Il mio blog preferito

venerdì 31 agosto 2018

Storia di Ochikubo

 
Sì, sono d'accordo che la copertina non è proprio il massimo. 
Andate pure a lamentarvi da Marsilio, ma tenete presente che edizione, note, apparato critico ecc.  sembrano invece fatti benissimo.

Nonostante il nome che mi sono scelta in rete la cruda verità è che non sono affatto una gran conoscitrice della letteratura giapponese, e tanto meno dei monogatari, ovvero di quegli antichi romanzi scritti per lo più da nobili e colte dame tra X e XIII secolo - insomma, se mi sono letta il Genji Monogatari che in teoria avrei pure scritto è già tanto. 
Detto questo, non è mai troppo tardi per imparare e quando in biblioteca ho trovato La storia di Ochikubo mi sono detta che magari era arrivato il momento di colmare qualche lacuna.

Si tratta di un monogatari dei più antichi, scritto verso la fine del X secolo da un uomo - sembra che lo si capisca dal tipo di parole scelte, perché da sempre in Giappone maschi e femmine parlano lingue un po' diverse; ma un fiero sospetto si insinua nella lettrice anche quando vede citato lo sterco e financo tirato in causa un attacco di diarrea in piena regola - naturalmente non dei protagonisti, quello sarebbe del tutto inconcepibile per qualsiasi scrittore di romanzi d'amore, maschio o femmina che sia.
La storia di Ochikubo fa parte del fiorente filone dei monogatari con la matrigna, ovvero storie dove una bellissima e bravissima fanciulla è crudelmente trascurata, maltrattata e vessata da una crudele matrigna (il tutto mentre il padre, se è ancora vivo, di lei se ne sbatte alla grande in nome del quieto vivere e della più nera superficialità, com'è il caso di questo romanzo). Se poi aggiungiamo che Ochibuko (il nome che la protagonista ha all'inizio della storia, e che vuol dire all'incirca "Colei che abita in basso") è confinata in una stanza, appunto, molto in basso nel palazzo, che è vestita assai poveramente con abiti logori riciclati dalle sorelle o dalla matrigna, che viene ignobilmente sfruttata perché sa cucire molto, molto bene - una arte che ha imparato da sola, aiutata forse da qualche damigella di casa - e quindi viene messa al lavoro senza riguardi e senza l'ombra di un ringraziamento quando c'è qualche corredo di lusso da preparare per sorelle e generi, il paragone con Cenerentola viene spontaneo.

Edizione inglese, più vecchiotta 

La trama, relativamente semplice, estremamente hejan e squisitamente a lietissimo fine, racconta di una bellissima fanciulla vestita quasi di stracci ma assai sensibile ed elegante  nei pensieri e nello spirito, che suona molto bene uno strumento e ha una bella e raffinata scrittura. I servi di casa la amano teneramente, in particolare una damigella della sorella (che qui svolge col suo fidanzato la parte di Figaro, o forse dovrei dire di Despina) e in qualche modo la notizia dei  suoi molti meriti arriva fino ad un bellissimo, ricchissimo e rampantissimo giovane di nobilissima famiglia che riesce, dopo qualche contrattempo, a introdursi nella di lei camera da letto (all'epoca un modo abbastanza usuale di avviare un corteggiamento, nelle alte classi sociali).
La prima notte comunque non va proprio benissimo, perché la poverella non rivolge una singola parola al suo corteggiatore, non risponde alla lettera che lui le manda come di dovere la mattina seguente e passa tutto il suo tempo a piangere... principalmente per la vergogna di avere una camera così brutta e spoglia e di essere così malvestita.

Naturalmente ci hanno fatto anche dei manga. Questo, il più recente, è del 2014

Quando però la damigella riesce a procurarle un po' di ornamenti per la stanza, delle vesti almeno decorose e una colazione per il corteggiatore (e per lei) le lacrime diminuiscono assai, la timida fanciulla comincia a rispondere ai complimenti del bel principe e la mattina dopo addirittura risponde alla di lui lettera.
Il corteggiamento prosegue con più lieti auspici ma quasi subito la matrigna scopre l'inghippo e trasferisce la sventurata fanciulla... nel magazzino delle provviste, tra sacchi di riso e pesce secco. Tutto ciò naturalmente non fermerà il corteggiatore, che una notte arriva, medita come forzare la serratura della dispensa... e non trovando 
un modo per farlo risolve la questione facendo scardinare ai suoi servi la porta tutta intera.


