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martedì 29 maggio 2018

Di tuttologi dell'estate e di bioarchitettura

Stamani ho ripreso servizio, a dispetto di tutto e di tutti - tanto, sarà solo per pochi giorni.
Era una mattinata leggera, solo la prima e la terza ora. Poi sono scappata ben volentieri, perché nelle classi si lessava - alla prima e alla terza ora, e quei poveri ragazzi dovevano farne sei.
Sono tornata nella mia fresca casetta e mi sono piacevolmente spalmata prima in poltrona e poi sul letto. Sì, fuori è discretamente caldo, ma in casa si sta proprio bene. Perché casa mia è stata costruita venticinque anni dopo la scuola, ed è fatta con criterio e ben arieggiata. D'accordo, non siamo in venticinque in una stanza, ma nessuno mi ha mai spiegato perché le classi devono essere così piccole e i ragazzi ci devono stare stipati come acciughe se hanno avuto la sventura di nascere in un anno in cui i genitori sono stati più fertili.

Tutti gli anni, con l'arrivo dell'estate, qualche tuttologo propone che gli insegnanti, onde guadagnarsi meglio il loro stipendio, rinuncino ad una parte delle loro lunghe vacanze (di solito valutate tra i due e i quattro mesi, anche se per le superiori si passa di poco il mese canonico a quel che ho capito) e le scuole siano aperte fino a tutto Luglio prolungando così l'anno scolastico.
A questo punto partono accorati interventi e lamentele da parte di alcuni docenti che, vuoi per soverchia ingenuità, vuoi per puro spirito polemico, insistono a prendere sul serio questa immane cazzata. Segue un accorato dibattito sul fatto che non è vero che gli insegnanti lavorano poco e qualche osservazione sul fatto che nelle classi già a Maggio spesso si schianta di caldo e i ragazzi ci seguono, nel migliore dei casi, con modestissima partecipazione, e che la cosa è possibile solo dotando le scuole di appositi (e costosi) impianti di refrigerazione.
Ora, personalmente sono contrarissima all'aria condizionata, che tra l'altro consuma un sacco di energia oltre a provocarmi spesso raffreddori e pure qualche leggera bronchite. Ma ripensandoci, trovo che il problema di base è che l'edilizia scolastica in generale fa abbastanza schifo.

Punto primo: la scuola di per sé non è nata per far lavorare tanto o poco i docenti, è nata per istruire le nuove leve della nostra società. Al centro della scuola non dovrebbe esserci l'insegnante, ma l'alunno. Il quale alunno avrebbe il sacrosanto diritto di lavorare in un posto bello, piacevole e confortevole. Si trova invece troppo spesso in un edificio brutto se non squallido, talvolta in un container (è incredibile la facilità con cui i comuni si rifugiano nei container e nei prefabbricati, torridi d'estate e gelidi d'inverno) dove i colori sono stati scelti spesso da qualche dissennato in preda a un tragico delirio da acido lisergico, le illuminazioni sono al neon e tutto è di una bruttezza sconfortante, con grande predominio di cemento armato (almeno, si spera che sia armato) al naturale. Se alle materne e alle elementari spesso si cerca almeno di decorare le classi con colori e disegni festosi, via via che si sale di grado tutto diventa sempre più grigio e deprimente. Le aule di St. Mary Mead accoppiano un orribile smalto arancione su metà pareti a un pavimento a piastrelle verde marcio, ma ho intravisto istituti superiori dove il colore predominante è il grigio sporco.
Le scuole sono brutte e scomode. Sulle finestre di tipo più moderno, le cosiddette basculanti, che impediscono perfino un adeguato ricambio d'aria ho già espresso con vigore il mio personale pensiero e non voglio insistere. Com'è possibile che i ragazzi si sentano a loro agio in quello che è il posto dove trascorrono buona parte delle ore di veglia? E che accolgano con piacere l'idea di passarci pure una parte dell'estate?
Il vero problema non sono i condizionatori. Senza arrivare alla follia pura di fare lezione in Sicilia o in Calabria a metà Luglio, le scuole andrebbero progettate in maniera da essere fresche quando fa caldo e facilmente riscaldabili quando arriva l'inverno. Tutti gli studi moderni sulla bioarchitettura, che produce casette a bollette zero e ad altissimo risparmio energetico, con cellule solari sui tetti e strutture altamente ergonomiche, andrebbero applicate prima di tutto alle scuole. Ambienti leggeri e confortevoli che non disperdano l'energia finirebbero per costituire un prezioso risparmio energetico (che tra l'altro risulterebbe assai educativo) e trasmetterebbero la piacevole sensazione che lo stato ha a cuore il loro benessere fisico, oltre che intellettuale. Un accorto uso di colori, basato sugli studi più moderni in materia, e l'uso di strutture robuste ma leggere renderebbero molto più piacevole la permanenza nell'edificio da loro più frequentato. Certo, sarebbe costoso. Certo, non si può fare in dieci giorni in tutta Italia. Ma grosse commesse accortamente distribuite contribuirebbero senz'altro ad abbassare i prezzi richiesti dai produttori senza ingrassare eccessivamente il settore degli impianti di condizionamento, che non mi risulta attraversare un momento di particolare crisi.
Tutto questo lavoro sortirebbe l'effetto di rendere le scuole del Sud frequentabili anche a Luglio?
Certamente migliorerebbe la situazione visto che, almeno alle superiori, le scuole a Luglio sono aperte e in funzione, se non altro per gli esami di maturità.
E renderebbe certamente più agevoli gli esami delle medie di Giugno e consentirebbe probabilmente di frequentare gli ambienti scolastici anche a Settembre e in quelle ultime tre drammatiche settimane di fine anno scolastico in cui sopravvivere è ogni giorno una nuova avventura per tutti noi.

lunedì 28 maggio 2018

Mio nonno ha fatto la marcia su Roma (sull'attendibilità delle fonti storiche di famiglia)

Mio nonno (paterno) ha fatto la marcia su Roma, mentre mia nonna era di famiglia socialista. Uso raccontare l'una e l'altra cosa ai miei alunni, un po' per colore locale e un po' per spiegargli che sì, certo, la dittatura, lo squadrismo eccetera, ma una sua base di consenso popolare il fascismo ce l'aveva, così come c'era anche un certo dissenso silenzioso, perché non tutti han voglia di fare gli eroi e anzi alle donne all'epoca fare politica in piazza era abbastanza sconsigliato.

