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martedì 28 gennaio 2020

A cosa serve il registro elettronico? - 9 - Ma soprattutto: vogliamo davvero che serva a qualcosa?


Collegio dei docenti. La Preside Cornelia Caramell annuncia che presto anche la scuola primaria userà il registro elettronico. Noi dell'ala delle medie ascoltiamo con blando disinteresse.
Si alza una maestra.
"Mi scusi, io sapevo che alle medie c'era il registro elettronico ma che i genitori non potevano vederlo. Adesso mi dite che col registro elettronico io genitori potranno vedere i voti. Allora è cambiato qualcosa? Perché non mi ricoprdo che in collegio si sia mai parlato di questo cambiamento".
Brusio perplesso intorno a me. La Preside, arrivata da pochi mesi, non sa cosa rispondere perché quando è arrivata il registro era in chiaro da più di tre anni. Esattamente da quando...
Alzo la mano e vengo autorizzata a intervenire.
"Parlo io perché ricordo perfettamente cosa successe quando il registro partì" evito di aggiungere che proprio poche sere prima, per caso, mi ero incantata a rileggere tutta l'orrendevole e drammaticissima e sganascevole e ridicolissima saga del registro elettronico con cui avevo ornato il mio blog, riscuotendo a suo tempo anche lusinghieri successi di critica e di pubblico, e quanto mi fossi rotolata dal ridere a ogni nuovo post perché nel frattempo molte cose le avevo dimenticate "Nei primi tempi il collegamento in rete era occasionale, buona parte dei computer funzionava male, il registro veniva compilato da casa ed era molto difettoso, inoltre solo alcuni riuscivano a compilarlo perché anche le password non sempre funzionavano. Venne così deciso di aspettare che le cose si sistemassero prima di far accedere ai genitori. Più avanti il collegamento è diventato stabile, le macchine difettose sono state sostituite, tutti gli insegnanti hanno avuto il loro accesso e alla fine il registro è stato reso accessibile. Ma permetterne la visione ai genitori è sempre stata la finalità cui tendeva detto registro. Esiste ad ogni modo anche la possibilità di non rendere visibili le valutazioni, tutte o in parte se qualcuno desidera valersene" spiego compunta.

In realtà le cose non andarono esattamente così. All'inizio fu deciso di aspettare un po' "per permettere agli insegnanti di familiarizzarsi". La fase durò un paio di anni buoni e si concluse solo con l'arrivo della Preside Reggente, che quando seppe che c'era un registro fantasma disse (non senza ragione, a mio avviso) "Ma che sciocchezza è questa? Diamo le password ai genitori e subito!" e nel giro di due settimane ciò avvenne. 
È altresì vero però che da molti e molti mesi, visto che ormai tutti avevamo imparato a compilare correttamente quell'aggeggio, il collegamento in rete era ormai quasi stabile e ogni classe disponeva di un computer che funzionava in modo decente, tutti ci domandavamo con una certa perplessità e molta irritazione perché quel cazzo di registro elettronico non potesse essere visionato anche da alunni e genitori qualora gli fosse venuta vaghezza di farlo, e la sortita della Preside Reggente riscosse la nostra unanime approvazione. 
Ma son dettagli, e quello era un Collegio Docenti con diciassette punti diciassette all'ordine del giorno, non un seminario sugli scheletri nell'armadio dell'Istituto Comprensivo di St. Mary Mead, quindi mi sono astenuta dall'insistere su queste minuzie.
Ad ogni modo è chiaro che le insegnanti delle elementari sono contrariate all'idea di rendere pubblici (beh, pubblici... diciamo "visibili a famiglie e alunni") i loro voti. Eppure, immagino, a quegli stessi genitori che in futuro li leggeranno a casa che siano abituati a comunicarli, questi voti, quando costoro vengono a colloquio.
Certo che la gente è ben strana.
Che senso ha tenere un registro elettronico, se possiamo vederlo solo noi?

venerdì 24 gennaio 2020

Ritrovato e perduto - Ursula K. Le Guin (ovvero sulla raffinata arte editoriale di preparare un libro)


Nel Novembre 2018 Mondadori decise di tradurre una antologia dell'esimia Ursula K. Le Guin, scrittrice americana di gran rinomanza e insignita di numerosi premi Hugo per fantasy e fantascienza. Di ciò venni a conoscenza grazie a Tenar che del libro fece in seguito una lunga e dettagliata recensione e che a Le Guin ha dedicato di recente svariati post (ma ne ha parlato anche tempo addietro, com'è intuibile dal nome di rete che si è scelta).
All'epoca languivo nel mio letto di dolore e non potevo dunque acquistare libri se non con molta complicanza, così mi limitai a segnarmi un appunto. Con mia gran gioia però non dovetti scomodarmi né aspettare molto, perché una collega me lo scodellò come regalo di bentornata quando tornai a scuola dandomi gran gioia - perché se è vero che in un regalo è il pensiero che conta, quando il pensiero è assai azzeccato il regalo vale doppio.
Partiamo dai lati positivi: il rapporto qualità/prezzo è molto buono perché sono 740 pagine assai fitte per quattordici racconti, anzi "novelle" (quella strana bestia editoriale che include racconti lunghi e romanzi brevi e che King ha spassosamente descritto come la disperazione degli editori nell'introduzione di Stagioni diverse che appunto da quattro novelle è formato), e siccome sono 740 pagine scritte da Ursula Le Guin comprarle per 20 euro è un vero affare.
Sul piano editoriale per contro fa veramente pena. D'accordo, molti di noi sanno chi è Ursula Le Guin (più o meno) ma insomma le poche righe nel risvolto di copertina non ci dicono molto su di lei. 
Nell'altro risvolto danno (o meglio si illudono di dare) un elenco completo dei tredici titoli della raccolta - che però sono quattordici.
Ed effettivamente segnalano i singoli titoli originali con anno di edizione negli USA, o così credono, nella pagina a ciò solitamente dedicata ovvero quella prima del frontespizio.
Un pensiero carino, perché molti di questi racconti sono già stati stampati in Italia.

La prima novella è introdotta da una paginetta dell'autrice. Fine degli interventi editoriali. Ma, dico, due paginette di presentazione redatte da qualche esperto del settore potevate anche mettercele; o qualche commento, qualche notarella, qualche... insomma, possibile che non ci fosse niente di niente da dire su queste tredici novelle che poi son quattordici, scritte nell'arco di 27 anni, sulle circostanze della loro prima edizione, su cosa ne ha detto in seguito l'autrice, sui cicli da cui provengono, sul cazzo che vi pare?
O almeno dare un'occhiata alle bozze? 

Come onfatti credo di aver già vagamente accennato, le tredici novelle sono in realtà quattordici. La più lunga si intitola Il trovatore e racconta la complessa esistenza del signor Lontra, che a un certo punto si stabilisce nell'isola di Roke e per il resto della sua vita custodì le poste della Grande Casa di Roke, che sembrerebbe proprio un finale di racconto. Segue una poesiola, ma stavolta in quattro strofe, e la prima somiglia molto a quelle che hanno introdotto i capitoli delle vicende di Lontra; poi si va a capo, e la seconda strofa inizia con Rosascura e Diamante / una barcarola dell'Ovest di Havnor, e a seguire una canzoncina d'amore in tre strofe. Da lì abbiamo le vicende del signor Diamante e della signora Rosascura: al giovane Diamante piaceva molto la musica, ma suo padre la trovava niente più di un passatempo... Molto carina, devo dire, ma non c'entrava un accidente con la storia di Lontra. Giuro che a un certo punto mi sono domandata se il titolo Il trovatore potesse contenere qualche riferimento all'opera di Verdi - e dunque alla musica, che sembrava il tema portante dell'ultima parte del racconto; ma no: il trovatore di Verdi è un trovatore nel senso musicale, di quelli che cantano testi poetici, mentre Lontra è "uno che trova" (filoni di metallo, per esempio). Tutt'altro ordine di idee. Diamante invece canta, anche se nessuno lo chiama trovatore.
Ebbene sì, i primi due versi della seconda storia nelle intenzioni dell'autrice sono il titolo della storia successiva. L'ho scoperto per puro caso scorrendo un antologia del ciclo di Terramare che avevo in casa e non avevo mai letto.
E complimenti a Mondadori per l'accuratezza dell'edizione.