D'ora in poi Ochikubo vivrà con lui nel suo palazzo come sposa legittima (sua UNICA sposa, aggiungiamo, che era evento piuttosto raro all'epoca) e avvierà con lui un lungo, fertile e felicissimo matrimonio dove le sue doti (prima fra tutte la grande bellezza, ma anche la grandissima proprietà di modi, la profonda cultura e l'estrema raffinatezza) saranno sempre più luminose e giustamente celebrate.


Tutto qui? Non proprio. Perché la bella e raffinata Ochikubo ha un carattere angelico e non porta rancore a nessuno, sì come avviene a quasi tutte le Cenerentole - ma suo marito di rancore ne porta invece parecchio e, tra una tappa e l'altra di una luminosissima carriera, troverà il modo di vendicarsi in modo tanto perfido quanto accorto e approfondito della matrigna e delle sorelle più antipatiche, e solo dopo lunghi preamboli accetterà di ammettere l'ignavo e  codardo padre di lei nelle sue grazie - e personalmente, se ho molto apprezzato la dolce storia d'amore, ammetto di aver gustato altrettanto il racconto delle vendette, anche perché al posto dello sposo avrei certo portato rancore come lui.

Lettura assai piacevole e molto particolare, la Storia di Ochikubo introduce ad una società e una cultura con usi molto diversi dai nostri (e anche da quelli che oggi siamo abituati ad identificare come "giapponesi"); inoltre, tra gli altri effetti, può validamente attenuare le crisi di nostalgia da sushi e sashimi cui una dieta virtuosa può temporaneamente costringere la postatrice (anche perché all'epoca non esistevano né sushi né sashimi, ma già abbondavano i mochi, ovvero i tipici dolcetti di pasta di riso). 

Con questo post partecipo al Venerdì del libro di Homemademamma e auguro buone letture e felice inizio di autunno a chiunque passi per di qua. 

giovedì 30 agosto 2018

Carlo Goldoni - Il teatro comico

Goldoni mi è sempre piaciuto, così decisi di dedicargli uno dei "percorsi di lettura" (espressione del significato mai del tutto chiarito, ma insomma noi gli portavamo qualcosa di scritto su un autore e amen) per l'esame di italiano del secondo anno della SSIS.


CARLO GOLDONI
IL TEATRO COMICO
(commedia di tre atti in prosa scritta in Venezia nell’anno 1750;
prefazione pubblicata alla medesima nel primo tomo 
dell’edizione Paperini del 1753)

Siamo nel 1750 e Goldoni descrive la sua riforma come già avvenuta e trionfante in tutti  i teatri della penisola,  attraverso quella che, per usare le sue parole più che una Commedia, prefazione può dirsi alle mie commedie [...] né altra evvi diversità fra un proemio e questo componimento, se non che nel primo si annoierebbono forse i leggitori più facilmente, e nel secondo vado in parte schivando il tedio col movimento di qualche azione
A dire il vero il risultato non è un semplice  trattato messo in bocca a più personaggi per vivacizzarlo e la naturalezza con la quale i vari argomenti vengono sviluppati  in modo chiaro ed efficace nel corso della commedia è davvero notevole.
La trama è semplice: un gruppo di attori prova una commedia, che a sua volta si sviluppa in una vicenda “alta”, dai toni quasi drammatici per il gruppo dei protagonisti borghesi, e in una vicenda “bassa”, decisamente comica e ancora legata ai canoni della Commedia dell’Arte, riservata ai servitori.  

