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giovedì 28 gennaio 2016

Manuale del Perfetto Insegnante - Tipologie di Genitori - 3. Il genitore che fa i compiti


Qualche giorno fa Dolcezze si interrogava sullo scarso discernimento mostrato da quegli alunni che copiavano senza ritegno dalla rete varie tipologie di compiti di italiano senza prevedere che il loro insegnante, pur abituato a leggere la loro usuale produzione scritta, potesse anche solo vagamente insospettirsi per un improvviso cambio di registro linguistico e un ancor più improvviso maturarsi di modalità espositive e capacità critiche di cui poi, al momento di scrivere o parlare in classe, non restava più traccia veruna.

L'argomento è di quelli che aprono la strada a molti dolorosi interrogativi: per esempio "Forse che cotali miei alunni pensano che sia scema/o?" (la risposta è "Sì") oppure "O forse sono loro che sono scemi?" (e, di nuovo, la risposta è "Sì!").
E tuttavia si tratta pur sempre di giovinetti in crescita, poco usi alle malizie del mondo, sprovveduti anche per colpa dell'inesperienza, avventati come spesso solo i giovani sanno esserlo. Insomma, niente vieta di sperare che col tempo e l'esperienza, insieme alla statura cresca anche il loro buon senso.
Tuttavia ogni insegnante, non solo di Lettere, nel corso della sua vita lavorativa si trova ad affrontare una branca dell'idiozia umana ancor più sconfortante dell'Alunno Che Copia I Compiti, ovvero quella del Genitore Che Fa I Compiti. 
Non i suoi, mentre magari studia per una seconda laurea o un nuovo diploma o impara una lingua straniera, no. Costui o costei fanno i compiti per i loro figli. Al loro posto. E si impegnano anche molto, per farli bene, dedicando all'opra tempo ed energie che francamente risulterebbero assai meglio utilizzate scavando buche nel terreno per poi riempirle nuovamente, oppure spalando l'acqua con un forcone.
Tesori di conoscenze e competenze artistiche, linguistiche e matematiche vengono profusi senza risparmio - perché questa categoria di genitori mira in alto e vuole buoni voti, ché non vuole sfigurare accanto ai voti degli altri genitori. 
Avviene infatti che, mentre spesso il Genitore Che Fa I Compiti è un caso isolato, in molte classi si scateni invece una sorta di virtuosa emulazione che porta questi perfetti idioti a elaborare schede di libri sempre più impegnativi, allestire disegni di impianto sempre più complesso, sfornare composizioni nelle più varie lingue infarcite di costruzioni e considerazioni sempre più mature e risolvere problemi ed equazioni ricorrendo a sofisticate tecniche universitarie.
Inevitabile che l'insegnante se ne accorga: anche al più distratto le incongruenze saltano ben presto agli occhi, e si sentirà infine obbligato a tentare di affrontare l'argomento con l'invadente genitore. Il quale può avere due tipi di reazione:
1) negare stizzosamente qualsiasi tentativo di intromissione giurando che la loro prole, al solo avvicinarsi di un qualsivoglia genitore ai loro amati quaderni, apre le artiglierie e li caccia in malo modo perché non tollera intromissione alcuna, no, giammai!
2) abbozzare un sorrisetto complice e ammettere con una punta di orgoglio (e non già con profonda vergogna, come il più elementare senso di decenza imporrebbe) "Sa, l'ho un po' aiutato" mostrando con ciò di desiderare, oltre al voto alto per il figlio, anche l'ammirata approvazione del docente. Qualora poi l'insegnante si azzardi ad accennare cautamente qualcosa sull'importanza per l'alunno di confrontarsi con i suoi limiti ed esprimersi liberamente con la sua voce o analoghe banalità, il Genitore Che Fa I Compiti ribatte stizzosamente che purtroppo la creaturina è troppo timida, insicura o priva di autostima per riuscire ad esprimersi all'altezza della sua profonda sensibilità. In pratica, costui o costei han già stabilito a tavolino che il loro rampollo è una povera ameba che, privato del loro valido aiuto, franerebbe rapidamente... sì, per mancanza di capacità. 
A questo punto l'insegnante può provare a ricorrere alla più assoluta schiettezza o rifugiarsi dietro la più raffinata diplomazia, ma in entrambi i casi sa che quanto dirà sarà perfettamente inutile e che il Genitore Che Fa I Compiti, con squisita malafede, non terrà in alcun conto quanto gli viene detto, talvolta ammettendolo subito con squisito candore; ma dietro tutte le sue apparenze protettive, questa rama di genitori ha già stabilito che la loro prole esiste solo per brillare della luce riflessa del loro genio, e dell'eventuale possibilità che la sventurata creatura abbia una sua propria personalità si curano solo quel tanto che basta per aver cura di soffocarla onde impedire che il fanciullo o la fanciulla crescano (o anche semplicemente esistano) in una forma che non sia una proiezione esatta al millimetro del loro delirio di grandezza. 