Dopo aver parlato in lungo e in largo di cosa in questo libro non c'è, intendo dedicare anche qualche riga a parlare di quel che c'è.
Abbiamo dunque, come ho già detto e ridetto, quattordici novelle travestite da tredici e scritte tra gli anni 70 del secolo scorso e i primi anni del nuovo millennio. Anche se LeGuin è famosa soprattutto come autrice di fantascienza e fantasy, ce n'è anche una che non appartiene ad alcun genere - o, se vogliamo specificare meglio, che rientra nel multiforme e non ufficiale genere della narrativa femminista anni 70. Si tratta di una narrazione rigorosamente al femminile che racconta la storia di una famiglia snodata su quattro generazioni, ambientata degli Stati Uniti tra la fine dell'Ottocento e gli anni Settanta del Novecento. Le donne si raccontano, ognuna col suo monologo, ma questi monologhi sono spezzati, sovrapposti e mescolati in una confusione apparente in cui la lettrice disorientata inizialmente dispera di venire a capo. Tuttavia questa disposizione apparentemente caotica finisce per disporsi in un quadro assolutamente nitido, credo proprio grazie a questa apparente confusione.
È, questa, una caratteristica piuttosto insolita della scrittrice: la sua scrittura è di solito molto chiara, quasi piana, ma quando è necessario ricorre senza sforzo apparente alla pagina a effetto, il cosiddetto pezzo di bravura che è però sempre funzionale all'effetto finale e mai fine a sé stesso (assolutamente splendida, sotto questo aspetto, la descrizione dell'astronave che apre l'ultimo racconto, quando solo dopo diverse pagine ci si rende conto senza che venga detto esplicitamente 1) che siamo su una astronave e 2) di che tipo di astronave si tratta ma anche 3) che a questo punto siamo perfettamente consapevoli dello stato d'animo di chi ci viaggia dentro.

A parte il racconto cosiddetto generalista, tutti gli altri racconti sono ascrivibili ai generi fantasy e fantascienza - con qualche difficoltà però ad inquadrarli esattamente; ad esempio Una storia alternativa, per quanto sfoderi la sua brava parte di astronavi e viaggi interstellari e perfino qualche paradosso temporale è di fatto una favola - o meglio, la versione alternativa di una fiaba assai celebre. Quanto al primo racconto, può essere tranquillamente attribuito a entrambi i generi, perché il tema centrale è comune ad entrambi.
Cotal primo racconto, oltre ad essere di genere incerto, è anche l'unico gratificato di una mezza paginetta introduttiva scritta da Le Guin e piena di considerazioni assai interessanti. Il protagonista è  un bosco, un perfetto bosco tolkieniano, di quelli che pensano e agiscono. Tuttavia è anche un bosco che non ha molto in comune con i nostri boschi terrestri - se vai su un lontano pianeta non puoi aspettarti di trovare larici, felci e baobab. I coraggiosi scienziati che esplorano l'universo in perfetto stile Star Trek troveranno qualcosa di differente dal boschetto sotto casa. Sì, qualcosa di molto differente. E dovranno interagirci in modo diverso da come noi interagiamo con la Selva Nera, poco ma sicuro.
Il secondo racconto si intitola Buffalo Gals, won't you come home tonight. Perché?
Francamente non ne ho la minima idea. Immagino che per un americano sia un titolo perfettamente chiaro, una volta terminata la lettura, e immagino che se l'autrice ce l'ha messo ci sarà pure il suo bel motivo, non è un titolo che si sceglie a caso quando non si sa cosa mettere, del tipo "La valle dei ricordi" oppure "In viaggio per Parigi". Sarà il verso di una canzone o di una poesia? Un pezzetto di filastrocca? Un modo di dire?
Vai a sapere. E di nuovo, sentiti ringraziamenti alla Mondadori. Comunque, titolo incomprensibile a parte, è un ottimo racconto fantastico con un complesso gioco di maschere dove la realtà e l'apparenza assumono forme assai variabili e i simboli hanno una concretezza molto solida mentre la cosiddetta realtà fenomenica si sfalda in un modo tutto particolare.
Ne La questione di Seggri, costruito con una serie di asettici rapporti squisitamente antropologici (Le Guin è figlia di un noto antropologo e conosce molto bene il modo in cui gli antropologi lavorano) intervallati da resoconti autobiografici del tipo detto "testimonianze" si immagina una civiltà dove i ruoli tra i sessi sono capovolti: gli uomini sono esclusivamente delegati all'accoppiamento e alla riproduzione mentre le donne gestiscono tutte le altre attività. Spiegazione: gli uomini sono pochissimi. Dopo attenta riflessione gli antropologhi optano per una serie di interventi molto blandi, quasi omeopatici, che innescheranno un processo di rinnovamento. 
Questi "antropologi", osservatori o come altrimenti si preferisca chiamarli vengono dall'Ecumene, una sorta di Federazione Galattica sul modello di quella di Star Trek (cito Star Trek perché le mie conoscenze del canone della fantascienza sono assai scarse, ma era un modello che era molto diffuso nella fantascienza del secolo scorso: alieni amichevoli che cercavano di includere altre culture ma senza snaturarle, senza interventi violenti, insomma non esportando la democrazia).
L'Ecumene è, ho scoperto, un vasto ciclo che comprende buona parte della produzione fantascientifica di Le Guin. Una scatola perfetta per osservare al microscopio culture diverse e i loro sviluppi, e infatti il cosiddetto "Ciclo dell'Ecumene" contiene veramente un po' di tutto perché ha una formula molto elastica e permette di curiosare in giro per pianeti scegliendo in assoluta libertà di guardarli dall'esterno, dall'interno o da un punto di vista moderatamente coinvolto senza doversi preoccupare di dividere i personaggi in buoni e cattivi o di condurre la vicenda in modo particolarmente etico.
Le storie dell'Ecumene sono molto interessanti perché aprono davanti al lettore scenari sempre nuovi e non limitano in alcun modo la libertà del narratore. Certo, c'è di mezzo una vicenda, e di solito l'autrice ha la gentilezza di far prevalere alla fine il punto di vista dei  personaggi più simpatici, ma non si vince e non si perde mai in modo definitivo: le cose continueranno ad andare a modo loro, dopo la fine del racconto (o del romanzo) e in certi casi il finale è addirittura aperto, o meglio prelude a un nuovo inizio. 
I protagonisti dell'universo leguiniano non sistemano mai nulla così bene da far vivere in seguito tutti felici e contenti per sempre. La trama standard di un suo  racconto, lungo o breve che sia è "C'è un contrasto, si cerca di risolverlo mediando, alle lunghe ci si riesce, ma si sa com'è la vita: morto un contrasto ne arriva un altro, e si deve ricominciare a tessere". Niente scontri titanici, niente vittorie schiaccianti, ma la vita che continua e vince non chi riesce a schiacciare l'avversario, ma chi riesce a renderlo ragionevole o a venirgli incontro. In questa particolare congiuntura storica, leggere storie così fa un gran bene.
Del ciclo dell'Ecumene fanno parte i sei racconti centrali (e forse, chissà, anche l'ultimo. O potrebbe farne parte). Si parla di condizione femminile in varie culture, ma anche e soprattutto di schiavitù - in realtà i due temi hanno svariate possibilità di intreccio, e ognuna moltiplica i possibili sviluppi che si aprono davanti al narratore. Se il pianeta Seggri aveva sviluppato una società dove le donne predominavano, partendo da un grosso squilibrio numerico tra maschi e femmine, cosa può succedere in un pianeta ricco di miniere che viene popolato inizialmente soltanto con schiavi maschi e che solo gradualmente inserisce una piccola percentuale di schiave femmine per scopi riproduttivi, una volta che il pianeta diventa indipendente? Quale posizione verrà riservata alle donne, dopo la liberazione? E cosa faranno le donne, stabilito che per loro non sembrerebbe cambiato un granché?
Il caso non è poi così teorico, lo sappiamo. Del resto, è ovvio che ogni scrittore di fantascienza finisce per raccontare la storia della Terra: ma è pur vero che la storia della Terra è abbastanza variegata da offrire un buon ventaglio di possibilità, tanto che anche il più prolifico degli scrittori non riuscirà mai ad esaurirle tutte.
Così abbiamo un racconto dal titolo apparentemente molto esplicito di Liberazione di una donna dove il tema dell'emancipazione femminile passa sullo sfondo e dove il tema portante è in realtà il rapporto schiavo-padrone e la gestione del potere.
L'ultimo racconto invece affronta il tema consueto dell'astronave impegnata in un viaggio multigenerazionale alla ricerca di un nuovo pianeta. Siamo ormai alla quinta generazione, con la sesta appena abbozzata quando arriva il Problema - deve pur arrivare un problema, altrimenti la storia non la fai. Stavolta il problema non è un errore dei progettisti o un meteorite che fa scempio dell'astronave (anche se in effetti un errore i progettisti l'hanno fatto); il Problema nasce però dalle particolari condizioni in cui si ritrova "naturalmente" una nave che viaggia per più di cento anni senza poter cambiare equipaggio e dove col passare delle generazioni si finisce non solo per dimenticare il motivo originario della spedizione, ma addirittura per dubitare del senso della spedizione stessa. Ci sono tutte le premesse per una spaventosa rivolta interna - e tuttavia la rivolta non ci sarà e il contrasto verrà mediato e risolto nel più scintillante trionfo della democrazia, con una soluzione assai originale e una specie di finale a sorpresa.
C'è anche un pacchetto di racconti fantasy - in pratica l'intero quinto volume del ciclo di Terramare, che fino a qualche anno fa era conosciuto in Italia come il ciclo di Earthsea (manca solo un racconto, piuttosto corto ma anche molto bello). Molto, molto rispettabili e anche ben scritti, ma ammetto di preferire Le Guin come autrice di fantascienza.