L’intreccio “alto” racconta di un Padre (l’intramontabile e onnipresente Pantalon de’ Bisognosi) che corteggia una fanciulla, Rosaura, ignorando che questa si è già promessa al figlio Florindo, il quale a sua volta è combattuto tra la gelosia e l’affetto per il padre. Quando finalmente la verità viene alla luce, il padre si mette da parte e acconsente alle nozze del figlio, ma il sacrificio non avviene senza dolore:
Sì, ben, son un galantomo, son un omo d’onor, voggio ben a sta putta, e voggio far un sforzo per demostrarghe l’amor che ghe porto. Florindo sposerà vostra fia, ma perché vostra fia l’ho vardada con qualche passion, e no me la posso desmentegar, no voggio metterme a rischio, avendola in casa, de viver continuamente a l’inferno. Florindo, fio mio, el Ciel te benediga. Sposa siora Rosaura, che la lo merita, e resta in casa con ela e co so sior pare, fina che vivo mi; e te passerò un onesto e comodo trattamento. Niora, za che no m’avè volesto ben a mi, voggiè ben a mio fio. Trattèlo con amor e con carità, e compatì le debolezze de un povero vecchio, orbà più dal vostro merito che dalle vostre bellezze. Dottor caro, vegnì da mi, che metteremo in carta ogni cossa. Se ve bisogna robba, bezzi, son qua. Spenderò, farò tutto, ma in sta casa no ghe vegno mai più. Oimè! gh’ho el cuor ingropà, me sento che no posso più.         (Atto III)

L’intreccio non è nuovo, e i nomi sono rimasti quelli tipici della commedia, ma i sentimenti sono cambiati: il padre benedice la coppia con affetto, provvede alle nozze con generosità, ma la sua sofferenza è autentica, come autentico è l’affetto per Rosaura; né l’uno né l’altro si dissolveranno in due battute com’era buona consuetudine nei finali di teatro comico, e anzi l’autore gli fa trovare una soluzione onorevole e verosimile per sbarcare in qualche modo la situazione: lasciare la casa agli sposi e andarsene. Benedizione sì, soldi sì, quanti ne servono - ma in casa con i due sposi novelli no e poi no, non sarebbe davvero cosa.

Nell’intreccio “basso” troviamo un tipico contrasto tra pretendenti, con i tradizionali nomi delle maschere: il brillante Arlecchino e l’affidabile e solido Brighella si disputano le nozze con la bella Colombina, cameriera di Rosaura (alla fine, sembra di capire, sarà Arlecchino ad avere la meglio, ma il finale resta aperto); l’indecisione di Colombina è autentica, ma già porre il problema come la scelta tra “un marito accorto o un marito ignorante” cambia notevolmente la temperatura emotiva - per non parlare degli argomenti:

COL: Bene, chi di voi mi persuaderà sarà mio marito.
BRIGH: Mi, come omo accorto, sfadigherò, suderò, perché in casa no se manca mai da magnar.
COL: Questo è un buon capitale.
ARL; Mi, como omo ignorante, che no sa far gnente, lasserò che i boni amici porta in casa da magnar e da bever.
COL: Anche così potrebbe andar bene. 
BRIGH: Mi, come omo accorto, che sa sostegnir el ponto d’onor, te farò respettar da tutti.
COL: Mi piace.
ARL: Mi, come omo ignorante e pacifico, farò che tutti te voia ben.
COL: Non mi dispiace.
BRIGH: Mi, come omo accorto, regolerò perfettamente la casa.
COL: Buono.
ARL: Mi, come omo ignorante, lasserò che ti la regoli ti.
COL: Meglio.
BRIGH: Se ti vorà divertirte, mi te condurrò da per tutto.
COL: Benissimo.
ARL: Mi, se ti vorrà andar a spasso, te lasserò andar sola dove ti vol.
COL: Ottimamente.
BRIGH: Mi, se vedrò che qualche zerbinotto vegna per insolentarte, lo scazzerò colle brutte.
COL: Bravo.
ARL: Mi, se vedrò qualchedun che te zira dintorno, darò logo alla fortuna.
COL: Bravissimo.
BRIGH: Mi, se troverò qualchedun in casa, el copperò.
ARL: E mi torrò el candelier, e ghe farò lume.  (Atto II)

La commedia provata quindi ha una doppia anima e guarda sia verso la  “nuova maniera”, sia verso la tradizione, e si presenta come una descrizione della vita di teatro nel momento del  passaggio tra la vecchia e la nuova maniera di intendere il teatro comico. 
Ogni personaggio ha dovuto o dovrà cambiare il suo modo di lavorare per adattarsi alla “maniera moderna” - e qualcuno, come il Poeta e la Cantatrice, rischia di rimanere stritolato nel passaggio. Qualcun altro, invece, si ritrova a svolgere un lavoro nuovo: il Suggeritore.