Inutile porsi la domanda se questa particolare tipologia di genitore pensi che gli insegnanti siano del tutto scemi, perché la risposta è "Degli insegnanti non si curano né tanto né poco, e la questione ai loro occhi non riguarda il rapporto dei loro figli con la scuola, ma il loro rapporto con sé stessi  e soprattutto con la loro immagine". 
Intrappolato in questo gioco di specchi di inusitata crudeltà, il figlio avrà il suo bel da fare e da patire per riuscire a svincolarsi e vivere di vita propria.
Quanto all'insegnante, se i suoi cauti o ruvidi tentativi di intervento non sortono effetti visibili (raramente ne sortono, ma l'insegnante è tenuto comunque a tentare, prima ancora che per dovere professionale per puro e semplice spirito umanitario) la tecnica più semplice per aggirare l'ostacolo è valutare solo le prove eseguite in classe e lasciare il genitore a strepitare per conto suo o in Sala Insegnanti (cosa che spesso farà senza alcun pudore), salvo poi sfogarsi con i colleghi.

venerdì 22 gennaio 2016

L'isola lontana. Quadrilogia della Memoria - Annika Thor


La Quadrilogia della memoria è un ciclo di quattro romanzi (Un'isola nel mare, Lo stagno delle ninfee, Mare profondo, Oltre l'orizzonte) dove si raccontano le vicende di due sorelle ebree, Stephanie detta Steffi e Nelli, che all'inizio del racconto, nel 1939, hanno rispettivamente undici e cinque anni. I genitori delle due sorelle, fino a poco tempo prima ricchi e ben inseriti nell'alta borghesia viennese, dopo essersi vista sequestrata dal governo nazista la bella villa dove trascorrevano felicemente la loro esistenza ed essersi ridotti in un minuscolo appartamentino e dopo che al padre medico è stata impedita di esercitare la sua professione se non per curare gli ebrei, in attesa di un visto per espatriare in America (che non arriverà mai) decidono di affidare le loro figlie al  kindertransport, ovvero l'accoglienza presso famiglie straniere di bambini ebrei, spesso orfani (la Svezia ne accolse alcune centinaia). E' una scelta contro natura, che causa dolore  tutti loro, ma che garantisce almeno una speranza per le bambine.
Le due sorelle partono, per un soggiorno che dovrebbe durare pochi mesi. Ma i genitori verranno internati e le due sorelle passeranno sei anni in Svezia, sempre sospese al filo di lettere che arrivano in ritardo, che a volte non arrivano affatto e infine alle rare cartoline di trenta parole che sono concesse ai detenuti dei campi di concentramento. Infine la corrispondenza si ferma del tutto, dopo l'annuncio della morte della madre. Due anni dopo il padre, fortunosamente scampato alle marce della morte, riuscirà a ricontattare le figlie che partiranno con lui verso l'America.

Non ci sono quindi campi di concentramento, se non alla lontana. Non c'è fame né ghiaccio né deportazione per le due sorelle; solo molta angoscia, il trauma di dover cambiare vita e ambiente e famiglia e la sorda paura di quel che sta succedendo fuori dalla Svezia e dall'isoletta di pescatori dove sono state accolte in due famiglie di metodisti, le difficoltà di trovarsi tra estranei senza conoscere la lingua, qualche assurda angheria subita a scuola o in paese per la loro condizione di profughe ebree, e la nostalgia dei genitori e della vita precedente. Eppure il lettore ha l'impressione che anche così sia più che abbastanza, e che si possa soffrire molto anche senza le marce della morte.