Ma torniamo a mio nonno, anzi torniamo a me - perché di tutto questo non ho saputo niente fino agli anni dell'università. Quando mio nonno è morto avevo quattordici anni, lo conoscevo come una bravissima persona di animo assai fine, grande lavoratore e ottimo marito. Giocava a carte con gli amici al bar dell'angolo il pomeriggio mentre mia nonna chiacchierava con le vicine, la Domenica mi portava talvolta a un passo dalla città nei sentieri di campagna a raccogliere narcisi e radicchi amari, mi insegnò a nuotare.
Certamente non era un nostalgico: in casa non c'era alcuna immagine del Duce né alcun segno che fosse mai esistito un qualcosa chiamato "fascismo". Di politica non si parlava mai, storie dei bei tempi andati se ne raccontavano talvolta ma parlando di persone. Mai e poi mai avrei sospettato minimamente che lui o la nonna potessero aver avuto un passato politico.
La nonna materna invece del fascismo parlava spesso e liberamente, raccontandomi aneddoti e colore locale, dettagli vari che si riferivano anche a mia madre e ai miei zii, e mai mi aveva fatto mistero di quanto qualsiasi cosa riguardasse il fascismo le avesse sempre dato una colossale orticaria.
Quando ormai avevo compiuto i vent'anni mia madre in tono casuale mi raccontò la seguente storia di famiglia (della famiglia di mio padre, però): il nonno aveva fatto la marcia su Roma, in virtù di questo era stato fatto sciarpa littorio e quindi decorato con una bella sciarpa in panno viola, e dopo la guerra mia nonna in segno di spregio con la sciarpa da littorio ci aveva fatto un paio di pantofole.
In questi termini la storia era stata più volte raccontata ai miei alunni (che a questo punto spero che non mi abbiano ascoltato preferendo dedicare la loro attenzione al pensiero dei loro innamorati o simili). 
Quest'anno, raccontando la storia alla mia attuale Terza, mentre spiegavo che comunque con lo squadrismo mio nonno non aveva mai avuto a che fare, qualcosa nei loro occhi mi ha spinto a una improvvisa riflessione "o almeno così mi ha raccontato mio padre", ho aggiunto.
"Ma suo padre c'era già, in quegli anni?" mi ha chiesto Socrate.
No, ho ammesso; mio padre era ben lungi dal venire, ai tempi della marcia su Roma, anzi all'epoca mio nonno non conosceva nemmeno mia nonna.
E quindi, ho ammesso senza remore, su questo aspetto non ero in grado di garantire niente.
Certo, il nonno che ho conosciuto io era improponibile come picchiatore e somministratore di olio di ricino, ma vai un po' a sapere? Con gli anni si cambia.
Comunque non avevo nessuno a cui chiedere. Ufficialmente mio nonno era stato un simpatizzante del fascismo della prima ora ma non ci si era poi immischiato granché e, durante la guerra, le sue simpatie verso il fascismo avevano subito un netto calo. Secondo mio padre non aveva mai votato per il Movimento Sociale Italiano ma piuttosto per la Democrazia Cristiana. Ma anche lì, vai a sapere.

A questo punto però mi sono anche fatta qualche domanda sulla sciarpa di panno viola. Una rapida ricerca su Google mi ha permesso di vedere che qualcosa non tornava. Prima di tutto la decorazione di sciarpa littorio non era affatto una sciarpa:

E, soprattutto, non era affatto viola, al massimo un po' amaranto. Ne veniva fuori una bella fascia con cui il marciatore si decorava in occasione delle varie adunanze:
Soprattutto, non era affatto chiaro come si potesse da questa pur bella fascia ricavare delle pantofole. Forse usando le nappe per decorazione?
Una ulteriore ricerca su Google però mi ha fornito altri interessanti particolari.
Il titolo di sciarpa littorio non era affatto di poco conto, e attenerlo non era una sciocchezza alla portata di tutti. L'onorificenza venne istituita nel 1939 (anno XVII dell'Era Fascista) nel regolamento del Partito Nazionale Fascista e per ottenerla occorreva non solo aver partecipato alla marcia su Roma (e poter esibire il relativo brevetto che lo attestava) ma anche avere ricoperto per almeno dieci anni, anche non continuativi di cui cinque come gerarca incarichi politici all'interno del partito, all'occorrenza anche nei Fasci Giovanili da Combattimento (che in realtà non combattevano affatto, praticavano principalmente attività sportive).
Dunque al di là della marcia su Roma c'era stato anche un impegno costante di almeno dieci anni di militanza attiva ad un certo livello, anche dirigenziale. Alla faccia dell'appoggio ai tempi delle origini del movimento (beh, sì, in effetti c'era stato anche quello, ma non soltanto quello).
Tutto questo risulta confermato da ben tre dettagli spigolati dai racconti di famiglia:
1) Durante la guerra la famiglia di mio padre non fece la fame, al contrario della famiglia di mia madre che era molto più benestante
2) Da Balilla o Lupacchiotto o quel che era mio padre ricevette anche lui una medaglia al merito e raccontò sempre che durante la cerimonia di consegna si era vergognato assai perché, mentre gli altri ragazzini che la ricevevano avevano compiuto nobili e coraggiose azioni quali salvare bambini che stavano annegando o fermare cavalli imbizzarriti che stavano seminando il panico nella strada o simili, a lui era stata assegnata "per essere sempre stato molto assiduo nel frequentare le adunanze" - il che non era affatto vero - e insomma capì che gliela davano solo e soltanto perché era figlio di suo padre, cosa che lo fece sentire abbastanza in colpa.
3) Dopo la guerra mio nonno venne "epurato", ovvero retrocesso nel lavoro che faceva, ritrovandosi così di nuovo operaio semplice. L'epurazione però non era certo cosa riservata a tutti.
E volendo si può aggiungere
4) che quando mia madre cominciò a uscire con mio padre, nei primi anni 50, qualche vicino premuroso si preoccupò di avvisare la mia nonna materna che "sua figlia esce con il figlio di un fascista" - al che venne risposto piuttosto seccamente che mia madre usciva un po' con chi le pareva, ma in seguito molte domande ansiose le vennero fatte sull'argomento, anche se mio padre si rivelò comunque persona assai rispettabile e non minimamente contaminata dalle sue discutibili origini politiche.