A questa maniera moderna gli attori della compagnia hanno imparato ad adattarsi, non senza fatica:
buttemo le burle da banda, e parlemo sul sodo. Le comedie de carattere le ha butà sottossora el nostro mistier. Un povero commediante, che ha fatto el so studio segondo l’arte, e che ha fatto l’uso de dir all’improvviso ben o mal quel che vien, trovandose in necessità de studiar e de dover dir el premedità, se el gh’ha reputazion, bisogna che el ghe pensa, bisogna che el se sfadiga a studiar, e che el trema sempre, ogni volta che se fa una nova commedia, dubitando o de no saverla quanto basta, o de no sostegnir el carattere come xè necessario   (Atto I)

ricorda Pantalone al capocomico, spiegandogli le cause della sua (comprensibile) paura.
Il  capocomico gli dà ragione: è vero, col nuovo teatro comico si fatica di più, ma si ottiene anche un successo maggiore. 
Xè vero; son contentissimo, ma tremo sempre gli risponde Pantalone. 

Più avanti Colombina, richiesta di un parere, se chi ha introdotto queste novità nel teatro abbia fatto bene o male, si disimpegna abilmente: 

è una quistione che non è per me. Ma però, vedendo che il mondo vi applaudisce, giudico che avrà fatto più bene che male. Vi dico ciò, non ostante che per noi ha fatto male, perché abbiamo da studiare  assai più, e per voi ha fatto bene, perché la cassetta vi  frutta meglio. (Atto I)

Il nuovo metodo ha anche dei lati positivi, a dire degli stessi attori: quando Brighella scopre che non deve più improvvisare di testa sua con “paragoni” e “allegorie” approva con un lapidario Manco fadiga, e più sanità.

In realtà lo stesso capocomico non è contrario all’improvvisazione, tecnica italiana per eccellenza, e ricorda che ci sono tuttavia de’ personaggi eccellenti che, ad onor dell’Italia e a gloria dell’arte nostra, portano in trionfo con merito e con applauso l’ammirabile prerogativa di parlare “a soggetto”, con non minore eleganza di quello che potesse fare un poeta scrivendo
All’obiezione del Secondo Amoroso, cioé che le maschere patiscono a dire il premeditato, il capocomico ricorda che se il testo è buono e adatto al personaggio,  qualsiasi maschera lo impara volentieri. E d’altra parte al momento le maschere sono ancora importanti e non vanno assolutamente tolte di scena: Guai a noi se facessimo una tal novità: non è ancor tempo di farla ammonisce.
(Eppure, si accorge il lettore, quel tempo non è poi così lontano).

Durante le prove arrivano un Poeta e una Cantatrice per  chiedere lavoro alla compagnia. L’uno e l’altra sono legati ai vecchi schemi del teatro comico e verranno respinti su tutta la linea, pur venendo alla fine assunti come attori.
I due, ridotti letteralmente alla fame, approdano alla compagnia come ultima risorsa. Le loro condizioni, svelate a poco a poco, si rifanno ad un’illustre tradizione comica teatrale di affamati e parassiti - tuttavia il loro problema ha una causa moderna.