In conclusione: una buona lettura, molto adatta alle lunghe serate invernali, dove i racconti offrono anche spazio ad abbondanti riflessioni e ti tengono quindi imopegnata anche dopo la fine della lettura.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro a tutti buone letture in questo inverno che al momento segue tutte le regole del buon inverno e invita alle lunghe serate di letture sotto il kotatsu - con accanto una bella ciotola piena di mandarini.

mercoledì 22 gennaio 2020

A cosa serve il registro elettronico? - 8 - A complicarti la vita, se nessuno si occupa di farlo funzionare

Un micetto coordinatore chiede gentilmente di avere accesso al registro elettronico felino

Come ho già avuto occasione di raccontare, quest'anno la nostra segreteria perde decisamente colpi; ma col registro elettronico sta decisamente superando sé stessa.
Chi insegnava anche negli anni scorsi tutto sommato si arrangia decentemente, fermo restando che qualcuno ha segnata anche l'ora di ricevimento (a che pro?) e qualcuno no. Ma per i nuovi arrivati son dolori.
Prendiamo gli insegnanti di sostegno. Alcuni di loro, misteriosamente, non possono aggiornare presenze e assenze, in compenso nessuno di quelli che ha fatto solo una breve comparsata a inizio anno è stato cancellato - ci sono quindi classi che, in certe ore, hanno quattro righe: insegnante che ci fa lezione, sostegno attuale, sostegno precedente e magari ricevimento di qualcuno che in quella classe a quell'ora non c'è. Le righe poi diventano cinque se in quell'ora c'è una sostituzione, e insomma a volte per firmare alla quarta ora si devono scorrere tre schermate.
E vabbé, nel più ci sta il meno.
Poi c'è una delle nuove in segnanti di Arte, un tipino tranquillo, coscienzioso, un po' perfezionista e molto new age, che veste sempre in azzurro tono-su-tono, cpn una raffinatezza degna delle migliori dame hejan, e che quindi io amo profondamente.
Una brava figliola molto gentile ed educata - e questo le crea qualche problema.
Non con i ragazzi, che sembrano apprezzarla e con cui fa dei lavori molto interessanti.
Non con i colleghi, con un'unica eccezione (di cui vado più sotto a riferire).
Ma con la Segreteria sì.
Costei ha la grave colpa di essersi vista rifilare il coordinamento di una classe. Visto che li vede una volta a settimana e che un giorno a settimana lavora a Crifosso, chiaramente una parte del coordinamento - la raccolta dei vari tagliandi & moduli, per esempio - ricade sui colleghi, il che rientra nel normale ordine delle cose e nessuno se ne lamenta tranne Lettere, che continua a ripetere almeno tre volte al giorno di come tutti pensano che sia lei la coordinatrice, compresi i ragazzi e i genitori, e spiega un giorno sì e l'altro pure a chiunque le capiti a tiro che la vera coordinatrice è lei e l'altra non fa niente - il che molto ingiusto perché, pur vedendo la classe una volta a settimana, costei è una coordinatrice assai precisa e coscienziosa e si è sobbarcata tutto ciò che le spettava facendolo con molto garbo e nel migliore dei modi. 
A me non sembra una gran tragedia raccogliere qualche sfilza di tagliandi in più, l'ho sempre fatto anche quando non ero coordinatrice e non mi sono mai aspettata una medaglia al merito per questo - e giustamente nessuno me l'ha mai data, come non l'ha data alle varie insegnanti di Lettere che, vedendo quasi sempre una classe tutti i giorni collezionano tagliandi vari.
Ma non è soltanto Lettere che è convinta che Arte non sia la vera coordinatrice di quella classe; evidentemente anche in Segreteria la pensano così, perché non le hanno dato le credenziali da coordinatore nel registro elettronico - in pratica, non entra altro che nelle sue ore e non ha accesso ai voti degli altri e soprattutto a quei magici campi che formano la delizia del Fortunato Coordinatore, ovvero l'area dei Giudizi Globali e quella delle Competenze.
Di solito, va detto, non è che il Coordinatore passi le sue giornate a bracare i voti messi dai colleghi, ritenendo di avere fin troppo a che fare con i suoi se non quando si avvicinano gli scrutini - e  insomma, solo una settimana prima del prescrutinio (quando appunto i consigli di classe sono in gran parte dedicati ai giudizi globali) costei ha scoperto che non aveva accesso all'area a ciò predisposta.
Lo ha fatto notare col suo consueto garbo prima alla Segreteria, poi alla Preside (che le ha detto di andare in Segreteria) e poi di nuovo alla Segreteria, che ha borbottato qualcosa sul fatto di chiamare Argo. Allora la gentile coordinatrice ha chiamato Argo, dove l'addetto non si è fatto trovare, e poi è di nuovo andata in Segreteria...
Conclusione: visto che è coscienziosa oltre che gentile, non ha ancora mandato a Fanculo nessuno e invece ha fatto una stampa su carta della tabella dei giudizi, poi l'ha ridotta e rimpicciolita perché potesse entrare in due fogli e infine ne ha fatto tante fotocopie quanti sono gli alunni, e con la sua bella risma si è presentata al Consiglio per fare i giudizi.
L'ho ammirata molto per la sua gentilezza e dedizione alla causa, ma ho anche pensato che, appunto perché gentile e coscienziosa, Preside, Argo e Segreteria avrebbero dovuto riservarle un trattamento molto migliore.
Di tutta la faccenda, ovviamente, la Coordinatrice in pectore se n'è infischiata alla grande.
Immagino che non siano queste le tragedie della vita, ma temo di essere rimasta piuttosto irritata da tutto ciò.
Senza contare che, siccome i giudizi compaiono sulle schede che tra un paio di settimane andranno stampate, e quindi Segreteria, Argo e Preside dovranno comunque darsi una mossa perché i giudizi non si stampano da soli se nessuno li inserisce nel registro, non capisco nemmeno il gran vantaggio di tutto questo scaricabarile.
Ma immagino sia un limite mio.

