lingua eccetera,  con tanto di profezie, predestinati, spiriti malvagi da sconfiggere e così via. 
Se la mitologia dei conigli mi entusiasmò molto tiepidamente, quella dei gatti mi convinse subito. Anche il linguaggio assai solenne tipico del fantasy di quegli anni, dove tutti sembravano convinti di dover ripercorrere passo per passo le orme di Tolkien, nelle graziose fauci dei gatti mi sembrava adattissimo. E chi meglio di un gatto può salvare il mondo?
Risposta scontata: molti gatti.
Altro dettaglio non secondario: in quegli anni i gatti erano naturalmente molto apprezzati, ma niente a che vedere col culto di cui godono oggi. Anche i gadget a gatti erano piuttosto rari e richiedevano un po' di ricerche, addirittura c'erano negozi specializzati - laddove oggi fatichi abbastanza a trovare gadget dove i gatti siano del tutto assenti. E tuttavia in quegli anni Il canto di Acchiappacoda era continuamente ristampato ed esaurito, mentre oggi non se ne trova più traccia. Scomparve in un qualche punto degli anni 90. Si trova comunque molto facilmente nelle biblioteche, e naturalmente all'usato.

La storia, naturalmente, è una storia di gatti. Si comincia con una breve introduzione mitologica, dove si racconta dei tre Primi Nati della Grande Coppia di gatti Harar e Fela. Perché, via, siamo seri, da cosa mai avrebbe potuto iniziare l'universo se non da una coppia di gatti?
I tre Primi Nati seguono un destino relativamente comune per questo tipo di creature: il più puro e nobile viene ucciso dal fratello cattivo che poi si rifugia nelle tenebre sotterranee perché non può più sopportare la luce. Il fratello di mezzo, il più astuto e fiero, Tangaloor Zampa di Fuoco, viveva invece ancora tra noi ma nessuno sapeva dove.
A Tangaloor Zampa di Fuoco viene rivolta sempre la Preghiera del Gatto quando si trova nei guai:
E' il tuo cacciatore che ti chiama.
Nel bisogno egli cammina
Nel bisogno, ma mai nella paura.
Naturalmente è vero solo in parte: come sappiamo, anche i gatti hanno paura - a volte molta - ma gli piace credere di non averne mai. Fa parte del loro modo di essere.
Finita la brevissima introduzione mitologica eccoci ai giorni nostri, con le avventure di Fritti Acchiappacoda - un bel gattino rosso, con una stella bianca in fronte (non una stella vera, come nella copertina che ho messo all'inizio, ma una normale stella-da-animale, ovvero un punto bianco - ancora molto giovane, mezzo accasato con una umana che gli lascia del cibo nella veranda ma molto più interessato al suo branco di gatti (semiliberi pure loro, oppure accasati) che hanno la loro vita notturna piuttosto indipendente. Funzionava proprio così in quegli anni nel mio quartiere: c'era una ricca rete di giardini comunicanti e la notte si sentivano dei gran concerti*.
Torniamo a Fritti: un giorno si rivolge al capobranco perché quella che stava per diventare la sua ragatta (avevano cantato la sera prima il Rituale accanto al muro, e ricordo benissimo che a quel punto mi misi a ridere come una pazza immaginando il Rituale, ovvero la serie di berci variamente modulati con cui i mici ritengono loro preciso dovere precedere l'accoppiamento, e che rompevano assai spesso il silenzio notturno) era improvvisamente scomparsa. 
Alla fine Fritti parte alla sua ricerca. Il romanzo comincia così ad inanellare una serie di avventure dove Fritti incora vari gatti, sventa varie insidie eccetera finché...
...finchè il lettore si ritrova immerso in un vero romanzo fantasy sempre più cupo e pericoloso: c'è una foresta incantata, o forse dovremmo dire maledetta, dove strani esseri imprigionano i gatti e li obbligano ai lavori forzati in una malefica dittatura. Fritti è un gatto simpatico, coraggioso e astuto ma la situazione è sempre più spaventosa. Ma alla fine, proprio nel momento più drammatico e disperato, con un filo di voce prima esitante e poi sempre più deciso, canta la siua preghiera a Tangaloor Zampe di Fuoco, che mi sono sempre immaginata molto simile alla Kirara che compare in Inuyasha. Eccola in versione trasformata:
(normalmente è una normalissima gattina a due code, molto coccolosa nonostante i suoi dentini davvero aguzzi).
In realtà nel romanzo Tangaloor è qualcosa di molto più potente e grandioso, come scopriamo quando improvvisamente si rivela in risposta al richiamo del suo cacciatore. E sì, ogni tanto era venuto al lettore il sospetto che quel gatto assolutamente inutile all'apparenza che Fritti si era ritrovato vicino fin dall'inizio fosse qualcosa di più di quel che sembrava, o che comunque avrebbe avuto prima o poi un qualche ruolo, ma la scena in cui Tangaloor si svela (e si risveglia) in tutta la sua possanza e grandezza è proprio bella e scalda il cuore.
Il canto di Acchiappacoda è insomma quello che risolve tutta la questione: la potenza del canto, la forza dell'evocazione, la magia... e il romanzo fantasy ha un finale del tutto in linea con i canoni del genere.
Dunque finisce tutto in gloria e Fritti termina la sua ricerca -  per scoprire che la gattina si era semplicemente trasferita con la sua famiglia di umani, e nei mesi in cui Fritti viaggiava in lungo e in largo per cercarla si era anche parecchio imborghesita. I due non faranno coppia e anzi Fritti stabilisce una volta per tutte quel che già in cuor suo sapeva, ovvero che non desidera mettere su casa con degli umani e che da quel momento la sua sarà la vita di un gatto libero. E tornerà dalla bella gatta molto avventurosa che aveva conosciuto durante il viaggio e che l'aveva molto aiutato.
Abbiamo dunque una queste dove si trova tutt'altro che quel che si era cercato (in linea con i romanzi fantasy di quegli anni, che alla fine presentavano sempre una sorpresa - come del resto fanno spesso tuttora - che è anche un romanzo di formazione con una Colossale Redenzione finale: perché, se Tangaloor ha salvato il suo coraggioso cacciatore, il vero salvataggio l'ha fatto il cacciatore restituendo a Tangaloor la sua vera identità.
Oltre a tutto questo però abbiamo una vera infinità di gatti, ognuno con la sua personalità specifica ma sempre assai felina, e un grandioso viaggio nella psiche di Messer Gatto fatta con mano davvero magistrale, e impariamo l'opinione che i gatti hanno su una gran varietà di cose, umani inclusi - ma gli umani restano sempre molto, molto sullo sfondo né sembra che la loro presenza sia poi così indispensabile.
Il libro dovrebbe avere il suo posto nella libreria di ogni gattaro appassionato di fantasy, o forse di ogni gattaro punto e basta, perché è comunque una Guida al Gatto davvero molto esauriente, anche per chi del fantasy tutto sommato se ne frega.
Però secondo me è un gran bel romanzo fantasy e per quel che mi riguarda Tad Williams se la cava molto meglio con i personaggi-gatti che con i personaggi più ordinari, tipo uomini e folletti.

Per presentare il libro all'inizio ho scelto una copertina straniera. Questa, invece, è quella che ho in casa, e la più diffusa. E dopotutto è comunque una bella copertina, con due gatti assai ben disegnati. Da notare la stella bianca che Fritti porta in fronte, molto più evidente nella copertina straniera ma qui raffigurata in modo assai più realistico.
Concludo naturalmente con un doveroso augurio a tutti i gatti, che in nome dell'inclusività comprende anche i diversamente gatti - quelli a due zampe, per esempio, ma in generale tutti, proprio tutti.

*e magari si sentono ancora, ma io sono emigrata a Lungacque e perfino nel mio sterminato condominio c'è gente che si vanta di tenere i suoi gatti chiusi in casa "così non corrono rischi". E forse è anche vero che non corrono rischi, però secondo me si annoiano più di quelli che vanno in giro - ecco, questo sta diventando un punto di vista sul limite dell'eresia. Spero che la moda passi presto.

martedì 7 febbraio 2023

La maledizione di St. Mary Mead parte 2 (imprevista)

Questa volta ci metto anche il sonoro: Leonard Warren, nientemeno, e una figurina d'antan, forse Liebig.