Per primo il poeta Lelio (molto magro) si presenta alla compagnia per proporre i suoi lavori,  ma niente di quel che fa sembra andare  bene: dai titoli troppo complicati (Pantalone padre amoroso, con Arlecchino servo fedele, Brighella mezzano per interesse, Ottavio economo in villa e Rosaura delirante per amore), alle protagoniste che dovrebbero  uscir di casa e scendere in piazza, per  raccontare lì  i fatti loro, fino alle scene inverosimili, dove i servi bastonano i padroni. 
Alla fine, mentre il poeta declama un inverosimile dialogo in rima tra innamorati, la compagnia si dà alla fuga.
"Ma no sàla che dialoghi, uscite, soliloqui, rimproveri, concetti, disperazion, tirade, le son cosse che no se usan più? lo rimprovera Brighella prima di spiegargli che oggi si usano solo commedie de carattere, cosa che ha riportato finalmente il teatro comico alla sua antica funzione di correggere i vizi e metter in ridicolo i cattivi costumi. Prontamente allora Lelio offre una sua traduzione da un testo francese, che il capocomico respinge spiegando che
I Francesi nelle loro commedie non si può dire che non abbiano de’ bei caratteri, e ben sostenuti, che non maneggino bene le passioni, e che i loro concetti non siano arguti, spiritosi e brillanti, ma gl’uditori di quel  paese si contentano del poco. Un carattere solo basta per sostenere una commedia francese. Intorno ad una sola passione, ben maneggiata e condotta, raggirano una quantità di periodi, i quali colla forza dell’esprimere prendono aria di novità. I nostri Italiani vogliono molto più. Vogliono che il carattere principale sia forte, originale e conosciuto; che quasi tutte le persone, che formano gli episodi, sieno altrettanti caratteri; che l’intreccio sia mediocremente fecondo d’accidenti e di novità. Vogliono la morale, mescolata coi sali e colle facezie. Vogliono il fine inaspettato, ma bene originato dalla condotta della commedia. Vogliono tante infinite cose, che troppo lungo sarebbe il dirle (Atto II)

Dunque solo un italico testo può contentare questo pubblico esigente e raffinato, al quale i tanto rinomati autori francesi hanno ormai poco da dare (d’altronde un savio autore di teatro deve sempre aver cura di  blandire il suo pubblico...).
In seguito lo sventurato poeta scopre che è in declino anche la classica unità di scena (di cui peraltro, ricorda il capocomico, Aristotele ha parlato solo per la tragedia, visto che il trattato sulla commedia non ci è pervenuto), molto utile per gli antichi che avevano problemi con i cambi di scena, molto meno per l’epoca moderna, che i  cambi di scena li affronta senza problemi. Il concetto di unità di scena non viene in realtà respinto del tutto, solo si raccomanda di osservarlo solo quando l’azione della commedia non ne risulti forzata - che è quasi impossibile con le commedie “di intreccio”. 
(Più avanti lo sventurato Poeta apprenderà che anche i precetti oraziani son in declino, e del resto il capocomico è un po’ filologo).

Scoraggiato, il povero Poeta decide di provare il teatro come attore, anche perché comporre sembra diventata un’impresa impossibile: per quel che sento, sono tanti i precetti d’una commedia quante sono, per così dire, le parole che la compongono. L’audizione andrà piuttosto bene anche se, naturalmente, la scelta del testo da lui usato per la prova sarà assai criticata, approfittando dell’occasione anche per fare una tirata sui soliloqui, in base al sensato principio che non è verosimile che un uomo, che parla solo, faccia a se stesso l’istoria de’ suoi amori o de’ suoi accidenti.

Infine, prima di completare la prova, la  compagnia riceve  una nuova visita: la Virtuosa di Musica, che offre i suoi talenti (a tariffa tutt’altro che modica) per “cantare gli intermezzi”. L’iniziale imbarazzo dei comici, che non sanno come spiegarle che considerano gli intermezzi musicali nel teatro comico alla stregua di anticaglie, viene presto dissolto dalla superbia della Cantatrice (che, spiegherà la donna più avanti, è praticamente un obbligo professionale per un musico).
E’ passato il tempo, signora mia, che la musica si teneva sotto i piedi l’arte comica, proclamano fieramente i comici prima di rifiutare la scortese offerta. Sarà il poeta Lelio, per solidarietà di naufraghi, a portarla a pranzo con la compagnia  e a suggerirle di  darsi anche lei al teatro di prosa.
Mi lascerò persuadere a far la comica? si domanda la Cantatrice, per poi decidere: Mi regolerò secondo la tavola de’ commedianti. Già, per dirla, è tutto teatro, e di cattiva musica può essere ch’io diventi mediocre comica.