In conclusione, il mio pacifico nonno oltre ad aver fatto la marcia su Roma era anche stato un personaggio di un certo spicco a livello locale, anche se di questo nessuno mi ha mai fatto esplicito accenno.
Tutta questa storia sta a dimostrare quanto facilmente possano coprirsi le tracce anche pubbliche del passato e quanto facilmente la storia di famiglia possa risultare ingannevole e travisante, proprio laddove si è portati a prendere per oro colato i racconti di famiglia perché "loro c'erano".

venerdì 25 maggio 2018

Il ritratto di Elsa Greer - Agatha Christie

                            ( secondo me ci sono spoiler a carrettate, ma fate un po' voi)

Non sono mai stata una grande appassionata di Karel Thole e delle sue copertine, ma in questo caso ha fatto un lavoro assolutamente perfetto: il ritratto di Elsa Greer era senza dubbio così, con i tratti di un cartellone pubblicitario, i colori violenti di una splendida giornata estiva e un fondo di crudeltà che costituisce l'essenza stessa della storia.  Nessuna edizione internazionale vanta una copertina perfetta come quella degli Oscar Mondadori degli anni 80.  

Il romanzo è del 1942, ma si occupa di una storia avvenuta diversi anni prima: è insomma un "cold case", un caso ormai freddo, sul quale Poirot si ritrova ad indagare su richiesta. In  teoria si tratta pure di un caso felicemente risolto, su cui nessuno nutre o ha nutrito dubbi... scopriremo poi che qualche dubbio qualcuno l'aveva, ma era troppo giovane per essere preso in considerazione.
Rientra anche nella categoria dei "romanzi con filastrocca" (nel caso specifico quella dei cinque porcellini, donde il titolo originale Five Little Pigsma piú specificamente nel ramo dove la filastrocca se la canta il detective mentre esegue le indagini. Inoltre abbiamo anche il Triangolo Mendace, in uno dei suoi esempi più riusciti: tutti se ne lasciano deviare tranne l'adolescente di casa, che sta attraversando in pieno quella felice fase in cui gli adulti sono solo incidenti di percorso, tutto sommato non del tutto inutili perché ti forniscono di cibo, bevande e generi vari di conforto, ma che li ignora bellamente, persa com'è dietro alle sue fantasticherie e alla melodia dei versi di Shakespeare; tuttavia con la coda dell'occhio ha compreso perfettamente i caratteri dei protagonisti e i rapporti che li legano. Per inciso, è anche l'unica che ritiene che Poirot faccia bene a indagare. Non ha capito il meccanismo del delitto, naturalmente: se lo avesse capito avrebbe certo parlato; ma all'epoca tutta la faccenda le cascò addosso senza preavviso e venne portata via prima del processo. In seguito fece una bellissima carriera, di quelle tutt'altro che convenzionali per una donna. Lei e la sua governante sono i miei personaggi preferiti perché sono persone molto interessate alla vita  e alle cose e sanno guardare al mondo con occhi attenti - una dote che certo non abbonda negli altri protagonisti - e  il fatto che la governante alla fine sia rimasta povera non la rende una fallita, né lei si sente tale, molto giustamente.

Altro elemento piuttosto particolare di questo romanzo è il veleno usato: la coniina - in apparenza non esattamente un veleno notissimo tra le grandi masse, fin quando il lettore si accorge che si tratta... nientemeno che della famosa cicuta, quella con cui Atene uccise Socrate; questo ne fa un veleno letterariamente molto noto, ma tutt'altro che facile da reperire: occorre prima di tutto avere sottomano una adeguata dose di piante di cicuta e poi conoscere bene la tecnica per estrarre l'alcaloide dalle piante in questione. 
Ma ecco intervenire provvidenzialmente il buon vicino di casa, amante delle erbe e degli estratti vegetali, che in un momento decisamente carico di tensione emotiva non trova di meglio da fare che portare la compagnia a vedere il suo orticello e il suo laboratorio soffermandosi particolarmente su... la sezione degli estratti di fiori? Le erbe per curare il mal di gola? No, proprio la coniina, di cui ha cura di mostrare una bella boccetta di estratto per poi leggere loro il brano del Fedone che descrive la morte di Socrate e gli effetti del veleno. E va detto che con un vicino provvisto di maggior buon senso  probabilmente tutta la vicenda si sarebbe chiusa con un po' di litigi e qualche cuore spezzato invece che con la tragedia che poi arrivò e che coinvolse tutti i protagonisti.
Affascinante anche il ritratto del protagonista, il pittore specializzato nell'infilarsi in situazioni complicatissime ma a cui di fatto sta a cuore solo e soltanto la sua arte e tutto il resto vada pure al diavolo.

I cold case mi piacciono in modo particolare, soprattutto quelli di Agatha Christie: scarseggiano gli interrogatori del tipo "dov'era lei alle 15.35 e per raggiungere il ponte della nave ha preso la scaletta di destra o quella di sinistra, ma soprattutto che marca di sigarette fuma di solito?" mentre abbonda il gioco degli specchi: la stessa vicenda narrata in retrospettiva a distanza di tanti anni, dove la verità è custodita in piccoli frammenti di ricordo difficilmente quantificabili a prima vista. In aggiunta, la vicenda è particolarmente affascinante, come del resto la soluzione e la conclusione finale, abbastanza diversa dai consueti finali di un romanzo giallo.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma, in una gloriosa mattina quasi estiva che promette decisamente bene.

giovedì 24 maggio 2018

Il futuro della scuola: quale ipotesi per angosciarci meglio?