Strappate alla famiglia e al loro paese natale e separate in due famiglie diverse, le due sorelle soffrono per la lontananza dai genitori e per la nostalgia di casa. L'isoletta di pescatori dove vengono accolte è lontana anni luce dal loro mondo e nei primi tempi tutto è terribilmente complicato. Col passare dei mesi si ambientano, imparano la lingua, si legano di profondo affetto alle famiglie che le hanno adottate, allacciano rapporti di amicizia e di amore. Restano però due profughe e il Comitato che ha gestito il loro arrivo non si dimostra particolarmente prodigo, specie quando si tratta di pagare gli studi di Steffi che vorrebbe diventare medico (ma perché non possono andare a lavorare come tutte? Tanto si sa che le ragazze poi si sposano). Inoltre in Svezia, nonostante la neutralità ufficiale del governo, non mancano i simpatizzanti del nazismo e le due sorelle subiranno occasionalmente la loro parte di prepotenze e di emarginazione. 
Alla fine della guerra, una volta ritrovato il padre, per le due sorelle ci sarà una scelta da fare, inevitabilmente dolorosa: riunirsi a lui o restare con le loro nuove famiglie? (Da notare che il padre sarebbe disposto a stabilirsi in Svezia, ma lì la sua laurea non sarebbe riconosciuta e non potrebbe lavorare se non per curare "la sua gente"). E tra tante complicazioni alla fine la famiglia decide di riunirsi in America, dove potranno cominciare una nuova vita - la terza, per le ragazze, che per la seconda volta nella loro breve vita si ritrovano con le radici strappate. Proprio il tema delle radici strappate più volte e il senso di una provvisorietà senza scampo è quello che mi ha più colpito in questa Quadrilogia, che vale la pena di essere letta non solo per quel che racconta, ma anche per il molto che lascia sospeso tra le righe senza scriverlo, e che aiuta a capire il dramma dei sopravvissuti, anche dei sopravvissuti più fortunati, quelli che non hanno visto il peggio e hanno sofferto solo per la paura, il senso dell'abbandono e lo sradicamento culturale.

Con questo post partecipo al Venerdì del Libro di Homemademamma e offro il mio contributo per la Giornata della Memoria.

mercoledì 20 gennaio 2016

Life Skills Strikes Back - La gestione delle emozioni - 2 - Dalla parte degli alunni


Ordunque, venendo alle emozioni provate dai ragazzi a scuola, esse sono numerosissime e non basterebbe la pergamena ricavata da un gregge di pecore ad elencarle tutte. Cotali emozioni si riferiscono in parte alla loro vita scolastica, ma parecchio anche alla loro vita sociale e personale: i poverelli passano infatti almeno trenta ore alla settimana a scuola, più altre a fare i compiti o a scansare i compiti o a pensare ai compiti che non vogliono e non sanno fare (le due cose sono più collegate di quanto non si creda), e in più c'è il tempo per andare a scuola o per prepararsi per andare a scuola. A scuola inoltre, soprattutto a elementari e medie, si svolge gran parte della loro vita sociale e affettiva, che si allunga tramite telefono, visite, incontri vari e perenne permanenza sui social, ove gran parte di loro è saldamente impiantata dall'alba al tramonto e talvolta, ahimé, anche dal tramonto all'alba. Quel che succede in aule e corridoi dunque ha grandi ripercussioni nella loro vita quotidiana, e amplifica le emozioni da loro provate in cotal luogo, mentre quel che succede fuori si ripercuote spesso anche lì, in un complesso gioco di rimbalzo di cui ogni insegnante, per sua buona sorte, è solo assai parzialmente informato.
Da ciò consegue che i virtuosi tentativi di noi insegnanti per creare un ambiente sereno e giocosamente creativo all'interno del gruppo-classe sono influenzati da un infinità di fattori di cui siamo beatamente ignari e perciò talvolta destinati a fallire nonostante premesse all'apparenza assai positive oppure, al contrario, a riuscire clamorosamente laddove nemmeno ci eravamo accorti di aver tentato. E tutto ciò è cosa buona e giusta perché ogni giorno ci insegna i valori dell'umiltà, ci incita a coltivare tatto e diplomazia e ci aiuta a contenere i danni di un ego ipertrofico.