domenica 19 gennaio 2020

La Seconda Invasata (siamo tutti insegnanti, con le classi degli altri)

A volte si invasano le piante, a volte si invasano gli studenti.
Dice che però il procedimento non è lo stesso.

Ai miei occhi la Seconda Invasata era una classe come tante, a parte il fatto che studiavano decisamente pochino. Nemmeno quel tratto tuttavia era granché sorprendente: spesso le Seconde cercano di allargarsi, soprattutto con gli insegnanti nuovi - e io per loro ero nuovissima, e per giunta gli facevo una materia di quelle ritenute non troppo importanti, da due ore.
Niente problemi, dovevamo ancora adattarci, io a loro e loro a me. Distribuii generosamente una bella manciata di quattro e di cinque con la lettura della carta e con la verifica delle capitali su cartina muta, spiegai con bel garbo ai genitori che se studiavano solo metà delle capitali, e magari quella metà comprendeva le capitali che già conoscevano, tipo Parigi, Roma e Atene, chiaramente il voto era destinato ad essere basso; e cominciai come sempre il mio paziente insegnamento per spiegargli come studiare poco e bene rielaborando quel (molto) che già sapevano. Con me, a Geografia, per prendere una insufficienza in pagella occorre impegnarsi con molta dedizione, e dopo un po' di solito tutti si stufano di consacrarsi anima e corpo al quattro e al cinque e acconsentono a fare quel po' che gli consente un voto decente o, a scelta, quell'abbastanza che consente un voto buono oppure ottimo, e già che ci sono imparano anche un po' di esposizione, che non fa mai male.
Quel che mi apparve subito chiaro - e in verità anche l'anno scorso, durante quel paio di sostituzioni che avevo fatto là dentro, l'avevo percepito da alcuni modesti indizi del tipo lampeggianti sull'autostrada che segnalano un incidente grave - era che i rapporti interni facevano schifo, pena, ribrezzo e pietà, e che tutte le energie la classe le impiegava per marcare il territorio con i compagni, salvo pochi casi di carattere eccezionalmente mite che tendevano ad appiattirsi dentro le pareti fino a rendersi totalmente invisibili a puro scopo di sopravvivenza.
Arrivata al primo consiglio di classe accennai al fatto che ero un po' indietro nella programmazione. La notizia fu accolta da un coro di "Capirai la novità, siamo tutti indietro con la programmazione in quella classe". Così mi ritirai buona buona nel mio cantuccio e ascoltai.
Intorno a me veniva descritta una classe da incubo, indisciplinata, incomprensibile e incontenibile. Il mio stupore era condiviso dalla prof. Quadrella, che una volta alla settimana faceva alternativa ad un gruppetto scelto che includeva molti dei Casi Drammatici - i quali Casi Drammatici venivano su con gli altri in biblioteca e più volte avevo assistito alle lezioni, che Quadrella svolgeva, in verità in un clima amichevole, disciplinato e piuttosto interessato.
"Ah, ma tu hai il piccolo gruppo, nel piccolo gruppo è ovvio che sono più tranquilli" venne stabilito.
Veramente non è ovvio proprio per nulla, e comunque io non avevo un piccolo gruppo, avevo tutta la classe. E quelli segnalati come Casi Drammatici io non riuscivo nemmeno ad associarli a un viso - segno inequivocabile che non si erano messi in mostra più di tanto; perché, d'accordo che a ricordarmi i nomi sono lenta in modo patetico, ma i primissimi nomi che si imparano sono quelli dei più intemperanti, e anche se le mie pretese disciplinari sono piuttosto modeste, se qualcuno si mette a urlare e ballare nel bel mezzo della lezione, come dire, perfino io mi sento in dovere di manifestare un vivace disappunto oltre a scrivere svariate cose sul registro di classe.
Con me comunque nessuno aveva mai fatto niente del genere. Qualcuno, sì, si era messo a dare di scemo a qualche compagno che aveva magari dato una risposta un po' improvvisata, o aveva disturbato le altrui interrogazioni; in quei casi  senza remore avevo aperto loro il mio cuore e detto apertamente cosa pensavo del loro comportamento; col passare delle settimane però questo tipo di esternazioni era andato scomparendo e ormai le interrogazioni si svolgevano in un clima quasi civile. Insomma, non mi ero trovata davanti a niente di insostenibile.
In seguito qualcuno, in privato, mormorò che certi insegnanti davano troppi rapporti e non si rendevano conto e non sapevano tenere la classe - ma siccome detti insegnanti sono quattro, più due che si sono rassegnati e i rapporti non li mettono, dissi apertamente che secondo me si trattava di un caso di bullismo alla rovescia, e siccome ai tempi delle supplenze brevi sono stata bullata anch'io, aggiunsi che era un po' troppo facile mettersi il cuore in pace così, visto che nessuna classe al mondo mai può essere "tenuta" se non accetta di farsi tenere.
Nel frattempo i genitori mormoravano. Il problema diventò dunque non più che era difficile tenere la classe, ma che era difficile tenere i genitori - una questione che non ho mai capito, devo dire, ma che per alcuni insegnanti costituisce un Vero Problema.
Infine arrivò l'ultimo giorno prima delle vacanze di Natale. Alla quarta ora entrai e feci lezione, collezionando una serie di interrogazioni piuttosto dignitose. Poi suonò la campana dell'intervallo.
Mi chiesero il permesso di tagliare panettoni e pandori per una mini-festicciola, e glielo accordai di buon grado. Poi mi occupai di una ragazza che stava male e doveva essere un po' badata.
Quando rialzai gli occhi, pochi minuti dopo, la classe era invasa da creature urlanti - ma davvero urlanti, da fare invidia a delle banshee, e il pavimento era coperto, letteralmente, di popcorn e briciole di patatine. Roba da chiedere l'intervento di uno spazzaneve. Per giunta scoprii che nell'ora seguente dovevano fare il compito di spagnolo - ma la povera insegnante non sapeva di doverlo fare su una pista da sci.
Tirai fuori la mia pelle da Tigre Ircana e cominciai a ruggire ordini perché rimettessero tutto a posto. Quando arrivò Spagnolo due ragazzi stavano spazzando alacremente e la classe aveva quasi ripreso una parvenza di decoro.
Giunta in biblioteca aprii il Registro Elettronico e scrissi un rapporto di classe (unica esclusa, la Malatina, che era rimasta vicino a me mentre telefonavo, senza far nevicare niente). Il computer di biblioteca però, poverello, è piuttosto anziano e tiene l'anima con la dentiera, e insomma il rapporto non voleva saperne di partire e così, dopo averci provato per tre volte infine rinunciai.
Alla fine della sesta ora, in atmosfera assai festosa, sono uscita in corridoio con la Prima Asserpentata, con cui ero riuscita nella mirabile impresa di fare una lezione che a tratti era stata perfino ascoltata da buona parte di loro. 
Davanti a noi c'era la Seconda Invasata, che cantava.
E che c'è di strano se una classe canta in corridoio gli ultimi minuti prima delle vacanze di Natale? Una graziosa classe in festa che gorgheggia carole natalizie? Faranno un po' di confusione, ma che importa?
Almeno, io di solito sono in quell'ordine di idee. Oh, che carini che cantano. Oh, che carini, giocano insieme.
Stavolta però mi sono spaventata. Non era solo quel che cantavano - niente di natalizio, credo, ma come cantavano. Era un coro da stadio, di quelli di curva ultrà, quando si promettono a vicenda di ammazzarsi di botte. Era un coro da corteo, di quei cortei che fan lo slalom tra le bottiglie molotov mentre la polizia si ripara dietro gli scudi di plastica. L'insegnante che era con loro era palesemente più spaventata di me. La prima alle mie spalle si è chetata come d'incanto. Avevano paura anche loro.
Vivaddio, è suonata la campana. 
Quando sono risalita dopo aver accompagnato la Prima ai cancelli sì come prevede il regolamento, ho trovato due genitori ad aspettarmi. Li ho accolti con un bel sorriso.
Hanno accennato al rapporto di classe, provando a indagare sull'accaduto cercando attenuanti.
"Sì, li avevo autorizzati a mangiare i panettoni. Perché non avrei dovuto? Era una richiesta assolutamente legittima. No, la nevicata l'hanno fatta tutti. Non "i soliti", proprio tutti. La cosa strana era che sembravano trovarla normale. Non erano consapevoli di fare qualcosa di insolito o fuori dalle regole. Del resto, anche prima, li avete sentiti cantare, immagino".
Sì, hanno ammesso, li avevano sentiti.
In effetti non so con che intenzioni erano corsi a scuola. Dubito, visto il terzo grado che mi hanno fatto, che fosse per scusarsi a nome dei figli. Ma il coro da stadio l'han sentito anche loro, e quando sono andati via avevano le orecchie basse, anche se io ero stata assai salottiera & disponibile.
Quanto a me, sono rientrata in Sala Insegnanti dopo averli accompagnati alla porta proclamando "La classe è invasata. Ci vuole l'esorcista".
Nessuno dei presenti mi ha contraddetto.
(Forse hanno pensato che l'esorcista sarebbe servito anche a me?)