Ai bei tempi della mia radiosa giovinezza, quando ero una precaria dalla posizione molto ballerina in graduatoria, tutto quel che mi interessava era sopravvivere fino all'inizio del successivo anno scolastico, migliorare un po' per volta la posizione di cui sopra e guadagnarmi onestamente il pane impartendo un decoroso insegnamento ai miei alunni. Poi, si sa, gli anni passano, la posizione in graduatoria si stabilizzano e si comincia a lavorare con prospettive più stabili e su arcate di tempo più lunghe - insomma, si diventa più ansiosi e pure un tantino paranoici.
Intorno a me fioccano lugubri previsioni sul futuro della scuola a seguito delle  ultime elezioni politiche. Non ci faccio troppo caso perché, sin dal secondo o terzo giorno di scuola come docente, ho sempre sentito fioccare intorno a me lugubri previsioni sul futuro della scuola pur non avendone mai vista realizzare una - in base alla buona e vecchia regola secondo cui il colpo arriva sempre dalla parte che non ti aspetti e insomma le lugubri previsioni oltre a farci pensar male avevano il difetto (o meglio il gran pregio) di non azzeccarci mai, laddove numerose insidie di gran calibro ci hanno assai infelicitato la vita senza preavviso alcuno (la sostituzione dei giudizi con i voti da un giorno all'altro e  senza uno straccio di istruzioni, per dirne una). D'altra parte ogni governo di stampo Fortemente Innovativo negli ultimi decenni ha sentito come un imprescindibile dovere quello di fare grandiosi interventi scolastici (sempre migliorativi, si capisce) onde lasciare un forte segno nella scuola - e in effetti, il segno è stato lasciato, talvolta anche in modo imprevedibile, lasciando in più di un caso gli insegnanti a smoccolare facendo abbondante uso di termini del tutto inadeguati al contesto scolastico.
Così ho deciso di improvvisarmi veggente in attesa della comparsa di quella sorta di ircocervo che promette di essere il governo prossimo venturo, e di azzardare qualche lugubre profezia. Se non ora, quando?

E azzarderò dunque qualche modesta previsione:
1) è purtroppo  assai improbabile che detto governo decida di dar seguito all'eccellente progetto della ex presidente Boldrini per diffondere nelle varie scuole del regno tra gli alunni la conoscenza  dei meccanismi e delle  pratiche che regolano il funzionamento delle bufale telematiche, né che incoraggi le nuove generazioni ad una rigorosa e accurata analisi delle fonti per qualsivoglia notizia, dal momento che gran parte delle bufale (e in particolar modo quelle che riguardavano appunto la presidente Boldrini) che hanno rigogliosamente fiorito in rete provengono appunto dal sottobosco legato a queste due formazioni politiche né dette formazioni politiche hanno mai mosso la punta di un solo dito per regolare o temperare in qualche modo cotale bizzarra attività produttiva dei loro simpatizzanti. 

2) Ancor più improbabile mi sembra la possibilità che il futuro governo promuova un controllo qualitativo dei contenuti dei libri di storia, cercando di eliminare almeno le più vistose incrostazioni accumulate e amorevolmente conservate nel corso dei decenni su piramidi feudali nel IX secolo, evocazioni delle brioche da parte di Maria Antonietta o togliendo un po' di polvere al nostro Risorgimento, perché se da una parte il Movimento Cinque Stelle sembra a malapena consapevole che c'è stata una storia, anche in tempi non recentissimi, e che l'umanità non si è formata per germinazione spontanea una trentina di anni fa, la Lega da sempre sulla storia passata ha mostrato di avere opinioni decisamente personali e molto, molto creative, che spaziano dai Celti e arrivano all'anno scorso (per tacere di una versione decisamente personale del Risorgimento in questione).

3) Difficilente detto governo si preoccuperà di incentivare gli indirizzi di studio scientifici (anche se potrebbe forse promuovere un atteggiamento più rispettoso verso i culti sciamanici e animisti), e in particolar modo non si preoccuperà di diminuire il distacco che separa le giovani leve italiane dai giovinetti di altri paesi  nella matematica: entrambi i movimenti infatti han dato mostra sin dall'inizio della campagna elettorale di un supremo sprezzo per argomenti quali le somme e le sottrazioni, il calcolo di entrate e uscite, le previsioni di spesa e altri argomentucci secondari. 

Forte di queste tre ragionevoli certezze nonché fiduciosa oltre che timorosa che questioni contabili di varia natura tengano assai occupato il Consiglio dei Ministri prossimo venturo per un bel po' di mesi, aspetto quel che deve venire con scarso ottimismo ma armata di grande pazienza.
In God We Trust.

*o forse dovrei dire di ricciocorno schiattoso? Chissà...

venerdì 18 maggio 2018

C'è un cadavere in biblioteca! - Agatha Christie

(potrebbe contenere spoiler, anche se a me sembra di no)

E finalmente arriva la mia adorata Miss Marple. Il personaggio nasce alla fine degli anni 20 per una raccolta di racconti, poi approda nel 1930 al romanzo con La morte nel villaggio, ambientato a St. Mary Mead, e torna in scena solo dodici anni dopo, nel 1942, ormai in piena seconda guerra mondiale (ma del gran conflitto arrivano poche e vaghissime eco).

Miss Marple si presenta sin dall'inizio come una investigatrice decisamente anomala, e molto più complicata per l'autrice da gestire di Poirot: questi infatti è una vecchia gloria dell'investigazione, e può lavorare in prima persona. Miss Marple è una candida vecchietta e tanto per cominciare deve avere una spalla della polizia su cui contare perché non può fare interrogatori o chiedere "Lei dov'era tra le cinque e le sette del 15 Giugno?". Nel suo caso quindi il giochino dell'investigatore furbo e del funzionario di polizia idiota non può funzionare: non le serve un Lestrade che metta in evidenza la sua accortezza, ma un Craddock che la apprezzi come merita ed esegua coscienziosamente i compiti a casa che lei gli assegna regolarmente. Miss Marple non può esigere o ordinare, è una figlia dell'età vittoriana e deve manovrare gli uomini perché facciano quel che serve a lei, invece di farlo direttamente. Tuttavia, in qualità di candida vecchietta, riesce a insinuarsi dove la polizia non potrebbe mai, a interrogare senza averne l'aria, a raccogliere informazioni che nessuno penserebbe mai di dare alla polizia e a ricomporre zone del quadro che qualsiasi metodo ufficiale di investigazione lascerebbe in ombra. Vederla all'opera è sempre molto interessante.

