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venerdì 19 giugno 2009

Alcune pacate considerazioni sulla prova Invalsi


Premesso che all'Invalsi sono tutti dei grandissimi cornuti e che, quand'anche per qualche deplorevolissimo caso non lo fossero, sono disposta ad andare a riempire di schiaffi le loro mogli e i loro mariti, perché restare fedeli a chi è intrinsecamente un grandissimo cornuto è atto gravemente contro natura e grande spregio alle leggi di Dio e dell'uomo


dicevo, premesso questo


sarebbe ora di togliere dalle patrie galere un po' di extracomunitari senza permesso di soggiorno e qualche rispettabile spacciatore per lasciar posto a quelli dell'Invalsi* (che in tal modo potrebbero vieppiù adempiere alla loro vera mission di vita, che è quella di essere dei grandissimi cornuti); capi di imputazione non ne mancano: Atti Osceni in Luogo Pubblico, Manifesta e Reiterata Rottura di Palle alla Collettività Maschile, Pallificazione Completa e ad Oltranza della Collettività Femminile, Sevizie a Minorenni, Sevizie a Maggiorenni, Disprezzo Assoluto della Costituzione Italiana, della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e della Convenzione di Ginevra, Eccesso di Narcisismo (forse per compensare il fatto di essere, tutti loro, dei grandissimi cornuti) e Istigazione al Turpiloquio.


Non mi riferisco ai contenuti. I contenuti sembravano in effetti piuttosto balordi (per esempio le domande di grammatica mi sono sembrate decisamente faciline rispetto alle altre due parti e i brani da analizzare erano parecchio lunghi), ma posso pur sempre sperare che dietro a cotanta follia ci sia un qualche tipo di metodo, pur essendo convinta che l'intero attuale consiglio dei ministri (a parte, forse, la Meloni) ci si sarebbe arenato pietosamente e che per le medie alcune domande erano parecchio difficili.


Quello che mi sembra al di là del bene e del male sono le tecniche di valutazione astruse, bizantine e deliranti. E' un procedimento di calcolo che ha piu' fasi di un'iniziazione e più tappe del Giro d'Italia.

Non le ho dovute correggere io, vivaddio, ma ho visto i miei colleghi sputarci sangue e rifare i conti tre volte. Alla terza volta mi hanno dettato i risultati, ma più per stanchezza che perché convinti di aver ottenuto i punteggi giusti.


Che accidenti di prova oggettiva è, se si possono scegliere due diversi metodi di calcolo per il punteggio?

Se gli va di fare una procedura tanto complicata, perché non ci mandano del personale specializzato o non se le valutano al Ministero?


E soprattutto: perché non vanno tutti quanti, senza esclusione alcuna, a farsi impalare con qualche abete norvegese, invece di tormentare brava gente che non gli ha fatto nulla di male (per adesso)?


*no, non agli spacciatori dell'Invalsi (anche se un po' di detenzione non gli farebbe male, visto che spacciano evidentemente roba di pessima qualità). Intendevo ai DIPENDENTI dell'Invalsi.


(Per chi volesse leggere una descrizione più accurata della prova Invalsi, può servirsi qui e qui, mentre un'analisi sul sistema di valutazione di detta prova si trova qui)


Censura - 1


Durante un piacevolissimo spuntino tra colleghe* la prof. Quadrella mi chiede: "Ma tu, al Cineforum, gli lasci vedere le scene di sesso o le censuri?".
"Scene di sesso? Censura?" chiedo interdetta.
"Per esempio, quando si capisce che due vanno a letto, gliele lasci guardare? Perché con me i ragazzi si sono lamentati dicendo che sono l'unica a non fargliele vedere".
"Ehm... di solito scelgo dei film che non contengono scene di sesso molto esplicite" svicolo. In realtà non ricordo di essermi mai nemmeno posta il problema.
"Per esempio, in Titanic, quando vanno nella macchina. Io quella gliel'ho tagliata".
Tramecolo. Non ho mai visto Titanic né conto di vederlo in futuro (non ho alcun desiderio di vedere annegare il mio amato Di Caprio) ma a quanto mi è parso di capire dalle descrizioni la scena in macchina non ha niente di particolarmente hard ed è uno dei punti chiave del film. (Ad ogni modo, nessuno ci obbliga a fargli vedere proprio Titanic. Il mondo è pieno zeppo di film, la scelta non manca).
"Fa parte della storia, come fai a tagliargliela?"
"Ma, sai... ho preferito..."
La prof. Quadrella non è un'idiota, anzi, fino a pochi minuti prima l'avrei definita una persona assennata e accorta.
"No, non taglio nulla. Se un film contiene una scena che non mi sembra adatta a loro non gli faccio vedere il film, punto. Sono contraria ai tagli. Trovo che snaturino l'opera."
Trovo anche che un atteggiamento come quello della collega sia perfetto per ingenerare curiosità morbose anche negli adolescenti più equilibrati e integerrimi, oltre ad essere piuttosto offensivo: la gente tromba, ogni tanto, per loro non è questa grande novità. Del resto, perché dovrebbe esserlo? Sono arrivati su questa terra appunto in quel modo.
"Anche i testi li faccio sempre leggere in versione integrale, se l'antologia li taglia faccio le fotocopie dal libro vero. Trovo che i tagli danneggino la struttura e il ritmo".
La collega rimane colpita dal mio punto di vista.
"Io mi preoccupo più delle scene di violenza" osserva la De Angelis "Anche perché fanno molta impressione soprattutto a me".
"Spesso però hanno un loro significato, all'interno del film" osservo. Mentre parlo ripenso al Labirinto del Fauno, un film che mi è piaciuto molto ma dove la violenza è resa in modo molto... efficace, tanto da turbare decisamente il mio sonno per un paio di notti.
Diciamo che non è un film che presenterei a tutte le classi, ecco. Però descrive molto bene sia la guerra civile spagnola (che non fu un affare da signorine) sia la violenza racchiusa nel passaggio dell'adolescenza femminile. Molto sangue, molto rosso...
Posso non fargli vedere il film (in effetti al momento me ne sono guardata bene). Se però metto il DVD nel lettore, il film va visto TUTTO, senza sconti, perché quando il regista ci ha messo certe scene sapeva benissimo perché lo faceva.
"In terza comunque gli facciamo vedere dei documentari piuttosto salati" osserva qualcuno. Ne conveniamo tutte: tra foibe, campi di sterminio, bombardamenti vari e filmati sugli effetti delle bombe atomiche ci può stare anche l'inizio del Soldato Ryan - che, in fine, è una valida ricostruzione storica dello sbarco in Normandia, che non fu una passeggiata.