Detto questo, a scuola i ragazzi vanno principalmente per imparare e farsi valutare, e stante che in fondo al nostro cuore siamo tutti piuttosto convenzionali, quasi sempre i suddetti ragazzi preferiscono imparare molto con poco sforzo e riuscire benissimo riportando voti alti, e quando ciò non gli riesce le emozioni che ne ricavano sono soprattutto legate alla sfera dell'umiliazione, dell'incazzatura e dell'autodenigrazione. Perché quando ci dicono di ruotare un triangolo io non ho la più pallida idea di cosa ne viene fuori? Perché non riconosco un predicato verbale dopo sei mesi di analisi logica? Perché quando il mio compagno di banco disegna esagoni tutti sono soddisfatti e quando li disegno io l'insegnante sospira e mi spiega in tono frustrato che per disegnare un esagono prima di tutto devo fare una roba che abbia sei lati e non sette?
Naturalmente sarebbe molto comodo per tutti se, per divina illuminazione, il povero insegnante di turno fosse capace di riconoscere il momento esatto in cui la creaturina è inciampata nella difficoltà senza riuscire a rialzarsi - preso all'inizio, spesso il sassolino potrebbe essere agevolmente aggirato invece di crescere fino a diventare una montagna. Molto spesso invece una sfortunata serie di circostanze, spesso del tutto al di fuori del controllo di chi sta in cattedra, contribuisce a ingigantire la questione. E qui entrano in gioco una serie di fattori, spesso figli della Natura Matrigna: le reazioni dei compagni, per esempio (o degli stessi insegnanti), il carattere della creaturina, la sua tendenza a rassegnarsi (spesso ereditata col DNA dalla famiglia), il suo più o meno innato senso di inferiorità, il grado di suscettibilità che gli è stato assegnato dalla nascita o dalle circostanze, gli aiuti di cui dispone, il livello sociale e culturale della famiglia.
I fattori sono spesso collegati tra loro in un perverso groviglio: da un ragazzo che esce da una famiglia di spacciatori e alcolisti i compagni e le famiglie che conoscono la situazione si aspettano determinate reazioni, determinati comportamenti e comunque un basso rendimento scolastico (e questo si proietta spesso anche sugli insegnanti che vivono nel paese o nel quartiere che conoscono bene la situazione) - e ci sono ragazzi candidati al ruolo di buffoni e bulli della classe sin dal grembo materno. Una famiglia dove a scuola si è sempre vivacchiato sull'orlo del cinque e mezzo ad andar bene raramente scodella una creatura carica di ambizioni e determinazione che vede nell'otto il primo voto almeno vagamente accettabile. Una stirpe di persone ansiose e tendenti all'autocolpevolizzazione raramente produrrà un germoglio il cui motto di vita sarà "Io ci provo, e se non mi riesce ci riprovo finché non ci riesco!". Questi e molti altri fattori, tendenzialmente riconducibili all'autostima o meglio a una sua desolante assenza, portano spesso la creatura a rifugiarsi nell'apparentemente comoda scappatoia del "Non ci provo nemmeno" oppure "Faccio tanto kasino" che gli permette di ammantarsi dell'alibi "Non vado bene a scuola perché non studio e nemmeno ascolto le lezioni", che in realtà andrebbe etichettata come "Non studio e nemmeno ascolto le lezioni perché tanto non caverei un ragno dal buco".