Tornata a scuola dopo il fine settimana mi informo di come si è poi evoluta la gran tragedia.
Tutto risolto, mi assicura la prof Ghirlandai: la prof. Quadrella ha prontamente recuperato dal suo ricco archivio Il viaggio di Fanny e l'ha riversati su chiavetta. Adesso il film è in Aula Magna, sullo schermo in bella vista.
In Aula Magna è infatti montato l'unico Megaschermo di nuovissima generazione riservato al corridoio di Lettere. 
Il grande vantaggio del Megaschermo di nuovissima generazione è che ci si vede molto, molto meglio che sulle ormai sbiadite LIM che già al primo raggio di sole trasformano i più sontuosi film in una malinconica sfilata di ectoplasmi. 
Ad ogni modo di sole se ne vede poco e in più l'aula dove sono quel giorno con la Seconda Sfigata ha una dotazione di orripilanti tende marrone scuro che il venditore ci ha rifilato come "verde oliva" che certo non son belle, ma bloccano anche il sole di Agosto; cosî ci guardiamo Arrivederci, ragazzi che, come è stato osservato nei commenti, non si può proprio definire un film a lieto fine ma è comunque molto bello e scorre senza intoppi: la rete non cade, la LIM non entra in depressione e tutto va nel migliore dei modi cinematograficamente possibili. Alla fine facciamo un po' di chiacchiere e di approfondimenti del tipo non particolarmente allegro che il film ispira e così finisce la mattinata.
Il giorno dopo la Prima Brava invoca a gran voce di vedere Il viaggio di Fanny. 
"Non c'è problema" assicuro "purché l'Aula Magna sua libera"
L'Aula Magna è felicemente libera e con grande fiducia la occupiamo, i ragazzi si sistemano nelle postazioni preferite mentre io accendo computer e schermo per poi...
...per poi restare lì a guardare piuttosto spersa il grande schermo dove non c'è traccia di nessun viaggio di nessunissima Fanny, mentre le note finali del Rigoletto mi risuonano in mente. Intanto la prof. Ghirlandai si è appena avviata verso casa, l'ho salutata giusto prima di entrare in classe.
Maledizione o non maledizione, comunque, c'è un limite a tutto. Lascio la custode a badare alla classe e mi fiondo al piano di sotto per telefonare appunto alla prof. Ghirlandai: quell'accidente di film andrà pure visto, in un modo o nell'altro.
La prof. Ghirlandai ammette in tutta onestà e senza infingimenti di essersi proposta bensì di caricare il file sullo schermo, ma di essersi poi dimenticata di farlo.
Con un angolino della mente prendo atto che, come c'è il presente storico che narra al presente cose avvenute in un passato anche molto lontano, tipo Cesare che attraversa il Rubicone duemila e passa anni fa, allo stesso modo esiste il passato futuribile con cui si danno per già fatte cose che è in effetti nostri fermo proposito eseguire quanto prima - ma per il resto ascolto attentamente le istruzioni della prof. Ghirlandai: nel suo cassetto, sotto il primo strato di carte, nell'angolo a sinistra in basso, c'è una scatolina argentata con dentro la chiavetta dove c'è il film (se la maledizione di St. Mary Mead non lo ha formattato, si capisce)...
La parte più complicata naturalmente è sdipanare il cassetto (i cassetti degli insegnanti sono davvero un universo a parte) ma sono stata molto aiutata dal fatto che la scatolina argentata era davvero nell'angolo in basso a sinistra. Il resto comunque è scivolato via senza problemi e non solo sono riuscita a far vedere il film alla classe, ma perfino a caricarlo in bella vista sullo schermo per le altre due prime.
Comunque è evidente che la maledizione di St. Mary Mead al momento si è magari assopita, ma è tutt'alltro che domata.

domenica 5 febbraio 2023

Haeretica - Non è, forse, lo stesso parlare del Classico un classico esso stesso?