Ad ogni modo, al di là dell'unità intrinseca di un'opera, secondo me tagliare le scene dove "si capisce" che due vanno a letto insieme è solo una grandissima cazzata - anche se mai e poi mai mi esprimerei sì crudamente con la collega Quadrella.

*ebbene sì, si trattava in realtà di una vera abbuffata che comprendeva prosciutto e melone, insalata di riso con gamberoni e vongole, involtini di bresaola con caprino, pesce finto e insalata russa con maionese fatta in casa dalle sante mani di chi ci ospitava e macedonia con gelato. Tutto squisito e assai abbondante.

domenica 14 giugno 2009

Bastard Inside (ultimo giorno di scuola)


E viene l'ultimo giorno di scuola: una mattinata calda e serena, con l'aula sempre più simile a un forno nonostante la porta aperta. L'umore della classe è medio-alto e circolano numerose bottiglie d'acqua che faccio del mio meglio per ignorare (i gavettoni di fine anno sono una tradizione ben radicata a St. Mary Mead e io sono sempre stata molto rispettosa delle Tradizioni Culturali, specie quelle legate ai Riti di Passaggio).

Riporto gli ultimi temi, gli ultimi esercizi, le ultime verifiche. Riporto anche una caramellina del tutto inattesa: per tre anni il primo giorno di scuola gli ho fatto compilare una scheda con preferenze letterarie e cinematografiche, qualche aggettivo per descriversi, cibi preferiti e simili. Oggi la restituisco. La classe frulla deliziata confrontando le schede con quelle dei compagni e degli anni passati. Ne approfitto per infilare un commento sull'importanza della memoria, dei documenti e delle fonti storiche che ci riportano frammenti dimenticati del nostro passato.
Poi una piccola chiacchierata sull'esame prossimo venturo. Le bottiglie vagano. Alcune, forate in un angolino, lasciano una scia d'acqua. Il pavimento comincia a grondare.
Mando i due colpevoli a prendere il mocio per pulire, ma poi pulisce soltanto uno.
"Perché vuoi fare tutto tu?" chiede l'altro.
"Non ho mai pulito un pavimento e voglio vivere quest'esperienza fino in fondo" risponde l'interessato passando il mocio sotto i banchi.
"Eh, aspetta a sposarti e poi di pavimenti ne pulirai quanti ne vuoi!".
Ascolto e approvo in cuor mio.
"Mica è necessario sposarsi" puntualizzo "Basta andare a vivere da soli".
I maschi convengono che sì, anche quando andranno a vivere da soli, ma è chiaro che la considerano un'ipotesi molto improbabile: St. Mary Mead è un paese dove la struttura familiare si mostra assai robusta.
Le bottiglie stanno allineate sulla cattedra, il mocio viene riportato ai custodi. Entrano tre allievi dell'anno scorso. Sono passati a trovare il loro ex-compagno, il Ripetente. Che nonostante il caloroso saluto che i tre gli rivolgono non sembra proprio entusiasta di rivederli.
Due pacche sulle spalle, poi gli infilano una frase dove riescono a mettere non so quanti accenni al fatto che ha ripetuto l'anno. Gli altri li guardano perplessi.
"Vedete di sparire" suggerisco con garbo "E abbiate la gentilezza di non farvi mordere da una vipera perché la poveretta potrebbe morire avvelenata".
Escono.
"Ha ragione la collega di matematica" considero in cuor mio "Quella era una vera classe di carogne".
Il pavimento è asciutto, il cortile libero, le prediche pre-esame le ho finite. I ragazzi chiedono di scendere. Non c'è motivo di non accontentarli.
Giù troviamo un'altra terza. Qualcuno gioca a palla sotto il sole a picco, qualcuno si rimpiatta dietro i cipressi per chiacchierare dei fatti suoi, un buon gruppo rimane su panche e tavolo, nella zona all'ombra, vicino alle due professoresse. Tra questi il Ripetente e il Teppista.
Ritornano i tre. Hanno stampato in faccia un sorriso dolciastro e un'aria divertita. Prima si rivolgono al Teppista, infilando una strana storia sul fatto che l'hanno chiamato poco prima al cellulare e lui ha risposto. Il Teppista risponde a monosillabi ma dichiara con fermezza che lui non ha risposto a nessuna chiamata di nessun cellulare.
Non so che dire e quindi mi taccio. Che io sappia, mentre eravamo in classe nessun cellulare ha squillato. D'accordo, il Teppista avrebbe potuto avere la vibrazione inserita, invece della suoneria. Oppure la chiamata potrebbe essere arrivata mentre i ragazzi si scambiavano le schede dei tre anni, o si leggevano passi scelti dei temi e il rumore di fondo era alto quanto bastava a coprire la suoneria. In tutti i casi, chissenefrega? Se l'ultimo giorno qualcuno ha usato il cellulare in classe non bandirò certo una crociata sull'argomento.
Stante che il Teppista non se li fila né poco né tanto e io nemmeno, i tre tornano a puntare sul Ripetente, il Grande Ripetente, Ripetente Per Sempre, la certezza della scuola dove resterà per sempre (a ripetere, si capisce).
Il Ripetente non ribatte. Ha un'aria un po' rassegnata.
Siamo tutti piuttosto interdetti. Comunque gli dico di levarsi dai piedi.
Mi guardano con un sorriso sempre più dolciastro, del tipo "Tanto lo sappiamo che non puoi mandarci via".
Alzo la voce, dichiaro che non hanno nessun diritto di stare lì e dunque se ne devono andare. Subito. In cuor mio però sospetto che non sarà tanto semplice.
Invece se ne vanno, zitti zitti e senza replicare. E hanno anche l'aria un po' sorpresa.
Nessuno commenta l'accaduto (tanto meno il Ripetente, che è ancor più privo di espressione del solito) ma qualcuno si stringe nelle spalle con l'aria di pensare "certo che i cretini non mancano mai".
Ci ripenso su; e più ci ripenso e più ho l'impressione di aver assistito a qualcosa di veramente brutto. Che i ragazzi si prendano in giro tra loro, anche in malo modo, non mi è del tutto nuovo; e la collega di matematica mi aveva ben spiegato che, nella classe precedente, il Ripetente faceva di mestiere lo scemo del villaggio e che nella mia terza "l'atmosfera era molto più gradevole". Però quei tre imbecilli avevano tranquillamente fatto il loro show in presenza di due insegnanti, una delle quali (io) li aveva già mandati al diavolo.
Peggio ancora: ritornando in visita nella vecchia scuola si erano ben premurati non una ma due volte di venire a perculare il loro caro, vecchio compagno di classe un tantino ripetente.
Possibile che in un anno non gli sia venuto in mente un modo un po' più divertente per passare il tempo?
E, soprattutto: possibile che trovassero tanto normale farlo in presenza di due insegnanti?