E dunque come uscirne? Ma si capisce subito, è semplicissimo: basta che l'insegnante trovi il modo di incrementare l'autostima nel virgulto, e di convincere i suoi compagni che cotal virgulto possiede una squisita intelligenza degna di ogni stima e riguardo, indipendentemente dal fatto che i suoi abbiano spacciato o spaccino tuttora e che non gli riesca calcolare il volume di un cono ottenuto per rotazione.
Ora, sappiamo tutti che se un fanciulletto è carente di vitamine basta dargliele, ma come si fa a somministrargli buone dosi di autostima?
Ah, saperlo, saperlo!
Il povero insegnante si ritrova una furia scatenata in classe, spesso alimentata ad arte dai compagni che lo usano come parafulmine emotivo, graffiatoio o giullare di corte e di cui perdono il controllo spesso e volentieri, e per quanto il suddetto insegnante sia disponibilissimo a fare qualsiasi cosa, incluso ricorrere alla magia nera, pur di calmarlo e fare finalmente lezione in pace, non ha la minima idea di come incrementargli alcunché, anche perché spesso la furia in questione rifiuta qualsiasi cosa possa almeno vagamente somigliare ad un contatto (d'accordo, la maggior parte dei casi è meno drammatica, ma non necessariamente destinata a miglior esito scolastico).
Oppure il povero insegnante di cui sopra si ritrova una bella e brava e passivissima pianta, che dà alle lezioni più o meno lo stesso contributo emotivo e intellettivo di una piastrella da pavimento e ogni tanto fa qualcosa di non minimamente scolastico per non annoiarsi troppo, magari distraendo la classe - e, anche lì, non ha la minima idea di come incrementargli alcunché.
Molto più spesso l'insegnante si ritrova uno o più casi più blandamente ascrivibili a queste due categorie. In tutti i casi non ha la minima idea di come trasformare l'irrequieta o amebica creatura in un componente utile e attivo della classe; non solo, se i casi di cui sopra sono parecchi, il loro effetto sulla classe sarà moltiplicato. Ognuno di loro richiederebbe cure specifiche e un tempo particolare a loro dedicato (senza alcuna certezza di riuscita, tra l'altro) mentre le ore si ostinano ad essere composte di sessanta minuti e le classi talvolta sono molto, molto numerose. Inoltre l'insegnante di cui stiamo parlando non è necessariamente un fine diplomatico e anzi talvolta ha il tatto, il garbo e la delicatezza mostrati da un elefante di malumore in una cristalleria o da una tigre a digiuno da tre giorni lasciata libera in una conigliera - mica per cattiveria o per menefreghismo, semplicemente gli viene così. Un corso per raffinare la nostra rozza interiorità non ce lo fa nessuno (e probabilmente è un male, ma mi rendo conto che non sarebbe facile da organizzare).

L'empatia non sempre è il mio forte, in diplomazia non avrei mai fatto carriera, con gran fatica ho imparato l'unico modo in cui una persona col mio carattere può evitare le gaffe più appariscenti, ovvero evitare di parlare. Comunque anch'io ho il mio vissuto, e come tutti noi lo utilizzo quando insegno - e nel mio vissuto ci sono molti gatti, adorabili creature spesso assai provviste di autostima.
Cosa si fa quando ti arriva in casa un gatto spelacchiato, denutrito, cisposo, rognoso, tremolante, scontroso e con gravi carenze affettive?
D'accordo, gli si dà da mangiare. Poi si porta dal veterinario. Gli si danno le medicine, con tanta pazienza. Gli si passa un asciugamano di carta umido sul pelo sporco. 
Poi gli si dice che è bello, tanto bello, il più bel gatto che avete mai visto, e ci si sdilinquisce per la sua estrema bellezza qualsiasi cosa faccia e qualsiasi cosa sporchi.
Purché il veterinario abbia azzeccato le medicine giuste, il gatto diventerà effettivamente di una bellezza stellare e sarà consapevolissimo di esserlo e se ne compiacerà assai. Non è detto che diventerà affettuoso, ma sarà bello e soddisfatto di sé.
Parto sempre da due principi base: i miei alunni sono di rara intelligenza, e di estrema simpatia. Dopo pochi giorni li amo appassionatamente e senza ritegno. Li copro di complimenti sinceri. Cado in estasi davanti alle loro numerose virtù. E cerco di tenerli sempre occupati in classe perché, come diceva (pare) Gerolamo "occorre sempre fare qualcosa, acciocché il diavolo non ci sorprenda oziosi".

Temperatura emotiva bassa in classe, molto lavoro e un insegnante che mostra di apprezzarvi perché siete così incredibilmente e meravigliosamente ganzi.

Funziona?
Non sempre, ma spesso qualche effetto buono lo produce.
Quanto meno, non fa danni.
In pratica: gestisco le emozioni della classe estranee alla lezione sbattendole fuori dalla porta a calci. Concentratevi sui pronomi e dimenticatevi per un po' di voi stessi se non per ricordarvi che siete assai ganzi.

