Il mio blog preferito

venerdì 2 gennaio 2009

I miei insegnanti - Il professor Ruf

In quest'immagine c'è il prof. Ruf, ma anche sapendolo non è facile individuarlo. 
Non è un tipo molto appariscente, ecco.

Nella saga di Harry Potter il grigio professor Ruf (Cuthbert Binns, nella versione originale) è un insegnante fantasma: un giorno, mentre faceva lezione, era morto e non se n'era accorto, così aveva continuato a fare lezione. Visto che svolgeva il suo lavoro esattamente come prima non c'era motivo di sollevarlo dall'incarico, e la cattedra era rimasta a lui. 
Da quando ho letto per la prima volta Harry Potter e la pietra filosofale l'ho immaginato come un fedele ritratto del mio altrettanto grigio e polveroso professore di storia e filosofia del liceo. 
Costui era vecchio e grigio e traballante nel passo, tanto che circolava la leggenda che avesse già passato l'età massima per insegnare, ma che fosse rimasto in servizio usufruendo di una particolare legge per profughi, soldati o vittime di guerra. Continuò a insegnare per diversi anni dopo che ebbi finito il liceo, e quando andò infine in pensione avevo ormai da tempo scoperto che non esisteva nessuna legge del genere e che il nostro professor Ruf stava in cattedra semplicemente perché aveva ancora l'età per farlo - in pratica, quando l'avevo conosciuto aveva poco più di mio padre, anche se sembrava il mio bisnonno.
Ricordo l'inizio della sua prima lezione con lui, perché fu l'unica che ascoltai, almeno in parte: parlava piano e ci voleva una notevole fatica per seguirlo. Ci spiegò cosa pensava della psicologia (disse "psicologia", ma mi diede l'impressione di parlare in realtà della psicanalisi): che non ci credeva, che comunque non funzionava se non in pochissimi casi... staccai l'audio quasi subito: non vedevo perché avrei dovuto scomodarmi a seguire uno che parlava a ultrasuoni, senza dire nulla di pertinente alla sua materia e infilando sciocchezze su qualcosa che non era nel suo programma e di cui nessuno gli aveva chiesto di parlare. 
Il suo tono basso e monotono non ci conciliava il sonno, perché eravamo una classe che non sprecava il suo tempo: c'erano tante cose di cui chiacchierare, tanti bigliettini da scriverci, tanti fard e ciprie e ombretti da provare e tante lezioni da fare, copiare o ripassare per le ore successive. Non so se qualcuno lo abbia mai ascoltato, ma credo che un gruppetto abbia fatto più di un onesto tentativo in proposito.
Non ricordo se mi mise qualche impreparato o se venni semplicemente interrogata tardi, in virtù di una serie di assenze strategiche, sta di fatto che al primo quadrimestre della prima avevo sei in pagella. In seguito mi stabilizzai su un rispettabile sette per entrambe le materie, facilmente gestibile perché avevamo elaborato una brillante strategia a base di volontari per le interrogazioni. Quando toccava a me studiavo, facevo la mia brava esposizione sugli ultimi capitoli del programma, incassavo il mio sette e questo era quanto. I miei compagni si regolavano in modo analogo; i più bravi, naturalmente, prendevano i voti più alti. 
Di solito alle interrogazioni il professor Ruf si faceva delle domande e si dava delle risposte e l'unica vera difficoltà era trovare il momento adatto per inserirsi e ripetere la nostra lezioncina. 
Il libro di testo di filosofia era il La Manna, a suo tempo assai famoso e carico di anni: ci aveva studiato anche mia madre, e ha sempre sostenuto di non averci mai capito niente - il che vuol dire, immagino, che almeno ci aveva provato. 
Io non mi facevo tanti scrupoli: seguivo i ragionamenti principali e li esponevo; perché quella brava gente ivi descritta si facesse tante seghe sull'essere, la conoscenza, il senso dell'esistenza e simili non lo sapevo e non mi interessava. Sospettavo che filosofia potesse essere meno insignificante di così,  perché avevo amiche in un'altra scuola che me ne parlavano come di materia assai interessante; ne conclusi che ero negata. In effetti non ero del tutto negata per la filosofia greca (che mi arrivava attraverso la letteratura), e più avanti negli anni scoprii una certa simpatia per Pascal e, attraverso un esame di filosofia medievale preparato con pazienza e devozione, imparai almeno a distinguere un filosofo medievale da un paracarro. Ad ogni modo, a tutt'oggi, l'intera mia conoscenza della filosofia dal 1600 ai giorni nostri si riassume nel detto "Le monadi non hanno finestre" - da cui era partita un'analisi con la mia compagna di banco che ci aveva portato a concludere che cotali monadi non spendevano nulla in Vetril ma molto in luce elettrica.