St. Mary Mead è un tipico villaggetto dove tutti si conoscono e dove la vita è scandita da ritmi ormai consolidati. Lì, in una bella villa dall'aria molto vittoriana, abitano il colonnello Bantry, ormai in pensione, e la sua signora, grande amante del giardinaggio e intima amica di Miss Marple.
Nalla villa c'è anche una biblioteca, naturalmente: una bella e comoda biblioteca un po' logora per l'uso, foderata di legno e decorata con improbabili stampe di scene di caccia, che sembra uscita pari pari da un romanzo di Trollope. E lì, una mattina, la servitù entrata per mettere in ordine prima di svegliare i padroni (perché in quegli anni c'era ancora un sacco di servitù) trova... un cadavere. E non basta, è il cadavere di una giovane donna alla moda, platinata, vestita da ballo. Strangolata. E il colonnello Bantry non ha la benché minima idea di chi sia costei.
L'evento è decisamente da rubricare nella categoria degli "insoliti": la servitù dà di matto, la polizia si mostra interessatissima a dettagli quali l'identità della vittima e i suoi rapporti col colonnello. La signora Bantry invece è una donna pratica e fin dall'inizio si preoccupa del punto principale: occorre chiarire al più presto chi ha ucciso quella poveretta, e soprattutto scagionare il suo amato consorte dall'accusa (mai pronunciata ad alta voce da nessuno, ma non per questo meno condivisa dalla collettività del paese) di avere illeciti traffici con bionde forestiere, accusa che rischierebbe di portarlo al più nero ostracismo da parte della comunità tutta e di cui, col candor dell'innocenza, all'inizio il poveretto nemmeno si accorge. A tal scopo la polizia non ha ancora terminato il primo giro di interrogatori che già Miss Marple è stata chiamata in soccorso a risolvere il caso. E invero il caso uscirà presto dai ristretti orizzonti di St. Mary Mead per approdare su lidi più festaioli e sdipanarlo richiederà un certo impegno - tuttavia il colonnello Bantry riuscirà a conservarsi una reputazione immacolata e anche a fraternizzare con elementi "nuovi" del villaggio cui inizialmente era stato piuttosto ostile.
Di questo romanzo mi piacquero molto le conversazioni tra Miss Marple e la signora Bantry, in particolare la prima, dove Miss Marple osserva che la giovane vittima aveva una certa propensione per il "lusso a buon mercato". Per una figlia degli anni 60 come me era facilissimo da capire - e anzi sotto questo aspetto la poverina, con il suo broccatello da  quattro soldi, aveva tutta la mia comprensione e anche la mia solidarietà: dal lusso a buon mercato eravamo, di fatto, circondati in quegli anni.
Ma negli anni 40, quando il libro era stato tradotto, mi domando quanto il lettore italiano medio avesse capito la categoria sociale e culturale in cui quella definizione infilava la giovane vittima, perché da noi  il lusso a buon mercato all'epoca non esisteva, e arrivò soltanto dopo la guerra - vuoi perché prima il grosso della popolazione combatteva faticosamente con le scarpe di coniglio e la cicoria al posto del caffé, vuoi perché da noi eravamo ancora fermi alle categorie della ricchezza non ostentata (come quella dei Bantry), della miseria più che visibile e dell'ostentazione del benessere, poco o tanto che fosse, reale ma messo bene in evidenza, da parte della piccola e media borghesia: di lusso a buon mercato proprio non c'era traccia, ancora.
Il romanzo rientra nella categoria "il diavolo si nasconde nei dettagli" e presenta una soluzione assai arzigogolata, di quelle su cui la Christie si è costruita la reputazione.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro buone letture a tutti in questa giornata luminosa che, dopo tante piogge, promette singolarmente bene.

giovedì 17 maggio 2018

Prove INVALSI: non solo corna - Il Fuoco Amico

Mentre arrancavo nel mio letto di spossatezza all'ospedale, a St. Mary Mead alunni e colleghi erano di nuovo alle prese con le Perfide Prove Invalsi di Inglese, che nella sua cornutissima bontà l'Istituto Invalsi ci aveva infine consentito di ripetere, quando dopo lunghe e complesse vicissitudini la Dirigenza era infine riuscita a mettercisi in contatto.
A tal scopo la Dirigenza di cui sopra aveva elaborato un calendario delirante al preciso scopo di incomodare il maggior numero di classi per il massimo tempo possibile: alle prime due ore cinque alunni di 3B, poi alla terza e quarta quattro alunni di 3A e via dicendo, in modo da consentire al maggior numero di insegnanti possibile di lavorare con la classe incompleta, dove non poteva spiegare né fare verifiche (che a Maggio in una Terza innervosisce non poco il docente).
Tutto procede comunque piuttosto liscio fino all'ultima tranche dell'ultima Terza dell'ultimo giorno, quando improvvisamente... i computer si spengono.
La prof. Spini, in perfetta versione Tigre Ircana, esce dal laboratorio di informatica e trova i tecnici del Comune che lavorano paciosi intorno alla centralina del collegamento in rete.
"Che costa state facendo?!?!".
"E s'era a installare la fib...".
"E CHI VI HA DETTO DI INSTALLARLA ORA?!?!!".
"Le custodi, ci hanno fatto passare e...".
La prof. Spini accusa dolorosamente il colpo: alla scuola media di St. Mary Mead la prima regola non scritta è che alle due custodi (da tempo ormai sulla via della canonizzazione in vita) è dovuto ogni riguardo e ogni omaggio, sempre e comunque, vista l'incredibile quantità di miracoli che ogni giorno riescono a produrre e la strabordante quantità di cose che si sobbarcano e che non sono previste dal mansionario. Con un sorriso a 42 denti in perfetto stile Lucy Van Pelt mormora un vago "Ah, allora va bene" e sguscia via.
In seguito sono state le stesse custodi ad andare a scusarsi "Ci dispiace, ci eravamo completamente dimenticate dell'Invalsi...".
"Oh, ma non importa, figurarsi, può succedere a tutti di dimenticarsi qualcosa!" sono state prontamente rassicurate. Tuttavia, il gran prodigio di qualcuno che in quella scuola sia riuscito a dimenticarsi per un po' delle onnipresenti Prove Invalsi ha lasciato tutti noi ricolmi di reverente stupore. Ma si sa, ogni tanto anche Omero si appisola.
(No, a quanto ne so i mariti delle custodi in questione hanno rispettato i patti coniugali senza macchiarsi di infedeltà. Per quanto ne so, certo).