Il che porta ad altre due domande.
1) Possibile che l'insegnante di lettere che avevano li lasciasse fare, limitandosi a qualche vaga rimostranza? Dopotutto, lei stessa aveva inventato il "Teorema Ripetente", che si basava sul fatto che per lo sventurato ragazzo, in verità non troppo portato all'analisi linguistica, il soggetto della frase era sempre quello che veniva per primo (teorema, in verità, molto diffuso anche tra gli alunni che non ripetono affatto, e che ogni insegnante di Lettere trova qualche difficoltà a scardinare); e si racconta che per ogni classe tenga un quaderno, detto "Libro delle cazzate" dove riporta le più notevoli sciocchezze dette dagli alunni, e dove a suo tempo il Ripetente faceva la parte del leone.
2) Possibile che i ragazzi che lanciano i sassi dal cavalcavia e allagano i corridoi dei licei tanto per vedere di nascosto l'effetto che fa abbiano quello stesso sguardo vuoto e quel sorriso un po' dolciastro?

Perché, certo, le Istituzioni, la Società, i Modelli, le Famiglie, i Traumi dell'Infanzia. Ma c'è pure qualcuno che, semplicemente, nasce stronzo. No?

sabato 13 giugno 2009

Riciclare si può, riciclare si deve


Di solito non faccio letteratura. Per tutta una serie di motivi social-religiosi-ideologici-bocciofili, perché non la ritengo indispensabile a una formazione di base, perché non mi ha mai interessato molto; ma soprattutto perché tutte le antologie delle medie su cui ho posato l'occhio finora la fanno col piede sinistro informicolato infilandoci dentro un'immane quantità di sciocchezz, mentre i testi delle superiori la fanno con assai maggior criterio. 