venerdì 10 gennaio 2020

Cime tempestose - Emily Brontë


Quella a destra è l'edizione che ho letto da bambina e che tuttora ho in casa. È stata stampata nel 1965 ma, nonostante sia una edizione Garzanti, la colla della rilegatura regge ancora, caso più unico che raro, e il fatto che abbia i nomi in italiano per una volta non mi disturba. Va anche detto che i nomi sono pochi, e in buona parte non traducibili, quindi Heathcliff, Hareton, Hindley e Linton restano tali e quali, Caterina e Isabella non cambiano molto a chiamarle in inglese, Edgar è un tipico Edgardo e il nome gli sta benissimo anche in italiano e alla fine il problema si riduce all'insopportabile Joseph che diventa Giuseppe, a Frances che diventa Francesca ma è presente per poche pagine e a Ellen Dean che a chiamarla Elena non fa una grande differenza. In effetti, rileggendolo nei giorni scorsi, mi sono accorta di questa caratteristica della traduzione solo verso pagina 100.
Proprio per ovviare al problema dei nomi verso i vent'anni comprai una traduzione della BUR, ma c'era un saggio introduttivo che mi fece rizzare i capelli quando lessi la teoria dell'autore che dava per scontato che Catherine vivesse il suo amore per Heathcliff come una colpa di cui punirsi. 
Catherine? Che si sentiva in colpa? Cosa si era bevuto quel poveretto prima di scrivere?
Caso mai uno dei problemi (per chi ci aveva a che fare) di quella insolita eroina vittoriana era proprio una notevole mancanza di sensi di colpa anche in quei rari casi in cui forse un minimo di tendenza ai sensi di colpa l'avrebbe aiutata a non commettere alcune azioni piuttosto avventate - per esempio raccontare a Heathcliff che Isabella era innamorata di lui.
Insomma mi tenni la vecchia edizione e lasciai a mia madre la nuova, quando traslocò. Magari, a parte quella stupidaggine, era un saggio interessantissimo e pieno di teorie illuminanti, ma non lo saprò mai perché non l'ho letto.

Dunque alla prima lettura avevo sui dieci anni. Non saprei dire se  mi piacque:  lo trovai un libro "da adulti", insomma al di sopra delle mie possibilità, ma mi sembrò anche una roba molto importante e comunque, fosse o meno per adulti, me lo lessi da cima a fondo.
In seguito lo lessi altre due o tre volte, e alla fine stabilii che era uno dei miei libri preferiti e che non era colpa solo della mia giovane età se mi aveva turbato e lasciato piuttosto confusa. Nel frattempo avevo imparato un sacco di cose sulle sorelle Brontë e, arrivata all'università, decisi di farmi un esame di inglese portando appunto la scheda su di loro. Il programma prevedeva  anche che portassi 50 pagine in inglese da uno dei romanzi. Scelsi Wuthering Heights e me lo comprai in inglese (foto a sinistra) in una rispettabile edizione Penguin che riposa tuttora sugli scaffali della mia libreria ed è uno dei pochi testi in lingua originale che possiedo. Scelsi le cinquanta pagine con grande cura dopo una accurata rilettura e optai per la sezione che andava dalla nascita di Hareton allo scontro tra Catherine e suo marito che porterà alla fatale malattia che la ucciderà. Mi sembrò una sezione molto densa e soprattutto includeva la seduta di autocoscienza dove Catherina pronunciava la celebrissima affermazione ìIo sono Heathcliff - che ai miei occhi era il centro del romanzo.
Mi preparai con gran cura all'esame e lessi e rilessi ad alta voce più volte la seduta di autocoscienza di cui sopra, nemmeno mi fossi dovuta preparare a un provino per ottenere la parte, ma con mia grande delusione mi fecero tradurre un passo piuttosto andante dove il narratore si lamentava del decorso della sua influenza e la chiacchierata in cui si risolse l'esame si concentrò soprattutto su Charlotte - ma comunque non mi mancarono gli argomenti e l'esame finì in gloria con un rispettabile trenta. 
Dopo di che non l'ho più riletto fino a quattro giorni fa, quando l'ho preso in mano per fare questa presentazione per il Venerdì del Libro di Homemademamma.
In questi trenta anni e passa ho vissuto molte esperienze e letto molti libri ma Cime tempestose continua a catturarmi in un modo tutto particolare: per quattro giorni ho vissuto nella brughiera considerando tutto il resto della mia vita di tutti i giorni alla stregua di seccature appena tollerabili. Adesso ho un bel paio di occhiaie e sono decisamente suonata, ma in me cova un certo sollievo. È un bel libro, un bellissimo libro, ma è anche decisamente cupo - e più è cupo e più mi avvince. Ma non credo di essere un caso isolato, in questo.
E naturalmente sono sempre più convinta che è una roba molto importante e difficile da capire. Sì, è vero che era un romanzo strano per l'epoca in cui fu scritto, ma mi sembra che col passare degli anni sia rimasto altrettanto strano.