venerdì 11 maggio 2018

La parola alla difesa - Agatha Christie

(può contenere spoiler o no, a seconda di come mi gira; di fatto, credo anzi che ne contenga parecchi)
Il vero protagonista di questo affascinante giallo è un piatto di tartine alla pasta di pesce, e ha avuto una parte di un certo rilievo nella mia esistenza alimentare e soprattutto conviviale.
Tartine alla pasta di pesce... all'epoca non c'era molto da noi (sto parlando del 1980) a parte la pasta di acciughe. Un piatto di tartine con uno strato di burro e sopra la pasta di acciughe... per carità, non erano male, ma il mio concetto di tartina era ben più lussuoso. Ci pensai su ed elaborai tre impasti: la base era burro e tonno, con capperi tritati oppure con olive verdi tritate - tonno in scatola, di quello sott'olio, niente impasti preconfezionati. Oppure burro e salmone in scatola, con aggiunta di uova di lompo nere (il buon vecchio succedaneo del caviale): Ne derivano tre impasti di un rosa-marroncino un po' brunito, o un po' verdeggiante, che spalmati su pane di tipo Novecento (un pane che non si trova con grande facilità, e non è rimpiazzabile dal consueto sfilatino o dalla frusta perché ha una consistenza diversa. Pane da tartine, insomma, anche se poi l'insieme è più che mangiabile su qualsiasi pane) producono delle tartine deliziose e anche piuttosto sostanziose: non un vero antipasto, ma perfette per uno spuntino. Per anni organizzai a scadenze regolari dei tartina-party assai graditi agli invitati e ancora oggi su richiesta le preparo volentieri quando me le chiedono per una merenda o una cena, anche se col tempo ho preferito una versione light dove il burro può essere rimpiazzato da formaggio similcaprino.

La protagonista Eleanor prepara queste tartine in una bella giornata di sole. Ha il cuore spezzato perché il suo amatissimo fidanzato si è innamorato all'improvviso, e per giunta lei sta smantellando la casa dell'amata zia defunta - proprio quella casa dove lei e il fidanzato sono cresciuti, giocando insieme sin da bambini. Gestisce questo cuore spezzato con molta dignità e nessuno intorno a lei si rende conto che il mondo le è crollato addosso; ma ha un cuore ardente, e i suoi sentimenti ribollono.
Lo sfondo è in parte autobiografico, anche se sembra che nessuno se ne sia accorto: per un certo periodo Agatha Christie si dedicò a smantellare la casa della defunta madre, compito molto doloroso e che la esaurì assai sul piano psicologico, come racconta nella sua autobiografia. Nel frattempo suo marito, che aveva una certa allergia a tutto quello che riguardava morte e malattia si sentì abbandonato e cercò conforto altrove, con quella finezza d'animo che lo caratterizzava da sempre. Impossibile che Agatha non se ne fosse accorta, almeno a livello subliminale, e una parte di quell'esaurimento di cui parla le derivò senza dubbio dall'annoiata indifferenza che il consorte le dedicò in quell'occasione: "Ma io avevo perso una delle tre persone che amavo di più al mondo, e mi sentivo ferita" spiega sobriamente nella sua autobiografia. Ben presto perse anche la seconda di queste tre persone, perché Archibald Christie decise che il loro matrimonio era finito e divorziò. Lo stato d'animo di Eleanor mentre ordina e distribuisce gli effetti personali della sua cara zia è quindi probabilmente molto simile a quello da lei vissuto in quelle dure settimane, anche se ben presto la vicenda della protagonista prende tutt'altra piega, soprattutto dopo che, preparato un intero vassoio di tartine, le viene in mente che può dividerlo con altre due persone che sono lì a fare un lavoro molto simile nella casa del portiere. Lo spuntino amichevole a tre ha però un esito del tutto imprevisto ed Elinor si ritrova accusata di omicidio e sotto processo, un processo che affronta in un modo ambiguo che compromette molto la sua posizione.

Qualcuno però, qualcuno che ha seguito da lontano tutta la vicenda ma che  comprende molto bene il carattere e il temperamento di Elinor, è fermamente convinto della sua innocenza e decide di aiutarla chiamando in soccorso Hercule Poirot sottoponendogli il caso che all'apparenza sembra disperato. Si tratta di un medico, di nome Peter Lord che si è innamorato di lei a prima vista. La cosa ha dei precedenti letterari: non tanto l'amore a prima vista, che soprattutto nei romanzi è comune come il pane, quanto all'insieme di circostanze che comprende una bella signora seduta al banco degli accusati pur essendo innocente; perché è proprio in queste circostanze che Lord Peter Wimsey conosce e scagiona la sua futura moglie Harriet Vane dall'accusa di omicidio (dopo essersene innamorato a prima vista) in un romanzo di Dorothy Sayers del 1930 pubblicato poi in Italia col titolo di Veleno mortale.

La parola alla difesa è stato pubblicato nel 1940 ed è sempre stato tra i miei preferiti. Fa parte del filone "il diavolo si nasconde nei dettagli" e insegna al lettore che le lettere maiuscole sono importanti e che non è vero che non c'è rosa senza spine. Infatti Poirot, che svolge qualche indagine un po' distratta, aiutato dal non sempre efficientissimo Peter Lord (sotto questo aspetto Lord Peter si dimostra invero ben più capace, per buona sorte di Harriet) dispiega un mirabile pezzo di bravura evocando pochi ma ben scelti testimoni che in pochi minuti smantellano tutte le prove, indiziarie o meno, a carico di Eleanor e lascia che la soluzione del caso si mostri da sola, in tutta la sua luminosa evidenza, strappando la ragazza al suo dedalo di sensi di colpa e riportandola nella luce. Ho sempre trovato bellissima la frase con cui Poirot chiude il romanzo dicendo a Peter Lord "Non siete capace di accettare i fatti così come sono? Ha amato Roderick Welman. E con questo? Con voi, potrà essere felice." Credo fermamente che questa frase racchiuda la storia del secondo matrimonio di Agatha Christie con l'archeologo Max Mallowan, da lei sposato nel 1930: oh sì, certo, l'amore struggente e doloroso; ma in amore, a volte, si può semplicemente essere felici.
Il titolo originale è Sad Cypress, e pare che venga da un verso del Sogno di una notte di mezza estate. Non sono riuscita comunque a trovarlo né mai, in verità, ho capito cosa diavolo c'entrino i cipressi con tutta la storia. Forse la 'povna o qualche altra persona più esperta di me in letteratura inglese potrà spiegarlo - nel qual caso mi farà un gran favore.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e auguro a tutti felici letture e una vivace salute che permetta di godersele appieno.

giovedì 10 maggio 2018

Nuova gita nelle Case di Guarigione (...solo per qualche analisi, signora...)