Faccio invece un buon numero di testi (non sempre di letteratura "alta") con una certa attenzione all'inquadramento storico. Le terze che capitano tra le mie grinfie possono avere qualche vaga idea di cos'è il romanticismo ma ignorano tutto delle correnti letterarie, a meno che non abbiano approfondito l'argomento per loro conto, e degli autori dei brani letti sanno che sono esistiti e poco più. E' mia personale opinione che un testo fatto bene può servirgli, più avanti, quando e se studieranno letteratura, ma che qualche dato raffazzonato sul verismo può servirgli al massimo come esercizio mnemonico - e allora tanto vale che si studino le formazioni del Milan nel corso degli anni, che magari gli interessano. All'esame si portano un brano e mi parlano di quello. Se mi gira, perché di solito al colloquio dell'esame chiedo storia e geografia.
Il concetto però non deve essere ben passato, perché dieci giorni fa il Teppista mi chiese se poteva portare Pirandello all'esame.
Ora, quest'anno Pirandello non l'ho toccato nemmeno con una canna lunga. 
D'altra parte, se qualcuno ha degli interessi personali non vedo perché non debbano essere valorizzati.
"Vuoi dire un testo di Pirandello?" mi informo. Immaginare il Teppista che si divora il Fu Mattia Pascal o Così è se vi pare mi suona strano, ma d'altra parte...
"No, Pirandello".
"E perché proprio Pirandello?".
"Perché per storia porto il fascismo e Pirandello è adatto da collegare".
"Abbiamo fatto diverse letture sul fascismo: Ci sono due brani dall'antologia sulla guerra in Abissinia, un racconto di Camilleri e un pezzo dalla Storia di Elsa Morante".
(Inoltre Pirandello era fascista, ma non sono così convinta che le sue opere siano utili per illustrare i punti salienti dell'ideologia fascista...)
Il Teppista farfuglia qualcosa.
"Se hai letto un testo di Pirandello e vuoi portarlo per me va benissimo".
Altra risposta piuttosto vaga.
"Vediamo se ho capito: qualcuno ti ha passato una ricerca su Pirandello e vuoi portare quella".
Vago cenno d'assenso e un ancor più vago accenno a suo fratello.
"Scordatene".
Segue una breve filippica sul fatto che non mi interessa sentirgli rimasticare quattro pagine su Pirandello pescate da Wikipedia o chi per lei.
(Ha poi finito per scegliere Ungaretti - di cui abbiamo fatto il solito gruppo di poesie da trincea che col fascismo c'entrano veramente il giusto.)

Secondo atto, stamani. 
Il Ripetente, che le due volte in cui ho chiesto alla classe di farmi una traccia del percorso che portavano all'esame mi aveva rifilato una selva di "non so", stamani arriva con tre gruppi di fogli: Prima Guerra Mondiale, Stati Uniti... e il Verismo.
Ora, è possibile che, mentre leggevamo Rosso Malpelo e Libertà (entrambe, devo dire, assai apprezzate, anche se tutti hanno ammesso di buon grado di aver letto autori meno deprimenti in vita loro) io abbia accennato all'esistenza di una corrente letteraria detta Verismo, mentre cercavo di spiegargli la particolarissima tecnica narrativa a collage di Verga, dove il narratore cambia in continuazione, anche più volte nella stessa frase. Ma di un blando accenno si è trattato, e di niente di più.
D'altro canto, se l'idea del Teppista che legge avidamente il Fu Mattia Pascal appare improbabile, la scena del Ripetente che approfondisce per suo conto il movimento letterario del Verismo è degna di un libro di fantascienza del filone degli universi paralleli.
"Se ti interessa il Verismo, abbiamo letto due eccellenti novelle di Verga" (sulle quali avevo dato affascinanti esercizi da lui fatti in modo decisamente superficiale, e glieli avevo dovuti richiedere  non so quante volte).
Il Ripetente farfuglia una frase molto vaga.
"Cioè, qualcuno ti ha passato una scheda sul Verismo?".
La risposta è stata vieppiù vaga, ma è finita con un "Sì".
E' seguita una nuova e più accorata filippica sul fatto che era stato svolto  un programma di letture, e quelle volevo all'esame. Se qualcuno aveva fatto altre letture per me andava bene, ma volevo dei TESTI, non delle rimasticature di critica mandate a mente.
Il Ripetente è tornato a posto con la coda tra le gambe borbottando qualcosa sul fatto che avrebbe portato Malpelo - che c'entra il giusto con la Prima Guerra Mondiale, ma non è certo con lui che starò a guardare il capello.
Poco dopo, in Sala Professori, Artistica mi ha raccontato che il Ripetente portava anche Van Gogh, ma che, richiesto di dirne qualcosa, si era chiuso in un dignitoso silenzio.
E dunque evidentemente era stato stabilito, non so in base a che criterio, che Italiano sarebbe stato chiesto all'esame e Artistica no, perché "tanto non c'era abbastanza tempo".
Sarà bene spiegare domani che nei colloqui delle mie commissioni succede esattamente l'opposto: di solito non chiedo Italiano, ma un angolino per Artistica, Musica, Fisica e Tecnica salta sempre fuori. Sempre. E quindi gli conviene, oltre a raccattare da cugini e fratelli improbabili tesine di letteratura, dare un'occhiata anche al resto del percorso.

Sì, credo veramente sia il caso.

martedì 9 giugno 2009

Troia, qual fosti un dì!