(No, non sempre ci riesco. Figurarsi).

lunedì 11 gennaio 2016

We can beat them, forever and ever


Tra tanti modi possibili, Bowie entrò nella mia vita come alieno e come attore. Era il 1976, credo inizio d'estate, e i miei mi portarono a vedere L'uomo che cadde sulla terra, film di fantascienza che narra la tristissima storia di un alieno che arriva sulla Terra per costruire un astronave che porti lì in salvo i pochi abitanti del suo pianeta sopravvissuti a orrende catastrofi - e tra questi pochi ci sono sua moglie e i loro due figli*. Gli andrà malissimo, e invecchierà solo e disperato sulla Terra, ma senza odiare nessuno.
Il film non era affatto il mio genere, oh no tessoro, ma mi rimase assai impresso - e Bowie, naturalmente, era un alieno perfetto.
Qualche giorno dopo scoprii da un trafiletto del giornale che Bowie, che era anche un musicista rock, aveva aperto una causa col regista che aveva rifiutato la colonna sonora che gli aveva scritto. Io comunque come musicista non lo conoscevo, e sospetto che alla radio non lo passassero molto.
Un anno dopo lo rividi alla trasmissione Odeon, dove presentavano da Berlino il suo nuovo disco, Heroes, e la canzone omonima. Non ricordavo il suo nome, ma lo riconobbi subito, la canzone mi affascinò (ci avevano messo anche i sottotitoli, mi sembra) e qualche giorno dopo entrai in negozio e mi comprai l'intero LP; nonostante Heroes fosse una canzone molto orecchiabile il resto del disco era decisamente ostico per le mie giovani orecchie, ma lo ascoltai con grande pazienza e devozione fino a digerirlo.
Nel frattempo alla radio diventò una presenza abituale, vecchie e nuove canzoni. Così Bowie diventò parte integrante del mio panorama e alla fine degli anni 80 andai perfino a vederlo e sentirlo dal vivo, alla sua prima apparizione in Italia - serata davvero memorabile, con uno stadio di Firenze pieno zeppo e un concerto tutt'altro che leggero.
In quegli anni era assolutamente d'obbligo trovarlo bellissimo, ed era un imperativo cui mi sottomisi senza alcuno sforzo; ma oltre che bello e molto bravo l'ho sempre trovato estremamente importante, una delle presenze di massimo rilievo della mia epoca.

Stamani ho scoperto che era morto, a 69 anni appena compiuti - una coltellata che mi ha lasciato fuori fase per tutto il giorno.
Ma non fa differenza: morto o vivo, il Duca Bianco resta comunque importante, non soltanto perché era un ottimo attore e un musicista di gran calibro, ma perché era ed è comunque lui. 


Ed era, fra le molte altre cose, un cantante strepitoso, da solo o in compagnia.

*perché dovrebbero costruire l'astronave sulla terra e non a casa loro, dove hanno un eccellente tecnologia? Perché hanno la tecnologia, ma hanno finito il carburante.

venerdì 8 gennaio 2016

Mio figlio è un fenomeno. Amorevoli disastri dei genitori nello sport giovanile - Fabio Benaglia

Il libro che presento questa settimana mi è passato tra le mani per puro caso: quando ho portato la mia prima in visita turistica alla biblioteca di St. Mary Mead la bibliotecaria, che dispone tra l'altro di una bella voce e legge meravigliosamente bene, ha offerto qualche assaggio da tre libri; uno era questo.
Visto l'interesse che ha suscitato nei ragazzi l'ho preso in prestito e, oltre a leggerlo per conto mio, ne ho anche letti vari passi in classe. 
Si è rivelata un esperienza a doppio taglio perché, se da una parte la classe ascoltava con grande attenzione, subito dopo e senza alcuna necessità di incoraggiamenti da parte mia partiva una lunga discussione condita di aneddoti personali e zittirli per poi passare alla consueta lezione di grammatica non era affare di poco conto. D'altra parte sono state discussioni piuttosto interessanti e ho imparato molte cose su di loro senza dovermi scomodare a fare domande personali o altro. 