Molly Brett - Going Back To School

Di primo mattino, sorseggiando il caffè, navigavo placidamente su Facebook. Qualche gattino, qualche coniglietto, qualche draghetto...
E l'ennesima disamina sul Liceo Classico. Pòle, esso liceo classico, essere una buona scuola? Pòle formare le giovani menti? Ha un suo specifico surplus che lascia dentro ai giovinetti che lo frequentano quel certo nonsoché?
La Gran Questione del Liceo Classico viene fuori spesso, non soltanto nella stagione delle preiscrizioni. Stavolta mi ha toccato più da vicino perché ne parlavano persone di cui sono solita condividere le opinioni e che analizzavano la questione in modo più approfondito e sensato dei consueti richiami al latino che apre la mente e consimili. 
Eppure, anche così, non ero d'accordo.
E quando mai sono d'accordo con qualcuno se si parla del Liceo Classico?
Di fatto il solo pensiero che esiste il Liceo Classico mi fa venire l'orticaria.
Eppure, ripensandoci, non mi sono poi trovata male a fare il liceo classico. E ho fatto un classico liceo classico, con tutta la gioventù bene di Firenze e anche con un sacco di gente che con la Firenze bene non aveva molto a che spartire.
Ho avuto fortuna, certo; ma con la scuola un po' di fortuna è indispensabile perché ci sono troppe varianti.
Ho avuto la gran fortuna di incrociare la prof. De Divinis al ginnasio, che era preparatissima e molto brava e assai empatica, ma che non era probabilmente un caso così raro. La prof. De Divinis ha anche molto ben amalgamato la classe, ma forse ci saremmo amalgamati lo stesso. E poi avevo un sacco di persone simpatiche, in classe - e lì si rientra nell'ambito della fortuna. Fossi finita nella classe parallela, ne avrei trovate ben di meno.
Studiavamo tutti abbastanza volentieri - beh, quasi tutti. E alcuni del gruppo dei simpatici son rimasti per strada perché sono andati in sciopero e l'unica cosa era fermarli. Anche allora, da alunna, capivo che i professori non avevano potuto fare diversamente. Alla fine non era gente irragionevole, e han sopportato tutti il mio notevole impaccio col greco con una certa comprensione, senza fermarmi.
D'altra parte io avevo un notevole dente avvelenato nei confronti della cultura classica, anche se a guardare la mia libreria non si direbbe. Di fatto, molti autori mi piacevano, ma deprecavo parecchie cose nella cultura classica; e poi per me il mondo cominciava con l'arrivo dei barbari. Del resto, ognuno ha le sue idiosincrasie.
Non ho mai capito nulla di filosofia, ma del resto nessuno me l'ha mai insegnata.
Mi seccava molto il fatto che mia madre mi avesse iscritta al liceo classico come si porta un pacco alla posta. Ai miei il fatto che io facessi proprio quel liceo classico che loro non avevano potuto fare perché le famiglie non avevano voluto rischiare piaceva molto. A me, molto meno. 
Anche lì, idiosincrasie.
Deprecavo che ci fosse poca matematica, ma onestamente con l'insegnante che avevamo è stato meglio così perché comunque non avrei potuto imparare granché. E poi fisica mi annoiava a morte, anche se forse con un insegnante che ci capiva qualcosa magari ci avrei capito qualcosa anch'io. Gli insegnanti comunque sono un terno al lotto e secondo me lo saranno sempre, qualsiasi sistema di arruolamento si scelga.
Non ricordo che ci chiedessero niente di improponibile - anche se eravamo una utenza ben selezionata; tuttora però chi va al liceo classico ha una certa propensione allo studio teorico, a meno che i suoi genitori non siano dei perfetti idioti. Anche chi era stato mandato al liceo classico perché il liceo classico era l'unica scuola proponibile in società si arrangiò, bene o male. 
Ai genitori tremebondi che mi chiedono "Vorrebbe fare il classico. Secondo lei è in grado?" rispondo di solito con un "Le assicuro che non c'è idiota che non riesca a raccattare una maturità classica". Per la cronaca, quelli che rimasero per strada e non riuscirono a prenderla non erano affatto idioti, e sospetto che soffrissero come me di idiosincrasia - più forte della mia, evidentemente; perché io deprecavo diverse cose della cultura greca e latina, ma alla fine la letteratura mi piaceva tutta e quindi quel che studiavo non mi dispiaceva.