Così canta il coro di troiane all'inizio dell'Ermione di Rossini, quando le sconsolate donne, ormai in esilio, rimpiangono la grandezza della loro città caduta.
E così parimenti cantano in questi giorni molti insegnanti delle medie (pardon, delle scuole secondarie di primo grado; ma volendo, forse, possiamo anche definirci una primaria di secondo grado) sull'orlo di scrutini vissuti pericolosamente, tra leggi monche di decreti applicativi, Tar sovraccarichi di lavoro,  circolari che arrivano come ladri nella notte e note protocollari che...
Ecco, appunto, l'ultima nota protocollare del nostro ineffabile Ministero. Datata 8 Giugno.
Abbiamo avuto un decreto applicativo sul voto di condotta che è arrivato mentre erano in corso gli scrutini del primo quadrimestre. E' durato poco, lo spazio di un mattino, perché era stato concepito al solo e unico scopo di scassare le balle a chi stava facendo gli scrutini.
Abbiamo poi avuto un decreto sulla valutazione che è rimasto per settimane a picco sulle nostre teste ma - ZAC! - proprio all'ultimo momento si è saputo che scherzavano e no, per quest'anno non era valido perché non ce la facevano con i tempi, ed è rimasto in vigore il Decreto che ci avevano detto sarebbe durato lo spazio di un mattino.
L'8 Giugno, al Ministero, qualcuno si è improvvisamente ricordato che c'era il problema del sei in rosso.
Ovviamente non ci sarebbe stato alcun problema di sei rossi, azzurri o viola a strisce verdi se qualche settimana fa da Roma ci avessero mandato istruzioni. Adesso invece si è dato il caso che qualche Collegio dei Docenti abbia deciso di segnalare i voti portati alla sufficienza dal Consiglio di Classe scrivendoli con inchiostro rosso - e immagino si sia perfino dato il caso di qualcuno che quei voti in rosso li ha già scritti sulle schede. 
Ma ecco che arrivano le istruzioni dal Ministero, sotto forma della Nota Protocollare 6051   scritta, ci spiegano, "in risposta ai quesiti pervenuti allA scrivente" (che sarebbe poi il Direttore Generale Mario Dutto, evidentemente sottopostosi negli ultimi tempi a qualche operazione; o forse, chissà, caduto nelle sorgenti incantate di Jusenko come Ranma). Le quali spiegazioni dicono che ogni scuola, essendoci l'autonomia, farà come crede per segnalare che certi voti sono stati alzati dal Consiglio, ma che "è del tutto improprio il riferimento al "sei rosso", dicitura utilizzata solo in passato nella scuola secondaria di secondo grado e collegata al recupero del "debito scolastico" perché "tale previsione non corrisponde all'attuale quadro normativo" in quanto "nella scuola secondaria di primo grado l'ammissione all'anno successivo e all'esame di Stato non è infatti condizionata" e i fanciulli vengono ammessi all'anno successivo o all'esame aggratisse e senza balzelli da pagare.

Cara signora Dutto, capisco che il suo recente cambio di sesso l'abbia impegnata in un sacco di cose importanti; ma poteva ben dire al Ministro di svegliarsi prima, mi sembra. Quel che il Ministero sta facendo a noi sventurati insegnanti non solo è molto disdicevole, ma ha configurazione di un reato: perché si tratta di mobbing, a voler chiamare le cose col loro nome.
(Quanto alla Grandissima Presa di Culo, per quanto irritante, non so se può rientrare tra le circostanze attenuanti che si invocano nel caso degli omicidi violenti. Ma può essere che sì, secondo me.)

giovedì 4 giugno 2009

Tiger Tiger (dopo gli scrutini)





L'ultima brillante trovata del NuovoPreside è consistita nel comunicarci, durante gli scrutini, che non ci saranno schede, di nessun tipo, da consegnare ai genitori, in quanto gli scrutini si fanno per ammettere gli alunni all'esame e non per valutarli. Quindi, i voti con cui li ammettiamo non sono affar loro. Questo dopo averci assicurato in sede di Collegio che avremmo scritto sulla scheda la formula "voto alzato dal Consiglio".
I genitori che vogliono vedere i voti dei figli (certa gente è di un impiccionaggine incredibile e pretende perfino di sapere con che voti sono stati ammessi all'esame, come se la cosa li riguardasse in qualche modo) andranno a chiederlo in Presidenza, a venti chilometri da St. Mary Mead - ignoro se col cappello in mano, dopo aver presentato supplica, con un offerta rituale di miele e fior di farina o in che altro modo.
Ci ha detto anche il motivo: al momento dell'esame noi dobbiamo fare tabula rasa di tutto quel che sappiamo dell'allievo e considerare solo il suo lavoro all'esame. Quindi, i voti di ammissione non esistono più.
Come gli apostoli,  mi domando "Chi ha peccato, noi o i nostri padri, per doverci trovare tra i piedi un essere di tal fatta?".
Escludo di avere commesso peccati all'altezza di tale punizione.
La prima volta che vedo mio padre, due schiaffi non glieli leva nessuno.

(Per farmi passare i nervi: un brano dei Duran Duran che corrisponde nel titolo, ma non nella melodia, al mio stato d'animo).

lunedì 1 giugno 2009

Il rapimento di Lucia




I Promessi Sposi non è uno dei libri che mi hanno cambiato la vita però mi è sempre piaciuto, tanto da dedicargli uno dei "percorsi" di italiano del secondo anno di SSIS. Il quale percorso mi è tornato in mente grazie a un bel post di Lanoisette che in realtà parlava di Germinal e di tante belle cose interessanti (va da sé che  Lanoisette è innocente come un'agnella dell'interminabile sproloquio che segue).
Lo ritrascrivo pari pari, esattamente nella forma in cui l'ho consegnato (cioè, a parte una ripetizione e due errori di battitura).
E' così che faccio lezione di letteratura?
Diciamo che di solito mi guardo bene dal fare letteratura, ma se proprio le circostanze rendono opportuna una lezione di letteratura, posso farla anche così.
Questa comunque era per le superiori: per quanto io abbia fatto e detto, alla SSIS erano del tutto ignari dell'esistenza delle scuole medie e continuavano a spiegarci come fare lezione ai licei (ahimé, spesso sembravano inconsapevoli anche dell'esistenza di tecnici e professionali).