martedì 28 agosto 2018

Uno hobbit per finirlo e alle stampe alfin mandarlo

Copertina della prima edizione del Silmarillion - che naturalmente mi precipitai a comprare, in quel lontano 1979

La seconda considerazione che è andata prendendo forma nelle spaziose pareti eccetera eccetera (vedi post precedente) riguarda le vicende editoriali di Tolkien, che fin da ragazzo scrisse ampie e dettagliate storie delle Ere Antiche della Terra di Mezzo, partendo dalla sua creazione attraverso la musica e raccogliendole pazientemente nel Silmarillion, che non diede mai alle stampe.
Tolkien morì nel 1973, ovvero diciotto anni dopo la pubblicazione del Signore degli Anelli. Il romanzo gli portò in cassa qualche soldo e lui andò in pensione. Quali circostanze più favorevoli per riordinare infine la sua opera di una vita, quella cui in teoria aveva sempre lavorato? Ma così non avvenne: quando infine Il Silmarillion venne pubblicato ad opera del figlio Christopher, costui dovette pasticciare non poco per sistemare una materia che era ancora allo stato fluido. Non solo, ma molti dei testi che compongono Il Silmarillion esistevano in più versioni, talvolta lunghe e dettagliate e in contraddizione o in contrasto tra loro. Fino alla fine Tolkien aveva continuato a giocare col suo giocattolo preferito, evitando con cura di dargli una forma stabile che gli permettesse di andare in giro per il mondo incontro a un destino editoriale.
Insomma, la mia personale teoria è che, vivente Tolkien, Il Silmarillion non sia stato pubblicato perché al professore non importava, e voleva tenere aperto il laboratorio fino all'ultimo - oppure, a scelta, che a quel punto le storie del Silmarillion lo interessavano fino a un certo punto perché ormai sapeva come andava a finire la storia. 
C'è un altro fattore da considerare: nel frattempo, nell'eroica Terra di Mezzo colma di gioielli magici e cupidi nani e nobilissimi e sanguinarissimi (e talvolta stupidissimi) elfi e uomini usciti di peso, loro sì, da saghe celtiche e germaniche di quelle dove il destino si comporta sempre in maniera scorretta, era entrato in scena un popolo anarchico e disciplinato, gaudente e resiliente, disinteressato a gioielli magici, alle spade incantate e spesso perfino agli spocchiosissimi elfi, che commerciava con i nani comprando soprattutto giocattoli e fuochi d'artificio... insomma, gli hobbit, con le loro doppie colazioni (una delle quali a base di bacon e uova), i loro pub, i loro campi ben arati, indifesi in modo patetico ma capaci di sbrogliarsela nelle situazioni più assurde.
In presenza degli hobbit le storie assumono un senso, e pretendono a gran voce di essere portate a una conclusione. Non ci sono hobbit nel Silmarillion, se non appiccicati con lo sputo nell'ultimissimo capitolo che in sintesi è solo un rapido riassunto per infilare il Signore degli Anelli in tutta la vicenda. 
Non ci sono hobbit, ma soprattutto: come potrebbero esserci? Cosa potrebbero fare, in tutte quelle storie nobili ed eroiche e pure un po' convenzionali? 
Beh, magari potrebbero farci molto, ma col loro intervento le storie avrebbero avuto una conclusione, un senso, una dimensione precisa: sarebbero insomma diventate vere storie. Oppure, più probabilmente, le storie si sarebbero snaturate perdendo sapore.
Resta il fatto che di tutte le storie della Terra di Mezzo Tolkien è riuscito a completarne e stamparne due (la prima delle quali non era nata per stare nel ciclo della Terra di Mezzo) ed erano quelle con gli hobbit. Guarda caso, sono anche quelle secondo me letterariamente più valide e con i personaggi più interessanti. 
Coincidenze? Personalmente ne dubito.

lunedì 27 agosto 2018

What are we Tolkien about?