A storia invece era successo uno strano prodigio: mosso dalla convinzione che tre autori per tre periodi storici avrebbero garantito maggior accuratezza (convinzione, per quanto ho potuto constatare, assolutamente sensata) aveva scelto il Cracco-Prandi-Traniello, un manuale enorme, grande all'incirca il doppio degli altri manuali - anche perché conteneva più del doppio degli argomenti. Alle interrogazioni il professor Ruf chiedeva comunque dei sunti del Bignami, ed era risaputo che storia si studiava sul Bignami o pubblicazione analoga, e leggere il libro ufficiale era solo una perdita di tempo, quando non una complicazione inutile.
Io, che amavo molto la storia, continuai impavidamente per due anni a studiare sul libro di testo (salvo poi ripassare sul Bignami per le interrogazioni); in terza allentai molto le briglie, perché la storia contemporanea mi interessava meno. 
Quella moderna mi interessava abbastanza, invece, e andavo matta per quella medievale. Sul manuale di Cracco c'era di tutto: arabi, bizantini, disquisizioni teologiche, dinastie su dinastie, approfondimenti sulle tecniche agricole e artigiane, sul diritto civile e canonico, sugli ordini monastici e sulla letteratura... Quando le mie amiche dell'altra scuola mi mostrarono il loro manuale di storia mi sembrò una risciacquatura di piatti, al confronto. Scoprii in seguito che il Cracco era ritenuto un manuale a livello universitario (per quanto all'università ho visto accettare manuali molto più scadenti e addirittura lo Spini che, con tutto il rispetto, era davvero un po' datato per gli anni '80).
Così quel professore, che non ascoltai mai per partito preso, ebbe in realtà un'influenza molto profonda sulla mia vita, convincendomi che la filosofia non era pane per i miei denti (indipendentemente dal numero di finestre che può avere una monade) ma che la storia al contrario lo era moltissimo, e in particolar modo quella medievale.
Inoltre grazie a lui (e al signor Cracco, naturalmente) passai direttamente alla fase "il Medioevo era un'età molto ma molto ganza" saltando a pié pari quella de "il Medioevo è un'età buia e noiosa di decadenza e di mentalità ristretta" che ancor oggi ha grande e immeritata circolazione.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Il professor Ruf somiglia da vicino ad uno dei miei tre insegnanti di filosofia.
Il Polve, però, parlava con voce tonante, ci faceva usare lo Spini ed il bigino di filosofia che aveva scritto lui. Io, temerario e provocatore, gli facevo mille critiche. Polve si irritava, ma almeno sette me lo dava.

La prof ha detto...

Devo dire questo: che dopo la frase "un giorno, mentre faceva lezione, era morto e non se n'era accorto, Così aveva continuato a fare lezione. Visto che svolgeva il suo lavoro esattamente come prima"
ecco, ho pensato che parlassi anch per me. Che spavento.

lanoisette ha detto...

meglio non parlare della mia profe di filosofia e storia... una velina in cattedra...

La prof ha detto...

Il nostro ultimo prof di storia e filosofia (ultimo perché ero in terza liceo, poi non ne ho più avuti), era soprannominato Don Palottola (con una l sola), grazie al primo esempio filosofico che ci aveva fatto alla prima entrata in classe, che cominciava così: fe fifffsschia la palottola...

Murasaki ha detto...

Ohibò, ero convinta che il nostro fosse un caso patetico ma più unico che raro., e invece scopro che era nella media nazionale!
Comunque una velina sarebbe stata assai gradita. Sì, anche dalle femmine. Sarebbe pur sempre stata un diversivo!

@La prof
Non ho capito perché avrei dovuto parlare per te. E' pur vero che la nostra incrollabile (e deplorevole) dedizione al lavoro ci farebbe continuare imperterrite ad insegnare anche dopo morte...