Parliamo dei personaggi?
Abbiamo prima di tutto Heathcliff, un perfetto eroe Romantico e Titanico - più volte viene anzi insinuato dai personaggi che è una creatura demoniaca. Sì, certo, è un personaggio abbastanza irreale, ma nella sua irrealtà è costruito proprio bene. Cime tempestose in realtà è la sua storia, quasi completa. Mancano infatti i primi tre anni - quando entra in scena è il classico bambino vittoriano affamato che piange disperato per la città e nessuno se lo fila, e il signor Earnshiow lo raccatta e lo porta a casa come si potrebbe fare con un gatto randagio e gli dà un nome, che poi diventa anche il suo cognome. Poi mancano i circa quattro anni in cui sparisce, partendo da Wuthering Heights senza un soldo o un panino in tasca e ritornando ricco e ben pasciuto nonché assai affinato nei modi. 
Cosa ha fatto in questi quattro anni? Niente di buono, probabilmente, ma nessuno ce ne parla. Sospetto che nemmeno Emily Brontë lo sapesse bene, anche se qualche critico ipotizza che si sia impelagato nella tratta degli schiavi. Di sicuro era una roba redditizia.
La sua innamorata, Catherine, è probabilmente l'eroina più insolita della letteratura vittoriana: spregiudicata, rabbiosa, testarda, irragionevole... difficilissima da descrivere, in ogni modo. E simpatica, a modo suo, nel senso che si finisce per entrare in empatia con lei. Di sicuro una persona che cerca di far andare le cose a modo suo, fino ai limiti della più totale irragionevolezza.
Poi c'è Ellen Dean, la narratrice in seconda, la confidente di tutti, quella che a tratti dirige l'azione. Ufficialmente è una governante, anche se comincia la sua carriera come sguattera tuttofare, ma nessuno dei personaggi la tratta come una semplice domestica. Di lei come persona sappiamo davvero pochissimo e anche se passa trecento pagine a raccontare e raccontare, lei stessa non sembra avere una visione precisa di quello che sta raccontando - o meglio, magari ce l'ha ma non ne parla, e il narratore ufficiale non interviene mai per chiederle chiarimenti o opinioni. Difficile descriverla, difficile definire davvero il suo ruolo, difficile capire i suoi sentimenti, soprattutto verso Heathcliff, verso il quale cambia opinioni un'infinità di volte - come il lettore, del resto.

Una domanda mi ha sempre turbato: perché diavolo la cornice è così complicata?
La storia vera e propria è piuttosto semplice, ma la cornice è davvero sovrabbondante.
Abbiamo un tale (un uomo d'affari, scopriamo da un vago accenno), che decide di allontanarsi per un po' dal frastuono di Londra e di andare per distrarsi in un posto solitario e perciò affitta una casa nella brughiera inglese.
Il padrone di casa, Heathcliff, è un tipo strano e decisamente solitario. Così, colto da un attacco dello spirito di contraddizione che assicura essere uno dei suoi tratti caratteriali, il narratore lo va a trovare. Capita in una casa di pazzi decisamente inospitale dove lo tengono a dormire solo perché una grandiosa bufera si è scatenata e unicamente per l'intervento misericordioso della governante si ritrova in un letto invece che a dormire su una sedia. Comunque finisce per prendersi una colossale infreddatura che lo tiene a letto (il suo letto) per diverse settimane; per distrarlo, la governante della casa che ha affittato gli racconta la storia del misterioso Heathcliff.
A sua volta però la governante spesso e volentieri riferisce racconti e resoconti e talvolta quei resoconti comprendono a loro volta dei racconti - in certi punti abbiamo ben quattro strati: la governante racconta che Catherine le ha raccontato che Isabella le ha raccontato...
Perché complicare così le cose? D'accordo, spesso i vittoriani infilano le loro storie in una cornice, ma qui si esagera.
La risposta mi è arrivata all'improvviso: sono tutti filtri.
Il narratore ascolta, commenta ogni tanto (ma pochissimo) ma si sente molto distaccato dalla vicenda. I protagonisti sono tutti pazzi e come tali li accetta, piuttosto divertito, evitando con cura di giudicare.
Ellen Dean è a tratti molto coinvolta, e commenta parecchio, ma siccome si limita a riferire giudica sì, ma dall'esterno - e spesso conviene col lettore che i protagonisti sono abbastanza pazzi e che lei davvero non si capacita.
Tutto ciò esenta l'autrice dal commentare a sua volta - lo scrittore vittoriano è spesso molto portato a tranciare giudizi sui suoi personaggi e a illustrarne minutamente i vari moti dell'animo, ma qui nessuno spiega mai niente e se ogni tanto qualcuno dei personaggi non si desse all'autoanalisi non sapremmo mai cosa gli passa per la testa - e anche così ne sappiamo abbastanza poco. D'altra parte, visto che molto spesso costoro fanno delle scelte decisamente immorali secondo la cultura dell'epoca (e anche secondo la nostra, a distanza di quasi due secoli!) l'unico modo per commentarli sarebbe criticarli aspramente dall'inizio alla fine, in particolare per quel che riguarda i due innamorati principali - che tuttavia esercitano un grande fascino sul lettore. Oddio, hanno fatto anche questo e quest'altro? Oddio, ma quando arriva il sermone di critica che gli spetta di diritto?
Non arriva. Il lettore - ogni lettore - è costretto a giudicare da solo. Di solito evita di giudicare, non soltanto perché gli innamorati sono sempre simpatici, ma anche perché gli sembra di trovarsi davanti a qualcosa che sfugge ai normali metri di giudizio. D'accordo, non è carino cercare di vendicarsi su una famiglia che sembra giù abbastanza messa male di suo. D'accordo, non è bello sposare un uomo essendo assai consapevolmente innamorata pazza di un altro. Ma alla fine sono tutti puniti... sono puniti?
Mmmhh, non è granché chiaro. 
C'è un lieto fine? 
Mah, non risulta.
Allora finisce tutto male?
No, non proprio. Soprattutto, cosa si intende per "finisce male"?
E arriva la collera divina?
Mmmhh, sembrerebbe di no... Cioè, dunque....
Si può avere la domanda di riserva?