E' un saggio sul rapporto dei ragazzi con lo sport e, soprattutto, sui rapporti delle famiglie con lo sport praticato dai loro figli. Non è necessariamente indirizzato ai ragazzi e qualsiasi adulto che abbia a che fare con dei giovinetti troverà la lettura molto utile. In effetti si parla di sport, ma il problema del genitore convinto di avere un fenomeno per figlio è purtroppo vecchio come il tempo e spazia per molti campi, dalla musica classica al mondo dello spettacolo. In questi anni però le attenzioni genitoriali puntano soprattutto verso lo sport - o meglio, i genitori delle fasce medio-basse hanno scoperto lo sport dei figli come possibilità di ascesa sociale, laddove un tempo si preferiva indirizzarsi verso campi più colti, come la musica o la danza classica, e il fenomeno riguardava in prevalenza fasce sociali più alte.

Si parla insomma di quel fenomeno ormai relativamente comune per cui una partita tra due squadre delle medie può finire, con grande confusione e imbarazzo dei giovani giocatori, in una rissa ben condita di insulti tra genitori, non necessariamente delle due squadre avversarie, o in aggressioni vere e proprie verso l'arbitro e gli allenatori, accusati di non aver arbitrato correttamente o di non aver valorizzato nel modo giusto i pregiati fanciulli affidati alle loro mani.
Le risse tra genitori sono, naturalmente, solo la punta di un inquietante iceberg con cui ogni insegnante si ritrova prima o poi a battere le corna: ragazzi e ragazze sottoposti ad intensi allenamenti troppi giorni alla settimana, che tornano a casa tardi la sera dopo partite, trasferte e allenamenti, che vanno scarrozzati su e più per tutta la regione e assai raramente trovano il tempo e l'agio per studiare almeno lo stretto indispensabile o anche per frequentare la scuola con una certa regolarità e che le famiglie evitano con cura di riportare con i piedi per terra, estirpando anzi con decisione quei barlumi di buon senso di cui il giovanetto o la giovinetta possono essere ancora provvisti - insomma la terribile sindrome del "ho un campione in casa", che copre un ampio spettro di possibilità che vanno dai genitori che si aspettano una carriera strepitosa escludendo a priori qualsiasi altra possibilità a quelli che, semplicemente, spingono troppo oltre l'onesto e legittimo tifo con cui ogni genitore appoggia i giovani sportivi di casa.

In 125 pagine scarse il libro, che si basa su un ampio lavoro di interviste a genitori, allenatori, dirigenti sportivi, tecnici e giornalisti descrive il punto di vista delle famiglie, delle società dilettanti e professioniste e dei loro cauti tentativi di arginare il genitoriale entusiasmo (e talvolta, ahimé, la genitoriale follia) con una ricca aneddotica quasi sempre rigorosamente anonima. Il lavoro è infarcito di gustose scenette dall'aria assai autentica ed è di lettura scorrevole anche per un lettore molto giovane.
La prefazione è di Maurizio Viroli, le note di Dionigio Dionigi e l'editore è Il Ponte Vecchio, di Cesena. Il prezzo è di 11 euro.
Molto consigliato anche per le biblioteche scolastiche.

Con questo post ritorno finalmente, Telecom permettendo, a partecipare al Venerdì del Libro di Homamademamma dopo un assenza del tutto indipendente dalla mia volontà e auguro felici letture a tutti quelli che passano di qua.