Dopo l'operazione e la lunga convalescenza tornai a scuola ricolma di entusiasmo e rutilante di iniziative, anche se un po' arrancando. La fine dell'anno andò piuttosto bene, l'estate si rivelò meno vivace del previsto e all'arrivo dell'autunno tutto diventò molto faticoso. Troppo. Siam d'accordo (almeno tra noi insegnanti) che questo è un lavoro che di fatica ne richiede tanta, ma infine non stiamo né a tagliare tavole di marmo né a colare l'acciaio; io di fondo (e anche di cima) ho un fisico piuttosto forte, anche se sono pigra e adoro rimandare tutto, e quando c'è da fare qualcosa da fare normalmente lo faccio, condizioni avverse o meno. Come mai ero diventata una miserabile frittella lamentosa sempre stanca e sempre stressata che non aveva più energia nemmeno per andare al cinema?
Strascina che ti strascina, virus dopo virus, una mattina mi sono svegliata con i piedi doloranti e similissimi nella forma e nella compattezza a due meloni di scarsa maturazione. Difficile anche camminarci, e per giunta mi sentivo molto, molto suonata. 
Soltanto la sera, una volta constatato che i meloni non accennavano minimamente a sgonfiarsi e che se possibile ero ancor piú rintronata del mattino, mi è venuto il sospetto che forse, un po' di febbre... 
In effetti avevo più di 38, così ho esortato il medico a venirmi a vedere. Con mia grande sorpresa la risposta è stata un quieto "Va bene". È seguita una visita piuttosto accurata, una chiacchierata su svariate tematiche e infine l'ingiunzione di   ricoverarmi per qualche giorno all'ospedale per analisi, ché se mi fossi ricoverata sarebbe stato tutto molto più rapido che fare le analisi da casa una per una, specie in questi giorni di ponti e festività varie. 
Come sempre ho gniaulato un po' all'idea di fare l'ennesima assenza, ma l'idea di accelerare i tempi mi allettava* e insomma ho accettato e, una volta preparato uno zainetto ben fornito di letture leggere (ovvero tipiche letture "da ospedale", dove il livello di concentrazione che puoi raggiungere non sarà mai altissimo ma un intreccio avvincente può essere di grande aiuto e conforto) ma che comprendeva anche due libri di un certo spessore più altri generi di prima necessità, mi sono diretta verso l'ospedale debitamente armata di pazienza&rassegnazione per i miei quattro-cinque giorni di analisi intra-festività.
Che si sono trasformati un un esilio di venti giorni.

Se qualche lettore si aspettasse adesso una tirata contro l'inefficienza e le lungaggini del Servizio Nazionale Italiano sappia che non la troverà qui: non sono stati venti giorni in cui il personale medico e paramedico si laccava le unghie mentre io imploravo che, per pietà, si decidessero infine a farmi un qualche tipo di analisi, no, essi non lo sono stati. L'ospedale di Santa Maria Annunziata di Ponte a Niccheri è considerato (a buon diritto, mi sembra) una eccellenza della Sanità della Toscana e in quei venti giorni non ha lesinato sforzi, impegno ed energia per venire a capo del mio grave ma anche complesso caso bucandomi come un colabrodo, prelevandomi immani quantità di sangue per le più varie analisi, rifilandomi infinite flebo, cospargendomi ovunque di chili e chili di gel per le più varie ecografie, imbottendomi di disgustosi beveroni per seguire cosa succedeva nelle mie budella eccetera eccetera. Mi hanno rimesso in piedi, sgonfiato le caviglie, risistemato una serie di valori... e infine rimandato a casa per una ulteriore convalescenza in attesa di conoscere i risultati di tutte le infinite analisi che mi avevano fatto e di formulare infine una diagnosi ben precisa.
Così adesso sono praticamente in vacanza, con l'obbligo di aver cura di me come fossi un fiore di serra e di non fare niente che possa stancarmi, circondata dai più cari affetti, diventati per l'occasione molto ansiosi. Tutto molto bello e gratificante per il mio ego e anche per il mio povero fisico stremato. 

Ma, lo ammetto, un po' mi girano e vorrei tanto tornare a scuola.
Nel frattempo leggo, faccio cose, vedo gente e mi interesso pure di fotografia.
E un pochino mi sfavo, se proprio devo essere sincera.

*un verbo molto adatto, considerando le circostanze - perché appunto assai a letto sono stata

mercoledì 9 maggio 2018

E tu dov'eri, quando hanno rapito Aldo Moro?


Aldo Moro fu rapito il 16 Marzo 1978 dalle Brigate Rosse e rilasciato da cadavere il 9 Maggio. All'epoca avevo diciassette anni e frequentavo la prima liceo (classico).
Per quanto ricordo, nella mia vita Aldo Moro c'è sempre stato, come Andreotti e Fanfani. Ricordo una vita senza Pannella, senza Craxi e senza Scalfaro (che già c'era, naturalmente, ma non era personaggio di gran spicco) ma non senza Aldo Moro. Niente di strano, perché da quando c'era la repubblica aveva sempre ricoperto cariche di rilievo. Non mi stava granché simpatico, ma nemmeno lo detestavo. C'era, e lo sopportavo con paziente rassegnazione.
Le Brigate Rosse invece erano molto più recenti, anzi erano entrate nella vita di tutti i giorni di noi comuni mortali solo nel 1974, quando rapirono il giudice Sossi (poi rilasciato). Scrivevano dei comunicati fluviali noiosissimi e un tantino deliranti dei quali non sono mai riuscita ad andare oltre la terza riga e mi davano l'impressione di essere dei pazzi incautamente lasciati in libertà. Probabilmente non era una impressione priva di fondamento.
Il giorno del suo rapimento Moro con la sua scorta (cinque uomini che per l'occasione furono tutti assassinati) stava andando ad assistere alla presentazione di un qualche governo Andreotti. Nel frattempo la 1E stava svolgendo con grande impegno e determinazione un tema.
Entrò un custode, si avvicinò al prof. Blasio e gli disse qualcosa a bassissima voce. I due scambiarono qualche parola, poi il custode uscì ratto ratto. Seguimmo il tutto con scarsissimo interesse: la nostra attenzione era concentrata tutta sul tema. 
Il prof. Blasio ci guardò un instante, poi a voce bassa e chiara disse "Le Brigate Rosse hanno rapito Aldo Moro".
Ventisette paia di occhi assai indifferenti si alzarono dai fogli protocolli, più per cortesia che per altro. In ognuna di quelle paia di occhi era scritto a chiare lettere "E chi se ne frega?".
Il prof Blasio rimase chiaramente spiazzato davanti al nostro gelatinoso e  plateale disinteresse.
"Mi sembrava giusto che lo sapeste" mormorò in tono di scusa, poi si chetò e riprese a leggere il giornale, mentre noi ci rituffavamo nei nostri temi con ardore. 
Ebbene sì, professore, non era poi così fuor di luogo informare tempestivamente una classe del fatto che uno dei massimi esponenti della politica italiana era stato rapito da un gruppo di terroristi, e no, non lo si poteva definire un morboso tentativo di forzare i ragazzi verso un esasperato interesse verso la politica. Lei si comportò nel modo più opportuno. Ma per noi, tutti noi, in quel momento era molto più importante il tema.