Seconda domanda: che ci sta a fare la seconda parte?
Catherine viene sepolta alla fine del sedicesimo di trentaquattro capitoli, appena dopo la metà del romanzo, lasciando il suo Heathcliff in un mare di lacrime. L'addio dei due innamorati è straziante - un perfetto finale, a ben guardare, perfettamente romantico: lei muore giurandogli eterno amore, lui vivrà ancora a lungo e passerà la sua vita a piangerla. Come spiego sempre ai miei alunni, l'eroe romantico ha sempre alle spalle un grande amore finito malissimo. Lei muore, lui resta a piangerla. Nei rarissimi casi in cui lui muore per primo, lei muore quasi subito dopo col cuore spezzato. Caso classico, la storia di Tristano e Isotta, che ha diversi agganci con la vicenda di Cime Tempestose - e infatti con una certa soddisfazione ho scoperto che Bunuel nel suo film ha scelto come colonna sonora  proprio il Tristano e Isotta di Wagner - che Emily Brontë non può avere ascoltato perché Wagner lo scrisse una ventina di anni dopo che Emily era morta.
La storia però continua, solo molto più scialba. Le vicende della giovane Cathy e dei suoi amori sono raccontate benissimo, perfette in ogni particolare, squisitamente realistiche - povera ragazza, cresciuta in assoluta solitudine non è certo strano che si innamori dell'unico ragazzo che riesce a frequentare prima, e dell'unico ragazzo che si trova intorno dopo, e tutte le critiche che le rivolge Ellen mi sembrano fuori luogo; ma il lettore ormai drogato dall'Amore Assoluto di sua madre e di Heathcliff trova il tutto un po' insulso, e infatti i film di solito si fermano alla morte di lei appiccicandoci un lieto fine con i due spiriti che si ritrovano*. 
Emily Brontë invece ha continuato, e nel corso della lettura Heathcliff perde decisamente parecchio del suo fascino e finisce per risultare insopportabile ad Ellen come ai lettori, che a un certo punto gli darebbero volentieri fuoco dopo averlo cosparso di kerosene. Quel che fino a pagina 200 era un perfetto eroe romantico finisce per diventare una persona davvero odiosa e odievole. A che pro?

Rileggendolo credo di aver capito, tutto sta a vedere se riuscirò ad esporlo in modo almeno vagamente comprensibile.
Cime tempestose è la storia di due innamorati il cui unico scopo nell'esistenza, praticamente dal momento in cui si conoscono (piccolissimi) è stare insieme, possibilmente da soli nella brughiera. Persino quello che Heathcliff definisce "il capriccio per Linton" non è una vera infatuazione, è un tentativo della ragazza per dare, con l'aiuto del marito, una posizione adeguata al suo Heathcliff. Idea balorda, siamo d'accordo, ed è improbabile che Edgar Linton avrebbe collaborato di buon grado - ma Catherine ha sempre avuto la tendenza a credere quel che più le faceva comodo, non solo quando si trattava di suo marito. 
A metà libro Catherine muore, consapevole di aver fatto una sciocchezza ma nel complesso riconciliata col mondo e con la vita - o meglio, con la vita che l'aspetta, libera per sempre tra le brughiere. Non muore disperata - quello che è disperato è Heathcliff. 
Dopo la sua morte Catherine gira intorno alla casa e aspetta. Non riesce a raggiungere Heathcliff - che pure non chiederebbe di meglio che essere perseguitato da lei - immagino perché Heathcliff non è ancora pronto.
E davvero non lo è: in lui non vi è ombra alcuna di serenità e dedica la sua infelicissima esistenza a vendicarsi di tutti quelli che lo hanno messo in quella situazione, coinvolgendo anche gente che non c'entra per nulla, ovvero la seconda generazione: il figlio di Isabella, la figlia di Catherine e il figlio di Hindley. E tutto ciò non lo soddisfa affatto né gli porta alcun conforto. Ma una volta compiuta la sua inutile vendetta e placati i suoi (numerosissimi) demoni interiori, riesce finalmente ad affinarsi, comprendendo che la vendetta è inutile. Nell'ultimo, folle monologo a Ellen prova a descriverle la sua nuova situazione: è ormai staccato dal mondo terreno, vive per abitudine, e sente finalmente Catherine vicina, sempre più vicina - finalmente la sente di nuovo. Come molti dei personaggi del romanzo, prima fra tutte Catherine, anche Hearthcliff muore di consunzione, ma la sua morte sembra in effetti più un passaggio in una dimensione diversa che una morte vera e propria - e a quanto sembrerebbe di capire questo passaggio non avviene verso l'inferno, e certamente non verso il paradiso - del resto par di capire che del paradiso Heathcliff non sappia che farsene. Insomma una sorta di vita oltre la vita da trascorrere con lei, che lo ha aspettato per vent'anni - dal punto di vista di entrambi una perfetta felicità. 
Il passaggio però non può avvenire fin quando Heathcliff continua ad essere immerso nelle passioni terrene, ma solo dopo che avrà compreso l'assoluta inutilità della vendetta - e non può capirlo finché non l'ha compiuta e non ne ha testato con i fatti l'assoluta vanità. Smette quindi da un giorno all'altro di tormentare chi gli ha intorno e, dopo qualche giorno di digiuno involontario (nel senso che mangiare non gli interessa più) muore felice. 
Tutto questo Ellen Dean, la narratrice in seconda, quella che meglio li ha conosciuti sin da piccola, probabilmente lo capisce almeno a grandi linee ma si guarda bene dal raccontarlo, e quanto al narratore si rifiuta decisamente di venirne a capo - il romanzo si chiude sulle sue parole che dichiarano che i morti son morti e se ne stanno in pace, amen. Quanto al lettore, è libero di trarre le sue conclusioni (io per esempio ho tratto le mie) ma si sa che di storie di fantasmi è pieno il mondo e ogni villaggio ha le sue leggende, non c'è motivo di prenderle sul serio, giusto?
Sta di fatto che Heathcliff muore probabilmente non redento, certamente non pentito, ma muore in pace, col sorriso sulle labbra e senza traccia esterna dei tormenti infernali che pure parrebbero spettargli per contratto. Madamigella Emily Brontë, figlia di un pastore protestante e fanciulla di noto rigore morale e di sincera e profonda fede religiosa aveva evidentemente idee tutte sue sull'aldilà, ed erano idee che probabilmente non avrebbero entusiasmato i suoi contemporanei, che amarono e odiarono il suo romanzo e che ne dissero assai male, sempre attorcigliandosi sull'eterno dubbio che prendeva davanti ai romanzi delle Brontë: ma erano scritti da un uomo o da una donna?
Rileggendo il romanzo mi sembra comprensibile che si sia dubitato che fosse stato scritto da una donna, e anche che si dubitasse che fosse stato scritto da un uomo, ma che si convenisse che era stato scritto da una persona decisamente originale, e non solo per i suoi tempi.

Ho scritto che Catherine aveva aspettato Heathcliff per venti anni - ma in realtà a dircelo è la stessa Catherine, quasi in prima persona.
Durante la cupa notte che il narratore trascorre, all'inizio del romanzo, a Wuthering Heights (strano nome da dare a una casa; ma cos'è che non è strano in questo romanzo?) Catherine gli appare in sogno. Più che un sogno è un incubo, che più avanti lui riterrà nato dalle fantasticherie indotte dalla lettura di qualche pagina del diario di Catherine - l'unico punto in cui sentiamo la voce della ragazza senza mediazioni. Ma il diario non dice che fosse morta, e che lo fosse da vent'anni, mentre lei grida che da vent'anni sta lì ad aspettare, girando come una vagabonda, e nessuno la fa entrare. All'epoca il narratore ignora tutto della sua storia, e dunque il sogno... forse non è un vero sogno, ma qualcosa che è davvero avvenuto.
Per molti anni ho creduto che la canzone che Kate Bush ha dedicato al romanzo raccontasse proprio la scena del sogno del narratore: ho tanto freddo, Heathcliff, fammi entrare dalla finestra. E per tanti anni per me la canzone era, appunto, solo una serie di suoni mirabilmente intessuti. Poi ho scoperto che c'era un video

e scorrendo i commenti ho scoperto anche che l'interpretazione ufficiale era che Catherine la cantasse sotto la finestra proprio per chiamare Heathcliff che stava morendo, alla fine del romanzo. Ripensandoci, è la possibilità più logica - e del resto Kate Bush, come Emily Brontë è un genio, e tra geni ci si intende bene - senza contare che le due hanno lo stesso compleanno.