Non so se davvero il liceo classico forma le persone e non sono affatto sicura che garantisca un metodo di studio: quando arrivi all'università le cose cambiano parecchio e il metodo liceale non funziona granché. Ad ogni modo il mio metodo di studio me lo sono formato appunto all'università (dove ho sempre fatto piuttosto bene) ed è strettamente individuale; e poi nel frattempo ero cresciuta.
Sull'effettiva utilità del liceo, classico o non classico, nutro parecchi dubbi ma non c'è dubbio che, come tutti i licei, sia un utile parcheggio che aiuta i ragazzi a capire meglio chi sono, cosa vogliono eccetera - anche se, a dirla tutta, non ci sono grosse garanzia nemmeno in quel senso e magari cinque anni di impostazione liceale possono perfino impedirti di capire che il tuo campo è in quelle lande che il liceo non accosta nemmen di lontano. Comunque, è una onesta possibilità.
Non sono sicura che manderei volentieri i miei figli (che non esistono) al liceo; ma se fossero esistiti e avessero voluto fare il liceo non avrei mosso un dito per impedirglielo. A che titolo, del resto? L'indirizzo di studio è sempre un terno al lotto.
Mentre rimuginavo questi e molti altri pensieri profondi (talmente profondi che il rischio di annegare nell'acqua calda era davvero molto forte) mi sono tuttavia sovvenuta di un piccolo e insignificante dettaglio di cui nessuno sembra tenere conto: quando compri il liceo classico, o l'istituto alberghiero o la scuola d'arte, compri un pacco il cui contenuto è tutto da scoprire.
Non esiste il Liceo Classico. Esistono una serie di scuole che hanno la targhetta con su scritto "Liceo Classico" e che contengono di tutto. E, soprattutto, esiste il singolo alunno che ha fatto il liceo classico in una determinata classe, con determinati insegnanti e con determinati compagni in un determinato ambiente sociale, culturale e storico. Io ho fatto il classico negli anni di piombo, altri lo hanno fatto nei ruggenti anni 80, o negli anni immediatamente successivi al 68 (dove gran parte degli insegnanti si dettero una notevole e assai salutare regolata) o alla fine della Guerra Fredda o con l'arrivo delle prime ondate di stranieri o in tempo di pandemia. Quel che succede fuori dalla scuola influisce sempre molto su quel che succede dentro la scuola.
Le declinazioni latine o i quattro tipi di periodo ipotetico sono piccoli accidenti inseriti in un contesto molto più complesso. Una scuola è quel che i docenti provano a insegnarti (con alterne fortune), più tutto quel che succede intorno a te più le novità che arrivano, anche quando vieni da una famiglia tranquilla e vivi in ambiente protetto (per quanto quasi nessuna famiglia è davvero tranquilla e quasi nessun ambiente è davvero protetto); e una scuola è anche la tua vita in quegli anni, nel bene e nel male. Quando entri in una scuola superiore non sai cosa ci troverai, cosa ci vorrai trovare e come cambierai in quegli anni*. E dunque una scuola inventata da Napoleone due secoli e passa fa - e che inaugurò comunque il concetto del giovane virgulto che studiava un tot di anni invece di tirare avanti a precettori o seminari - può avere un senso ancora oggi, probabilmente. Quel che conta davvero è avere una certa inclinazione ad andarci, e soprattutto avere un po' di fortuna.
Che poi oggi puoi anche cambiare idea a metà percorso senza troppi danni, e questa secondo me è una cosa molto, molto buona**.

sì, è così anche per i primi ordini di scuola; ma quelli sono unificati e quindi non c'è niente da scegliere, ti capitano in sorte e basta

** comunque, se proprio deve essere liceo, secondo me lo scientifico è meglio. A meno che  non si abbia una grande e profonda affezione per la grammatica e la linguistica. Allora sì, il Liceo Classico è la scelta giusta e farà di te una persona felice quando apri i libri di scuola per ben cinque anni.