IL RAPIMENTO DI LUCIA

(capp.  XI, XVIII, XX-XXI, XXIV)

La vita delle eroine nei romanzi, si sa,  è costellata di pericoli e insidie e non necessariamente destinata a buon fine; ma giustizia vuole che, insieme a questi inconvenienti vi siano anche vantaggi tutt’altro che secondari: una travolgente storia d’amore, prima di tutto, ma anche la possibilità di mettere alla prova il proprio carattere affrontando nemici e avversità, l’incontro con personaggi famosi e altolocati, vivaci mutamenti di ambienti e di paesaggi  etc. - tutte cose piuttosto rare nella vita delle comuni mortali.
Grazie alla perfidia del suo creatore, la sventurata Lucia si ritroverà invece a subire tutte le consuete scomodità legate al suo ruolo da protagonista (insidie da parte di un potente, allontanamento dal fidanzato prima e dalla madre poi, un rapimento, una grave malattia) senza averne i corrispondenti vantaggi, anche se alla fine del romanzo e’ ancora viva e in buona salute (e per una protagonista dell’epoca la cosa era tutt’altro che scontata).
Per contro la poverina passa tutto il romanzo annoiandosi notevolmente, tranne nei non rarissimi momenti in cui ha paura: dal tranquillo paesello si ritrova dopo un breve viaggio in un monastero di clausura (che non è proprio il massimo del divertimento) da dove, dopo un breve intermezzo, raggiungerà Milano al seguito di una nobildonna, per liberarsi della quale non v’è lettore che non sarebbe disposto a tagliarsi una mano. Lì prenderà la peste, con conseguente soggiorno al lazzaretto (altro luogo di assai scarne attrattive), per riunirsi infine all’innamorato e tornare con lui al paesello natio dove i due si sposeranno.

L’unica vera avventura che Manzoni le riserba in trentotto capitoli di romanzo è un rapimento - una Grande Avventura, in verità, da cui normalmente il romanziere riesce a ricavare grandissime scene a effetto. Il rapimento di Lucia però manca quasi del tutto di tratti romanzeschi. 

Eppure le premesse spettacolari c’erano tutte: Lucia viene rapita (nientemeno) da un monastero, con la complicità di una suora e su richiesta di un gran signore che ha delle mire su di lei e che lei ha sempre rifiutato. Inoltre, grazie a questo rapimento, un personaggio Davvero Cattivo si convertirà,  il che per un’eroina è senza dubbio una bella corona di vittoria. Il risultato artistico dell’episodio è notevole, la sua influenza nella trama è indubbia, ma di Grandioso ed Eroico c’è ben poco, come risulta evidente se proviamo a confrontare questo rapimento con quello di un romanzo quasi contemporaneo: Ivanhoe di Walter Scott, pubblicato nel 1823.

Iniziamo dal Perfido Mandante del rapimento, ovvero don Rodrigo, un nobile spagnolo di grandissima casata. Il personaggio non ha niente di titanico, e quel che prova per Lucia viene sì definito “passione” da Manzoni, ma descritto più dettagliatamente come “quel misto di puntiglio, di rabbia e di infame capriccio, di cui la sua passione era composta”. In effetti niente in quel che intravediamo nei pensieri e nell’animo del nobile spagnolo nel corso del romanzo ci induce a pensare diversamente: il capriccio per Lucia è nato per caso in don Rodrigo durante una passeggiata, e si è rafforzato grazie ad una scommessa fatta con il cugino - una scommessa di cui non conosciamo i termini precisi ma che, ci viene fatto capire, non prevede un’opera di seduzione o il consenso dell’interessata. 
Infatti Rodrigo non tenta nessun tipo di corteggiamento, e conduce l’affare come una scaramuccia di guerra: blocca il matrimonio di Lucia minacciando il parroco del paese, tenta una prima volta il rapimento senza successo (capp. VII-XI), lo tenta una seconda volta delegandolo a persona più competente, finisce per lasciar perdere tutto (e già questo, in un Eroe Negativo, è abbastanza insolito). Quanto a lui, si limita a stare ad aspettare che altri facciano tutta la fatica per portargli Lucia su un piatto d’argento. Notti insonni e giorni angosciosi invocando il nome della sua amata non risulta che ne passi. Il massimo del sentimentalismo cui lo vediamo arrivare è quando si immagina l’arrivo di Lucia dopo il rapimento (il primo, quello che non riesce):
“Ma il pensiero sul quale si fermava di più, perché in esso trovava insieme un acquietamento de’ dubbi, e un pascolo alla passion principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse che adoprerebbe per abbonire Lucia. “Avrà tanta paura di trovarsi qui sola, in mezzo a costoro, a queste facce che... il viso più umano qui son io, per bacco... che dovrà ricorrere a me, toccherà a lei pregare; e se prega...” (capitolo XI).
Per il resto del tempo lo vediamo preoccuparsi e arrabbiarsi quando pensa a Lucia - non già per il suo amore non corrisposto, ma per il timore di eventuali strascichi con la giustizia a seguito del rapimento,  o di non essersi mostrato all’altezza del decoro della sua famiglia e dei suoi antenati fallendo nella mirabile impresa di violentare una contadina, e soprattutto per la paura dei lazzi e dello scherno del cugino.
Il secondo rapimento di Lucia viene tentato proprio per una questione d’onore:
“Un monastero di Monza, quand’anche non ci fosse stata una principessa, era un osso troppo duro per i denti di don Rodrigo; e per quanto egli ronzasse con la fantasia intorno a quel ricovero, non sapeva immaginar né via né verso  d’ espugnarlo, né con la forza né per insidie. Fu quasi quasi per abbandonar l’impresa; fu per risolversi d’andare a Milano, allungando anche la strada, per non passar neppure da Monza; e a Milano gettarsi in mezzo agli amici e ai divertimenti, per discacciar, con pensieri affatto allegri, quel pensiero divenuto ormai tutto tormentoso. Ma, ma, ma, gli amici; piano un poco con questi amici. In vece d’una distrazione, poteva aspettarsi di trovar nella loro compagnia nuovi dispiaceri: perché Attilio certamente avrebbe già preso la tromba, e messo tutti in aspettativa. Da ogni parte gli verrebbero domandate notizie della montanara: bisognava render ragione. S’era tentato; cosa s’era ottenuto? S’era preso un impegno: un impegno un po’ ignobile, a dire il vero: ma, via, uno non può alle volte regolare i suoi capricci; il punto è di soddisfarli; e come s’usciva da quest’impegno? Dandola vinta a un villano e a un frate? Uh! E quando una buona sorte inaspettata, senza fatica del buon a nulla, aveva tolto di mezzo l’uno, e un abile amico l’altro, il buon a nulla non aveva saputo valersi della congiuntura, e si ritirava vilmente dall’impresa. Ce n’era più del bisogno, per non alzar mai più il viso tra i galantuomini, o avere ogni momento la spada alle mani.” (capitolo XVIII)