Di recente Gaberricci mi ha dedicato un post. La cosa mi ha fatto molto piacere, non solo perché sto attraversando un periodo in cui, sentendomi piuttosto giù di morale, attestazioni di stima e simpatia mi fanno particolarmente piacere - ma anche perché il post in questione tratta di Tolkien e letteratura fantasy. 
In mezzo a tutta una serie di considerazioni (temo piuttosto valide) sulla funzione di buona parte della letteratura fantasy, Gaberricci ricorda anche come Il Signore degli Anelli abbia cristallizzato per decenni il canone della letteratura fantasy col risultato di inchiodarla ancora in culla ad un modello e a una formula ineludibili, anche se via via sempre più slavati.
La cosa è abbastanza nota e chi ha provato ad assaggiare un po' di fantasy degli anni 70 e 80 conosce benissimo il fenomeno (e l'orchite quasi inevitabile che ne deriva al lettore maschio, mentre nelle lettrici si creava spesso uno spiacevole flusso di latte alle ginocchia). Tuttavia, a forza di ripensarci - perché ho tantissimo tempo per pensare alle cose più strane, in questo periodo - si sono concretizzate un paio di considerazioni che da qualche anno frullavano pigramente tra le deserte pareti che dovrebbero in teoria custodire quel po' du cervello che mi è toccato in sorte.
Prima considerazione: la letteratura fantasy nata a imitazione di Tolkien deriva da Tolkien meno di quel che sembra, ed è in realtà figlia soprattutto di una serie di stereotipi culturali attraverso i quali Tolkien è stato filtrato e che sono stati usatissimi per costruire i giochi di ruolo.
Tanto per cominciare, il Medioevo. Qualcuno ha deciso che Il Signore degli Anelli era ambientato nel medioevo perché c'erano un po' di spade famose e i cavalieri di Rohan, e siccome c'era l'ambientazione medievale erano necessari un po' di re, molti cavalieri... e i monaci, di cui in effetti in Tolkien non c'è traccia per precisa e ben determinata scelta dell'autore.
Altri elementi molto gettonati sono stati maghi, orchetti, unicorni, draghi, incantesimi e soprattutto nani ed elfi. Qualche sacerdotessa e qualche strega, anche.Tutto ciò farà magari parte dell'immaginario legato al medioevo (anche se si tratta di roba che continua fino almeno a tutto il Cinquecento e in molti casi risale alla letteratura classica) ma certamente NON del medioevo storico che conosciamo. Molti autori stanno comunque ben attenti a scansare patate, tabacco e spaghetti e pizza al pomodoro, finendo spesso per nutrire i propri personaggi soprattutto di pane e formaggio e cacciagione alla brace o allo spiedo. C'è anche una certa abbondanza di belle ragazze con la spada, in percentuale assai maggiore di quella impiegata dal Professore - ma anche lì, il tema viaggia dalle Amazzoni greche fino alla Clorinda di Tasso e la storia e le tematiche legate a Eowyn non ricordo che vengano mai chiamate in causa.
Elfi e Nani sono molto gettonati ma finiscono spesso per appesantire inutilmente la narrazione: gli elfi sono molto nobili d'animo e pallosi, i nani molto ruvidi e spicci e tutto suona decisamente stereotipato.
Gli orchetti (o i loro equivalenti) e le terre maledette dominate dalle tenebre naturalmente abbondano. Due palle da non dirsi, garantisco. Di solito si tratta di una malvagità di superficie, ottenuta lavorando con effetti speciali su cartongesso, in modo assai convenzionale. 
Qualche storia d'amore qua e là un po' accennata, leggermente più esplicita di quelle di Tolkien. Sesso a malapena intuibile, a volte qualche bacio o una scena un po' affettuosa. Qualcuno ha stabilito che nel fantasy non ci va il sesso e il tabù dura tuttora, se Martin è riuscito a scatenare il vespaio che ha scatenato facendo trombare i suoi protagonisti a volte direttamente sulla pagina (ma niente di più di quanto non sia più che accettabile ormai da decenni nei romanzi  di avventura, e non parliamo di quelli di azione).