Dunque Cime tempestose è un romanzo a lieto fine, e la seconda parte è il necessario completamento della prima, senza la quale i due innamorati sarebbero costretti a vagare separati per l'eternità - il che, dal loro punto di vista, sarebbe stato il peggiore degli inferni possibili.
Tutto chiaro, dunque - almeno fino a quando non mi verrà la fantasia di rileggerlo di nuovo, immagino.

* i film sono parecchi, ma per poco che mi risulta solo quello del 1992 tratta la storia completa.

lunedì 6 gennaio 2020

Desideri per l'anno nuovo (il tuttologo sono me) e buona Epifania a tutti


L'anno nuovo ci ha portato una nuova Ministra per l'Istruzione.
Non so niente di lei, e nemmeno voglio saperlo. Il solo pensiero di un/a nuov* ministr* dell'Istruzione mi terrorizza e desidero solo correre uggiolando in qualche angolo oscuro, alzare il ponte levatoio e attizzare il fuoco sotto la pentola dell'olio-da-assedio. 
È così ormai da molti anni, più o meno da quando insegno. Quindi, almeno per il momento, niente di personale. Assolutamente.
Ne ho giù visti passare tanti, di ministri. Quelli che ricordo più volentieri son quelli di cui non ricordo il nome e che all'apparenza non hanno fatto niente di particolare.
La scuola è il mio lavoro e il mio comparto. Non ne ho nel complesso una opinione negativa, ma sospetto che sia un settore complicato da dirigere - altrimenti non si spiega perché tanta brava gente, probabilmente non sempre animata da pessime intenzioni, abbia fatto tanti disastri. Non farò nomi né esempi perché siamo ancora tutti di umore festaiolo e non voglio mandare di traverso il panettone a nessuno.
Tuttavia desidero rivolgere una piccola preghiera, tanto patetica quanto inutile, alla nuova Prescelta, che viene dopo un Prescelto che forse ha fatto bene a piantare tutto lì e a scappare viste le circostanze - o forse no, chissà.
Non sono piccoli punti dove si possa agire senza spese, al contrario della ricetta proposta tempo fa da un esimio Tuttologo, e non costituiscono una panacea che risolverebbe tutti i mali; ma secondo me aiuterebbero.

1) Si potrebbero avere delle scuole migliori?
No, non sul piano didattico, proprio migliori come edifici. Più belle, più spaziose, con aule più grandi,  bei giardini, locali gradevoli, un riscaldamento gestito da un bel termostato,  colori ben scelti. Edifici dove si entri volentieri. 
È mai possibile che quando le nuove leve sono fuori dalla scuola niente sia abbastanza bello per loro e tutto diventi scialbo, squallido e miserabile non appena si accostano al Mondo della Conoscenza?

2) Si potrebbe avere qualche custode in più?
Si va diffondendo la balzana teoria che i custodi sono inutili e basti appaltare a qualche cooperativa con personale malpagato il lavoro di pulizia dei locali. Ma i custodi non sono soltanto quelli che puliscono; fanno un sacco di altre cose e soprattutto sorvegliano. Con l'attuale fissazione maniacale che c'è sulla necessità di sorvegliare le creature anche quando sono al cesso sulla tazza - quando pur ce l'hanno, la tazza, e non è sempre garantito - diminuire i custodi sembra un'idea talmente cretina che non ci son parole per commentarla. La strada per l'intervallo in classe passa anche da lì, dai custodi in sottonumero.

3) Si potrebbe avere un sistema di reclutamento stabile?
Non dico per tutti i secoli dei secoli, ma un VERO sistema di reclutamento che resti fisso com'è per almeno quindici anni, con tappe rigorosamente scandite (poche, possibilmente, e rapide) che non porti inevitabilmente all'ennesima sanatoria dopo che hai tenuto i precari a precariare per cinque o dieci anni e improvvisamente decidi che vadano formati per un paio d'anni prima di entrare come titolari ma poi alla fine ti tocca farli entrare comunque perché sennò i sindacati - giustamente - ti fanno a fettine per poi essiccarti al sole e sbancano il bilancio statale a suon di ricorsi?
Una volta entrata in ruolo mi sono assolutamente disinteressata della questione, e tuttavia orrendi racconti continuano ad arrivare alle mie caste orecchie. Insegnare è un lavoro duro e faticoso anche quando lo fai male, non puoi farlo nei ritagli di tempo e con le poche energie che ti lascia il continuo frullo e rifrullo di Grandiosi Sistemi di Arruolamento che durano un anno e poi cambia tutto e si ricomincia da zero.

4) Si potrebbe fissare per legge l'incarico di coordinazione di una classe, possibilmente calcolando un  numero di ore realistico e retribuendolo di conseguenza?

5) Si potrebbe fare un sistema di reclutamento per Dirigenti Scolastici che non sforni una percentuale abnorme di pazzi incautamente lasciati a piede libero - magari impartendo ai candidati anche nozioni minime di galateo e di gestione delle risorse (sì, anche e soprattutto quelle umane)?

6) Si potrebbe gestire con un po' più di criterio la trovata dell'alternanza scuola-lavoro, che sulla carta sarebbe una gran bella idea ma che a conti fatti in buona parte dei casi si è ridotta ad una ignobile farsa che in alcun modo aiuta i giovinetti ad appropinquarsi al mondo del lavoro?
Il tempo dei ragazzi è prezioso e non andrebbe sprecato; inoltre non è bello mancargli di rispetto perculandoli per ogni dove (ma va anche detto che qui la colpa non è di solito delle scuole, che dovrebbero limitarsi a scegliere svogliatamente fior da fiore da un bouquet di offerte allettanti e ben confezionate, senza doversi preoccupare di parcheggiare in un qualsivoglia modo i loro iscritti).

7) Si potrebbe vietare per legge di modificare la formula degli esami dell'anno scolastico in corso?
E, soprattutto, si potrebbe perdere la deplorevole abitudine di mantenere la scuola tutta sull'orlo perenne di una crisi di nervi? I ragazzi, povere creature, meriterebbero un po' di riguardo. Non dico gli insegnanti, ma almeno gli alunni.
Insomma, qualcuno vorrebbe pensare ai bambini - anche a quelli un po' cresciutelli che fanno le superiori?

Domani ricomincia la scuola. Evviva la scuola.

mercoledì 1 gennaio 2020

Buon 2020 a tutti

Come non amare questo 2020 appena arrivato?
Così elegante nella sua squisita simmetria, 
così estetico, così aggraziato.
A tutti i migliori auguri di felicità, prosperità ed armonia.


Inoltre...


Il 2020 sarà, a partire dalla fine di Gennaio, l'Anno del Topo.
Stante che il Topo, oltre che un bocconcino assai apprezzato dai gatti, è anche ricco di fascino, ricco in generale perché molto portato agli affari e pure assai capace nel risolvere problemi complessi, le prospettive sembrano buone.
Che la Forza sia con noi!