martedì 5 gennaio 2016

I miei insegnanti - La prof. Jazinga


In terza liceo, l'anno dell'esame di maturità arrivò la prof. Jazinga, anche lei supplente annuale - che non si dica che i precari vanno di moda soltanto adesso.
Era visibilmente più giovane di qualsiasi insegnante circolasse in quel liceo (probabilmente  sulla trentina) ed era anche un po' di casa: non soltanto aveva studiato lì, ma anche la sua sorella minore aveva studiato lì, per giunta nella nostra sezione, per giunta nella classe che fece la terza liceo quando noi facevamo la prima e costei (la sorella minore) era anche carissima amica della sorella maggiore di una di noi, pure lei in quella classe... insomma vederla in cattedra dava una certa aria di famiglia.
Era piuttosto carina, piuttosto simpatica, piuttosto alla mano, per niente aggressiva - nella mia mente quando la vedevo balenava l'immagine di un bel coniglio d'angora con lunghe orecchie vellutate.
Era anche decisamente gentile. Sary osservò subito che alla fine delle spiegazioni non domandava "Avete capito?" ma "Sono stata chiara?" - che non è affatto la stessa cosa, perché spostava l'accento dalla durezza della nostra cervice ad eventuale sua incapacità nello spiegare.
Aveva una voce calda e profonda, di quelle facilmente imitabili, caratterizzata da una r arrotata oltre al limite dell'arrotabile. I sui miti vavi e pveziosi e pvettamente alessandvini e i vevsi che gvondavano vetovica entrarono ben presto nel nostro frasario - Sary lo disegnò anche, il mito vavo e pvezioso: un rubino ben sfaccettato, con le gambine, i braccini e la testolina.
Vedendoci scrivere come castori ogni volta che apriva bocca per accennare una spiegazione, e supplicare ripetizioni ogni volta che ci sfuggiva una parola osservò blandamente che le sarebbe piaciuto che ci liberassimo dell'ossessione "oddiosenonhogliappunticomefo?". Ma ormai prendere appunti era diventata una nostra seconda natura, e dovette rassegnarsi.
Si vedeva benissimo che insegnava volentieri e che quel che insegnava le piaceva e le interessava. Era ben preparata, ma anche abituata a porsi domande. Quando, spiegandoci la tragedia, partì dall'etimologia della parola (viene da tragos, capro, e ode, canto) per poi immergersi nelle varie possibilità - canto del capro, canto per il capro, o canto in onore del sacrificio del capro? - sviscerandole una ad una con tutti i dettagli del caso, ci rendemmo conto che l'epoca delle dispense da mandare a memoria era finita e ricominciammo a fare domande, cui seguiva sempre un accurata risposta, infarcita di citazioni di testi e riferimenti a questioni varie. Latino e greco tornarono materie vive e nessuno, che io sappia, rimpianse le interrogazioni programmate in formaldeide dell'anno prima.
Diede anche una notevole botta di vita a Lucrezio, che immagino avessimo fatto anche l'anno prima (la Picchia ci avrà pur parlato di Lucrezio e Catullo, visto che sono autori assolutamente obbligatori, e probabilmente li aveva resi noiosi oltre ogni umano dire, ma io li ricordo solo attraverso le parole della Jazinga) che quell'anno era il nostro testo di lettura - e Lucrezio rifulse in tutto il suo notevole splendore, verso dopo verso.
Le sue lezioni erano vivaci, rumorose e a volte anche un pelo caotiche, ma c'era dentro molto calore.
Così ci facemmo una buona cultura sull'ellenismo e i suoi miti rari e preziosi (con o senza gambine); e immagino che avremo anche studiato - c'era l'esame, e nessuno di noi se lo riusciva a dimenticare per un minuto che fosse uno; e avremo anche fatto compiti scritti in quantità bastevole e abbondanti interrogazioni, dove certo non avrò brillato ma nemmeno avrò detto nulla di irreparabile, dal momento che non ricordo voti particolarmente bassi. Comunque non ricordo una particolare fatica associata al latino e al greco, quell'anno; però ricordo parecchio di quello che ci raccontò e che leggemmo, e dunque in qualche momento avrò pure studiato; tra l'altro, molti anni dopo, mentre assistevo a un Acis and Galathea di Haendel realizzai improvvisamente che la storia era tratta da uno di quei miti vavi, pveziosi e pvettamente alessandvini di cui ci aveva dettagliatamente parlato e riconobbi diversi passi del libretto (era un idillio di Teocrito, poi ripreso da Ovidio nelle Metamorfosi).

Senza noia, senza strepiti e senza grande affanno ma con non poco divertimento, il terzo anno di liceo per latino e greco passò, in una girandola di soffitti dorati a cassettoni, coppie di amanti assolutamente irregolari e pecorelle e giovenche al pascolo, più molti riferimenti a Minucio Felice, autore che doveva chiudere il nostro programma ma che non toccammo mai. Si limitò a nominarlo ma non ce ne disse mai niente né alcuno di noi provò ad informarsi in merito. In cuor mio ho sempre sospettato che non fosse una gran perdita.

venerdì 1 gennaio 2016

Auguri per un prezioso e scintillante 2016

Questo bel drago lo trovate qui

Il prezioso e imprevedibile 2016 è finalmente arrivato, e sarà un anno ricco e luminoso.
Auguri a tutti e possano le vostre barbe... cioè, volevo dire, i vostri capelli... sia le barbe che i capelli non smettere mai di crescere...
insomma, auguri!