Mosso da sì gravi considerazioni don Rodrigo “il quale non voleva uscirne, né dare addietro, né fermarsi, e non poteva andare avanti da sé” si decide, dopo l’ennesima lettera di Attilio “che faceva un gran coraggio, e minacciava di gran canzonature”, di ricorrere all’aiuto di un tale “le cui mani arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri” - in pratica, di subappaltare il rapimento sfruttando un credito passato rivolgendosi a un personaggio assai inquietante: l’innominato.
E proprio davanti all’innominato vediamo don Rodrigo darsi una brusca ridimensionata, nel suo pellegrinaggio verso il castello arroccato tra i monti dove arriverà solo dopo aver deposto in varie tappe cavalcatura,  armi, seguito: è chiaro che questa volta non è il più forte, e c’è qualcosa di sottomesso nel suo modo di rivolgersi all’innominato: “disse che veniva per consiglio e per aiuto; che, trovandosi in un impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi, s’era ricordato delle promesse di quell’uomo che non prometteva mai troppo, né invano”. L’innominato invece “licenziò don Rodrigo dicendo: - tra poco avrete da me l’avviso di quel che dovrete fare”.

Stavolta il rapimento si svolge in fretta e bene: nel giro di due pagine la palla passa dall’innominato a Egidio, da Egidio a Gertrude, e Lucia si ritrova sola soletta per la strada dove la aspetta la carrozza del Nibbio (una variante del Griso, solo più efficiente): “Tutto a un puntino, l’avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessun incontro”. 

Consuetudine vuole che l’eroina rapita si renda conto quasi subito del mandante del rapimento (anche perché, di solito, questo viene effettuato dal diretto interessato) e che ben presto faccia appello alla sua forza d’animo per affrontare con coraggio la situazione prima, e il suo aspirante seduttore poi, ben decisa a difendere vita e onore nel migliore dei modi.
Lucia invece si limita a piombare a corpo morto in una spirale di terrore da cui comincerà a uscire solo a tarda notte. Prova a urlare e a divincolarsi - invano. Sviene. Poi sviene di nuovo. Piange. Si dispera. Supplica. Prega (sia i rapitori che le potenze celesti). Sempre la solita richiesta “Lasciatemi andare, lasciatemi andare”. Di forza d’animo, nemmeno l’ombra. I bravi tentano di calmarla e di rassicurarla, ma lei nemmeno li sente.
“Accorata, affannata, atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non facevano nessun colpo, Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini, e può, quando voglia, intenerire i più duri. Si strinse più che poté, nel canto della carrozza, mise le braccia in croce sul petto, e pregò qualche tempo con la mente; poi, tirata fuori la corona, cominciò a dire il rosario, con più fede e più affetto che non avesse ancor fatto in vita sua. Ogni tanto, sperando d’avere impetrata la misericordia che implorava, si voltava a ripregar coloro; ma sempre inutilmente. Poi ricadeva ancora senza sentimenti, poi si riaveva di nuovo, per rivivere a nuove angosce. Ma ormai non ci regge il cuore a descriverle più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci affretta al termine di quel viaggio, che durò più di quattr’ore”. (Cap. XX)

E’ un’agonia per la protagonista, è un’agonia per l’autore; lo è anche per il lettore, che sa benissimo che tutte quelle suppliche sono assolutamente inutili e vorrebbe vedere la ragazza sfoderare un po’ di coraggio, una buona volta. Quello che non è previsto è che sia un’agonia anche per i rapitori.
“Dico il vero, che avrei avuto più piacere che l’ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso. [...] Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M’ha fatto troppa compassione.”
L’idea di associare la parola “compassione” al Nibbio lascia sbalordito l’innominato.
“-Compassione! Che ne sai tu di compassione? Cos’è la compassione?
-Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso non è più uomo.”
Per vedere questa meraviglia, capace perfino di ispirare compassione al Nibbio, l’Innominato si prende la briga di andare a vedere da vicino Lucia.
Trova un essere stremato e tremante, che solo sotto la spinta di un nuovo terrore riesce a muoversi. Le sue prime parole sono “Son qui, m’ammazzi”, il resto è di conseguenza.
Non è un confronto, non è uno scontro, è il grido dell’agnello portato al mattatoio.  Lucia non ha coraggio, si limita a pregare “giungendo le mani come avrebbe fatto davanti a un’immagine” in preda a una violenta sindrome di Stoccolma: “Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera creatura. Se lei volesse potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi morire; e in vece mi ha... un po’ allargato il cuore. Dio gliene renderà merito.” Invoca disperatamente sua madre, supplica di essere lasciata andare... Ma per quanto sia spaventata a morte, una cosa le è rimasta: la consapevolezza della sua innocenza, “l’indegnazione disperata”.  Sarà questa estrema arma di difesa delle vittime che finirà per far provare compassione anche all’innominato.