In compenso mancano gli hobbit, protetti dalle leggi sul copyright ma anche da qualche meccanismo più potente (forse magico?) che fa sì che non esistano comunità umane che si rifanno al modello della Contea. Ma soprattutto mancano i boschi tolkieniani, che sono qualcosa di molto diverso dalle solite foreste incantate dove a volte si nasconde qualche eremita e che costituiscono uno degli elementi più affascinanti del Signore degli Anelli. Immagino che creare una foresta con una sua personalità sia più complesso che sbattere sulla carta qulche nobile elfo molto saggio e dall'aria assai malinconica (ma bellissimo). 
In pratica: nel rifare Il Signore degli Anelli coloro che hanno... diciamo tratto profonda ispirazione dal romanzo di Tolkien, hanno trovato maggior facilità di utilizzo per gli elementi più commerciali - anche se talvolta hanno trovato loro specifico dovere intrattenere il lettore con soporifere descrizioni di paesaggi costruiti con lo stampino e battaglie simil-medievali (che però, contrariamente alle vere battaglie medievali, facevano un sacco di morti), a rischio di addormentarlo senza pietà.
Abbiamo così una vasta produzione letteraria molto stereotipata, che si è volontariamente rinchiusa in un recinto piuttosto stretto dove l'eventuale inventiva degli autori non ha avuto modo di esprimersi adeguatamente ma anzi è stata repressasenza pietà, probabilmente anche per influenza degli editori, e un genere letterario che non è fiorito se non in mano a quegli autori che hanno deciso di raccontare quel che gli pareva rinunciando volontariamente alla gabbia in cui Tolkien, del tutto involontariamente, li aveva costretti.
In pratica, una grande quantità di ciarpame.

domenica 26 agosto 2018

In nuovo pascolo cercare mia civanza


All'inizio di Agosto risultò evidente che l'ospedale che mi aveva seguito fino a quel momento non riusciva a partorirmi una diagnosi né tantomeno una cura per il misterioso male che  mi andava consumando. L'affare andava facendosi piuttosto grave non solo perché il nuovo anno scolastico si avvicinava e io stavo peggio che pria, ma anche e soprattutto perché si trattava ormai di trovare una soluzione al problema in tempi rapidi oppure rassegnarsi ben presto a non avere più problema alcuno, perché esso  rischiava di scomparire insieme alla possibilità di risolverlo.
Fortunosamente venni infine a sapere di un reparto specializzato in problemi come il mio in un altro ospedale cittadino, e lì decisi di tentare nuovamente la sorte. Arrivai strisciando poco prima di Ferragosto e rimasi piacevolmente sorpresa vedendo che affrontavano la questione da una prospettiva molto diversa, fregandosene alquanto che fosse o meno Ferragosto o qualsivoglia altro giorno festivo. 
Al momento le prospettive non sembrano malvage e avrei perfino una diagnosi, per quanto forse parziale. Comunque chi mi sta vicino sembra molto ottimista e sto recuperando con una certa energia. Di più non mi sento di dire, e aspetto futuri sviluppi.

Stamani poi il mio umore ha subito una impennata positiva grazie allo sbarco degli sventurati migranti che finalmente avranno biancheria pulita, cure mediche, docce calde e materassi dopo essere stati usati dal nostro glorioso ministro degli interni come gadget da propaganda per dieci giorni. Da un letto di ospedale si impara a solidarizzare con tante cose e il pensiero di quei poveretti che dormivano per terra su un ponte di metallo in pieno Agosto, non avevano vestiti di ricambio (immagino che il buon leghista non si cambi spesso la biancheria, o almeno questo è il messaggio che mi è arrivato) né antibiotici per la polmonite, anche se gli davano tre pasti al giorno, stava diventando per me una sofferenza aggiuntiva - non so che farci, mi ha preso così. 
Certo, la figura di merda in mondovisione resta, come resta il senso di vergogna che mi ha perseguitato per tutti questi giorni, ma lì non credo ci sia rimedio possibile se non, appunto, quello di accettare la cruda realtà dei fatti e vergognarsi serenamente.