Così facemmo il tema, lo consegnammo, prendemmo atto che il giorno dopo o due giorni dopo ci sarebbe stata l'assemblea straordinaria dedicata al rapimento di Aldo Moro (il cui senso mi sfuggiva completamente, ma perché negarsi una assemblea saltando qualche ora di lezione? Poteva essere una buona occasione per attaccare discorso con X o con Y, scopo della vita di tutti quanti). 
In noi non c'era stupore, paura o sconcerto: le Brigate Rosse avevano sequestrato Aldo Moro, ebbene sì. Era pur giunto il momento che cominciassero a sequestrare politici, e allora perché non Aldo Moro? Tutto avveniva nel corso naturale delle cose, perché eravamo negli anni di piombo. E no, non era colpa dei comunisti, e nemmeno dei fascisti, e gridare in corteo "Fascisti, carogne, tornate nelle fogne" contro le Brigate rosse era una stupidaggine, né piú né meno. Ma di stupidaggini nei cortei in quegli anni se ne dicevano tante - né l'abitudine si è persa al giorno d'oggi, anche se ci sono meno cortei.  

Per quel che ricordo il sequestro Moro non incise molto nella vita e nei discorsi della gente comune, e perfino nella mia piuttosto politicizzata famiglia se ne parlava assai poco, salvo all'ora dei notiziari. 
Per quel che ricordo nemmeno per un minuto ho seriamente pensato che Moro sarebbe uscito vivo da quella storia, né mai me ne è fregato qualcosa che ci riuscisse. Di una cosa però ero assolutamente convinta: lo Stato doveva trattare e cercare di farlo rilasciare, a costo di "ammettere l'esistenza delle Brigate Rosse": primo perché Moro di mestiere faceva il politico e non l'aspirante martire e aveva tutto il diritto di uscir vivo da quella storia, secondo perché ad ogni modo le Brigate Rosse esistevano, piacesse o no, e per favore la smettessero fra tutti di prendersi in giro. Ricordo che  apprezzai molto la mirabile franchezza con cui Paolo VI avviò il suo appello: Mi rivolgo a voi, fratelli delle Brigate Rosse, pur sicura com'ero che non sarebbe servito a niente.
Chi era favorevole alle trattative, possibilmente affiancate a robuste indagini tese a fare gran sfracello dei rapitori una volta messo in sicurezza l'ostaggio, a parte Murasaki e la sua famiglia?
Quasi nessuno tra politici e giornalisti, che fra tutti stavano facendo della vicenda un vero affare di stato (quale in effetti era), loro sì, parlandone moltissimo.
Quasi nessuno: Craxi, Pannella e i radicali, Sciascia, autore di un celebre motto "Né con questo stato, né con le Brigate Rosse", che gli procurò il biasimo quasi universale in qualità di Immondo Traditore della Patria ma che rendeva perfettamente il punto di vista di chi, come me, non nutriva molta simpatia per uno stato autoritario, arbitrario e molto probabilmente implicato in una parte delle stragi di quegli anni, ma ne nutriva poca anche per chi straparlava di popolo al potere un un linguaggio astruso e noiosissimo ma pieno di una retorica insopportabile.

Di tutto questo per strada non si parlava mai, nemmeno con casuali accenni: il rapimento Moro non scosse le nostre coscienze né turbò la quiete del viver nostro: erano gli anni di piombo.
Qualche tempo dopo, commentando l'importanza del 16 Marzo 1978 nell'umano calendario, la nostra politicizzatissima compagna di classe (che anche lei aveva continuato imperterrita a fare il tema) commentò svagata "sì, successero un  casino di cose, quel giorno: mi misi con Andrea, rapirono Moro...".
Non c'è dubbio che, tra i due, per lei l'avvenimento più importante sia stato essersi messa con Andrea, col quale ha poi fatto due figli all'interno di un matrimonio che mi risulta essere stato felice. Ma, garantisco, anche il resto della classe diede assai maggior peso all'avvio di questo legame che al rapimento di uno dei più importanti uomini politici del paese.

Nel corso degli anni ho maturato tre convinzioni sul rapimento Moro, non una delle quali supportata dalla benché minima prova concreta:
1) Moro fu rapito perché era favorevole all'ingresso del PCI nei governi italiani.
2) E i mandanti furono gli USA, che hanno sempre nutrito un irragionevolissimo terrore verso il PCI, senza mai accorgersi che era di fatto un partito borghese e moderatamente conservatore che avrebbe costituito un utile contrappunto alla DC.
3) Cossiga, allora ministro degli interni, seguì all'epoca le istruzioni ricevute, convinto di fare la cosa migliore per l'Italia e con grande sacrificio personale; ma  poi se ne pentì amaramente e il rimorso di aver abbandonato il suo amico lo ha tormentato per tutta la vita.
Col corollario aggiuntivo che, a ben guardare, la DC fu assai pronta a cogliere la palla al balzo e liberarsi da quel rompiscatole moralizzatore - qui però non si tratta di ipotesi, ma di banale constatazione.