Nell’onda di terrore che l’ha travolta, Lucia non ha fatto caso alle parole con cui i rapitori hanno cercato di calmarla, e nemmeno ha prestato il minimo ascolto ai tentativi della vecchia di confortarla (piuttosto maldestri, in verità, come maldestri erano quelli dei bravi). A malapena ascolta anche le parole dell’innominato. Tutti le dicono di stare tranquilla, ma, per quanto stordita dal terrore, sa benissimo che non c’è nessun motivo di stare tranquilla. L’unica parola che quasi passa nella nebbia che la avvolge è il “domattina” dell’innominato, cioè una vaga promessa di liberazione. Partito l’innominato torna nel suo cantuccio, dove rimane in uno stato molto vicino al collasso per qualche ora, immobile, riscuotendosi solo per supplicare che la porta sia chiusa, chiusa, chiusa.
Nel frattempo la vecchia “le fa coraggio”, sempre con la stessa destrezza e lo stesso risultato, poi cena, poi si corica. Il buio e il silenzio riportano lentamente Lucia fuori dal suo stordimento; ad un mondo di terrore, si capisce.
“ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l’aiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso. L’infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell’orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell’avvenire, l’assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell’abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento e fu vinta da un tale affanno che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un’improvvisa speranza.” (capitolo XXI)

Per un attimo il lettore si sente ricondotto su un terreno familiare: le brave eroine hanno spesso una fede incrollabile, dalla quale attingono coraggio e forza d’animo nelle sventure; e nessuno può negare che la devozione di Lucia sia profonda e autentica.
Lucia prega, e mentre prega sente crescere “una fiducia indeterminata”. E improvvisamente le viene in mente, per rafforzare la sua preghiera, di fare un’offerta. Un voto.

“Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento, l’animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio.” (capitolo XX, il corsivo è nostro)

Questo è un comportamento del tutto fuor di luogo in un’eroina. Al Grande Amore si può certo rinunciare, in uno slancio di sacrificio,  ma sempre per la salvezza di qualcuno: per il bene dell’amato stesso, o del suo onore o dei suoi cari, in qualche caso anche per la salvezza dei propri genitori o fratelli (o dei figli, nel raro caso in cui ce ne siano); ma l’amante sacrificato per semplice paura proprio non si dà.
Fino a questo momento Renzo non è mai stato invocato né nominato: nello stato di terror panico in cui Lucia è piombata era rimasto spazio per la madre, vista come porto e rifugio, ma Renzo era rimasto fuori. Ritorna solo dopo molte ore, e solo quando Lucia comincia a chiedersi che cosa sacrificare. 
La preghiera alla Vergine, nel suo genere, è agghiacciante:
“fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinuncio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri che vostra” (capitolo XXI, il corsivo è nostro).

Quella di “poveretto” sembra a questo punto una definizione molto appropriata per Renzo, che per quante ne passi invece non si dimenticherà mai della sua fidanzata - e l’unica attenuante per Lucia è di essere quasi impazzita per la paura, visto che non le viene nemmeno in mente che, come le ricorderà più avanti fra’ Cristoforo, non si può promettere la stessa cosa due volte e lei a Renzo non può più rinunciare, dopo aver dato la sua parola. (Per la verità non viene in mente nemmeno al lettore, di solito).

Dopo la preghiera Lucia si addormenta “d’un sonno perfetto e continuo”, indizio di una serenità d’animo finalmente ritrovata. Si risveglia a nuova paura, ma solo per breve tempo: l’ultima crisi di terrore, quando la porta si apre, le porta don Abbondio e una brava donna che la  conducono fuori dal castello. Il nuovo incontro con l’innominato non ha niente di sensazionale, anche se lui le chiede perdono: la sindrome di Stoccolma sta dileguando, e nella ragazza rimane soprattutto il ricordo della paura, più una vaga benevolenza verso l’uomo che andrà rafforzandosi in misura direttamente proporzionale al suo grado di lontananza da lui. 
La buona donna porta la ragazza a casa, dove Lucia comincia finalmente a tornare alla vita: si risveglia l’appetito, dopo un giorno di digiuno (non forzato: l’innominato aveva fatto portare una cena ottima e abbondante, finita però tutta nello stomaco della vecchia), si parla della virtù del perdono. Ritornata in sé la ragazza comincia a sistemarsi le trecce e lo scialle e trova il rosario intorno al collo:

“La memoria del voto, oppressa fino allora e soffogata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò d’improvviso, e vi comparve chiara e distinta. Allora tutte le potenze del suo animo, appena riavute, furon sopraffatte di nuovo, a un tratto: e se quell’animo non fosse stato così preparato da una vita d’innocenza, di rassegnazione e di fiducia, la costernazione che provò in quel momento, sarebbe stata disperazione. Dopo un ribollimento di que’ pensieri che non vengono con parole, le prime che si formarono nella sua mente furono: “oh povera me, cos’ho fatto!”. (capitolo XXIV)

L’assai comprensibile e condivisibile esclamazione, se pure conferma una volta di più il lettore che Lucia è del tutto priva di tempra eroica, lo rassicura però sul completo ritorno della salute mentale della fanciulla.